1966: L’Inghilterra di Palumbo

22 luglio 1966 – Il primo giorno dopo Fabbri

Il campionato del mondo continua. Otto squadre sono già scomparse dalla scena del torneo. Cinque sono state eliminate, senza che la loro esclusione provocasse sorpresa: MessicoFranciaSvizzeraBulgaria e Cile non avevano motivo per alimentare valide speranze. Ha provocato invece legittimo scalpore l’eliminazione del Brasile, dell’Italia e della Spagna. Prima che il campionato avesse inizio, nella valutazione delle scommesse brasiliani ed italiani venivano affiancati agli inglesi, a parità di quota. La valutazione della squadra azzurra era indubbiamente arbitraria e infondata: le ambizioni si limitavano ai quarti di finale. Ma la fiducia che aveva saputo conquistarsi può spiegare lo sbalordimento con cui il mondo del calcio ne ha accolto la deludente prestazione.

L’esclusione della nazionale italiana rappresenta l’avvenimento più clamoroso della prima fase dei campionati del mondo. Persino l’eliminazione del Brasile provoca meno stupore. Si sapeva che la nazionale sudamericana attraversava un momento difficile; e si sapeva che non era riuscita a trovare un giusto punto di fusione tra gli esponenti della vecchia generazione e i giocatori più giovani.

Le grandi squadre, in ogni parte del mondo, nascono per circostanze occasionali; diventano irresistibili; e poi improvvidamente cominciano a declinare, senza che sia più possibile arrestarne il decadimento. A volte basta che si riduca il rendimento di un giocatore solo perchè l’efficienza dell’intera squadra ne risenta. Capitò anche alla nazionale italiana: campione del mondo nel 1934 e nel 1938, aveva già cominciato a declinare, quando poi sopravvenne la guerra. Il grande Torino, prima della tragedia di Superga, aveva già denunciato qualche segno di crisi. Anche la nazionale ungherese di Puskas e di Hidegkuti aveva accusato un calo di rendimento, prima che le vicende della risoluzione la sfasciassero. E’ capitato altrettanto anche al Real Madrid. Negli sport individuali, un grande campione può durare anche un decennio ed oltre. Nel calcio — nel quale le difficoltà degli sport collettivi vengono addirittura esasperate — la grande squadra segue sempre un ciclo. E quando giunge inesorabile il momento del declino, non c’è provvedimento che possa arrestarlo.

Il Brasile avrebbe infranto la regola, se fosse apparso irresistibile anche stavolta. L’unica sua arma poteva essere Pelé: una soluzione miracolistica. E gli avversari che lo sapevano, hanno subito puntato alle gambe (peraltro logore) del negro, obiettivo principale della «guerra al Brasile», dichiarata da tutti e sottilmente aumentata dagli inglesi. Nell’incontro con la BulgariaPelé è riuscito a salvarsi per mezz’ora, poi è stato duramente toccato. Contro l’Ungheria non è stato in grado di scendere in campo. Nella partita con il Portogallo, dopo trenta minuti si è ritrovato in barella. L’eliminazione del Brasile dai «mondiali» è avvenuta d’altra parte in un girone che era innegabilmente il più difficile del campionato.

Il girone più facile

L’eliminazione della nazionale italiana provoca maggiore stupore proprio perché non sussistevano alcuni dei motivi che potevano far prevedere una disfatta del Brasile: la squadra italiana era giovane, fresca, non aveva posizioni di predominio da difendere, aveva dimostrato di possedere una sua personalità, non intimoriva i padroni di casa, era capitata nel girone più facile del torneo.

Superato il primo impulso di rabbia e di sdegno, il convincimento generale è che l’elencazione degli errori di Fabbri — pur gravissimi, e avvenuti per immaturità o per emotività nei momenti decisivi del torneo — non può essere sufficiente a spiegare il comportamento della squadra italiana, soprattutto se si tiene conto che tale comportamento al «mondiali» si ripete puntualmente ogni quattro anni, quale sia il tecnico che la guida, e quali siano le squadre da incontrare. Ad avvalorare tale tesi, è sopravvenuta la eliminazione della Spagna, nella quale figuravano tre dei migliori giocatori del nostro campionato, a partire da Suarez, tutti esclusi dalla formazione dell’ultima partita, perché ritenuti inadatti a sostenere la tensione agonistica dei campionati del mondo. Persino Haller — che pur tanto aveva giovato alla vittoria della Germania sulla Svizzera e rappresenta senza ombra di dubbio il miglior giocatore tedesco — è stato tolto di squadra nell’incontro con la Spagna, perchè non idoneo ai principi tattici con cui la nazionale tedesca avrebbe dovuto affrontare la partita decisiva.

Quanto è accaduto in ogni tempo alle nazionali azzurre, e stavolta anche ai giocatori stranieri che militano in Italia, avvalora l’ipotesi — molto fondata — che i motivi delle nostre quadriennali delusioni siano da ricercare ben più profondamente di quanto abitualmente si faccia dopo ogni sconfitta. Al di là della immaturità dimostrata da Fabbri, esistono i malefici di un ambiente intossicato, il quale contorce la mentalità agonistica, la moralità sportiva, l’impostazione tecnica dei nostri giocatori; distrugge in loro ogni entusiasmo; deforma il calcio, da anni, attraverso interpretazioni di gioco rinunciatarie ripudiate da tutto il mondo; e coinvolge in un clima di rammollimento persino quei campioni stranieri che le nostre società vanno a comprare all’estero per rafforzarsi, e poi restituiscono irriconoscibili ai Paesi di appartenenza. Quel ch’è accaduto alla Spagna e a Suarez. dimostra chiaramente che l’ambiente del nostro calcio ha una responsabilità, precisa nelle ricorrenti crisi della nostra nazionale.

La prima soluzione

Sarebbe adesso troppo comodo ridurre l’analisi della disfatta lasciando tutto sulle spalle di Fabbri e rifiutandosi di vedere oltre. Se avesse giocato Picchi… se avesse giocato Corso… se non avesse giocato Rivera… Nossignori: se avesse giocato Picchi, avremmo accusato Fabbri di non aver fatto giocare Salvadore; se avesse giocato Corso, avremmo detto che avrebbe dovuto giocare Rizzo; quando non ha giocato Rivera, c’è stato chi lo ha rimpianto; quando ha giocato Pascutti, abbiamo invocato Barison; quando ha giocato Barison abbiamo invocato PascuttiHerrera ha dichiarato che è stata sbagliata la preparazione, troppo facile, con quattro partite tutte in casa; Facchetti, al contrario, ha sostenuto che i giocatori sono arrivati troppo stanchi agli impegni decisivi. Vogliamo, dunque, continuare a mentire a noi stessi, oppure vogliamo affrontare una buona volta, in onestà, i problemi veri che il nostro calcio da anni si trascina?

La gestione Fabbri è virtualmente finita. Si tratta solo di studiare una soluzione formale, ed economica, per scindere il rapporto del romagnolo con la Federcalcio. Proviamo quindi ad immaginare che questo sia il primo giorno successivo alla rimozione di Fabbri. Proviamo anche ad immaginare che sia stato nominato il suo successore: scelta peraltro difficile, in quanto è augurabile che lo «choc» seguito alla disfatta non faccia dimenticare quanto di buono è stato realizzato in questi quattro anni, attraverso un orientamento federale innegabilmente positivo. Commissario unico, indipendente dalle società, difeso da ogni interferenza. Si parla di Herrera. Soluzione ideale. Ma Moratti è d’accordo a cederlo alla Federcalcio? Un ritorno alla soluzione di coabitazione tra nazionale e club sarebbe un ritorno al caos del passato: ed è una delle poche cose che stavolta non si siano ripetute. Indietro sarà bene non tornare.

Immaginiamo, dunque, di aver già il successore di Fabbri. Cosa potrà fare di nuovo? Forse metterà Picchi al posto di Salvadore; forse sostituirà Pascutti con Riva. C’è qualcuno disposto ad assumere di fronte all’opinione pubblica la responsabilità di affermare che i problemi della nostra nazionale verranno così tutti risolti?

Martedì sera, mentre tutti gli italiani imprecavano contro Fabbri, un modesto allenatore nostro, Silvestri del Milan, ha avuto l’onestà di affermare: «Il nostro calcio sta attraversando un momento difficile ed è ormai chiaro che le regole di gioco pratico che sono valide per il nostro campionato, non servono o servono poco in campo internazionale. Tocca a noi tecnici cambiare strada». E’ questa la prima delle soluzioni che si impongono. Occorre tornare ad una interpretazione sportiva, aggressiva del calcio. La televisione ha portato i campionati del mondo in tutte le case: una sola squadra, solo quella italiana, interpreta il foot-ball soltanto per distruggere il gioco altrui, senza preoccuparsi di costruirne per proprio conto.

L’Uruguay, che passa per essere la squadra più rigorosamente difensiva, gioca prevalentemente chiusa in retroguardia, ma da ogni pallone conquistato trae lo spunto per costruire, sia pure con la sua tradizionale lentezza, un’azione di attacco. Soltanto gli italiani interpretano il calcio formando le barricate e restando ad aspettare che siano gli altri a giocare e ad attaccare. Cioè soltanto gli italiani hanno perduto l’abitudine ad anticipare gli avversari, a contrastare loro il pallone, a muoversi e a correre perchè una volta in possesso della palla l’azione possa proseguire. Durante le partite della squadra italiana, si son sentiti mille volte partire dalla tribuna irati rimproveri verso i giocatori — persino verso Bulgarelli, una mezz’ala! — che «osavano» andare troppo avanti. Come mentalità siamo fermi a quella dei tempi della multa data al mediano laterale o alla mezz’ala, che oltrepassavano la metà campo. E invece la multa dovrebbe essere data al mediano o alla mezz’ala che, dopo avere oltrepassato la metà campo, non siano solleciti a rioltrepassarla per tornare indietro allorquando le esigenze del gioco lo impongano.

Si sostiene che i nostri giocatori non siano «fisicamente» adatti a sostenere un tale ritmo di gioco. E per un po’ tutti hanno creduto a questa tesi, suggestiva, che partiva da premesse di carattere razziale. Ma ora che si son visti anche i sudamericani e i coreani giocare andando all’attacco e rientrare in difesa, ci sentiamo di sostenere che gli italiani siano i più deboli al mondo, sotto il profilo fisico? La verità è che l’abitudine ad un calcio di esasperata difesa — incoraggiato dai dirigenti di società, subito dagli allenatori timorosi di perdere il posto, bene accetto ai giocatori sottoposti a minore sforzo — ha fatto dei nostri calciatori i più smidollati che esistano al mondo. Il nostro campionato offre loro la possibilità di guadagnare molto più degli altri, e di lavorare molto meno: perché dovrebbero ribellarsi a così comoda situazione?

La responsabilità ricade tuttavia sui tecnici, che hanno avallato una così squallida interpretazione del calcio, distruggendo il senso agonistico dei giocatori. E la responsabilità non è soltanto dei tecnici delle maggiori società, ma anche di quelle piccole, che hanno battuto eguale strada, incoraggiati peraltro dalle direttive del centro federale di Coverciano dove il «calcio all’italiana» è stato propagandato per anni con ridicola enfasi, come la più sensazione conquista tecnica degli ultimi anni. I giocatori arrivano, cioè, alle grandi società dopo avere già assimilato i fondamentali principi di un calcio esclusivamente distruttivo. Si ironizza sulla fragilità dei nostri attaccanti: ma di chi è la responsabilità se non dei tecnici, i quali — ossessionati come sono dal gioco di difesa — appena si trovano fra le mani un ragazzetto robusto, e un po’ alto, lo avviano subito in retroguardia? Se Facchetti avesse giocato al calcio nel 1935, i tecnici dell’ epoca avrebbero cercato di farne un nuovo Piola; poiché ha cominciato a giocare al calcio nel 1960 è finito terzino. Ed è così inevitabile che a fare gli attaccanti restino i Meroni o i Rivera.

Aggiungiamo a tutti questi errori di impostazione, l’incidenza della facile ricchezza — che certo non induce ad affrontare i sacrifici richiesti da una seria attività professionale, e di certo consiglia di salvaguardare le gambe come prezioso patrimonio — e ci renderemo conto da quali mali profondi il nostro calcio sia afflitto. Perciò da sedici anni cambiano i commissari tecnici, ma non cambiano mai i risultati della nostra nazionale. Cosa potremmo quindi aspettarci dal nuovo C.U., se non cambierà qualcosa intorno a lui?

Limitare i prezzi

La Federcalcio ha lavorato molto bene in questi quattro anni. E i suoi meriti vanno doverosamente sottolineati proprio nel momento in cui con maggiore virulenza infuria la polemica ai «mondiali». Ma se vuole impedire che la sua azione in favore del calcio nazionale resti sterile — e si è visto invece quanto esso stia a cuore all’opinione pubblica — è necessario impostare con altrettanta serietà un programma di riorganizzazione tecnica e tattica del gioco e dei giocatori, incoraggiando e premiando quegli allenatori piccoli e grandi i quali più attivamente collaboreranno a questa azione ormai improrogabile, senza la quale ogni altro sforzo sarà costantemente frustrato.

Se si incontrassero resistenze, esiste una soluzione drastica: riaprire le porte ai migliori allenatori stranieri. Da quel che si è visto ai «mondiali» non c’è dubbio che i nostri hanno ancora molto da apprendere. Se i tecnici italiani non intendono collaborare al miglioramento del loro calcio, non vanno più protetti.

Un’azione del genere dovrebbe essere poi completata da una limitazione dei prezzi di ingresso negli stadi. I nostri calciatori non meritano che si paghino per loro ottomila lire per un posto in tribuna o duemila nei popolari. Il nostro è il calcio più costoso che esista al mondo. Riduzione dei prezzi di ingresso significa riduzione degli ingaggi, degli stipendi, del premi di partita. Significa cioè far ricadere giustamente sugli allenatori e i giocatori le conseguenze concrete e le meschine figure cui essi hanno esposto il nostro calcio, e dell’infimo livello cui lo hanno portato. E’ probabile che toccati finalmente nei loro interessi, tecnici e giocatori ritrovino il gusto del gioco. Se non accadrà, il successore di Fabbri, fra quattro anni, licenziato, dovrà trovarsi un posto.