1966: L’Inghilterra di Palumbo

29 luglio 1966 – Il terzo posto è del Portogallo, battuti i russi a 2’ dalla fine

Ai campionati del mondo, le partite per il terzo posto sono sempre venate di malinconia. E’ il confronto tra due squadre deluse, amareggiate dal rimpianto; entrambe hanno sempre un motivo per ritenere di aver mancato la grande occasione per essere le protagoniste della finalissima. Anche stavolta è così. La Russia ripensa alla semifinale con la Germania: ha meritato di perdere, ma come sarebbe finita se Szabò non si fosse infortunato e se Cislenko non si fosse lasciato stupidamente espellere? Il Portogallo ripensa alla semifinale con l’Inghilterra: ha meritato di perdere, ma come sarebbe finito se Simoes non avesse mancato clamorosamente, nel drammatico finale, il pallone del «2-2»?

La tensione di lunghe settimane si stempera in una cocente amarezza. I nervi si scaricano. Mentre le due protagoniste della finalissima trovano mille motivi per stimolare il loro orgoglio, le due squadre destinato ad affrontarsi per il terzo posto si logorano nei rimorsi, talvolta anche in accuse sottintese.

Generalmente anche all’arbitro mancano motivi validi per essere soddisfatto: chi arriva a dirigere la partita per il terzo posto, ritiene di essere stato defraudato del suo diritto a dirigere la finalissima. Stavolta però l’arbitro inglese trova conforto nella qualificazione della nazionale britannica per la finalissima: ciò gli impedisce di considerarsi vittima di una ingiustizia. E’ la sola variante alla fisionomia consueta d’un incontro valido solo per meglio delineare la gerarchia del calcio mondiale. Il pubblico, formato in prevalenza da inglesi e tedeschi, annoiato dallo squallido spettacolo, ha preferito fare la prova generale della grande sfida di sabato: ogni qual volta gli inglesi scandivano «England, England», i tedeschi rispondevano martellando il loro grido di guerra: «Uwe, Uwe», che è un atto di omaggio al centravanti Seeler, ritenuto per la sua grinta, la sua caparbietà, il suo coraggio, il più caratteristico esponente del calcio tedesco. Sabato a Wembley vi sarà battaglia grossa in campo e in tribuna.

Ha vinto il Portogallo, ed è giusto. In un campionato del mondo dominato dalla forza la squadra portoghese è stata la sola a rappresentare dignitosamente il calcio fondato sulla tecnica. Dove è fallito il Brasile, dove sono state sconfitte le squadre sudamericane, dove non ha avuto ruolo il calcio francese, dove è stata travolta la nazionale italiana, il Portogallo non solo ha resistito ma riuscito a inserirsi nel gruppo delle migliori quattro squadre del mondo. In una rassegna nella quale il gioco collettivo ha sopraffatto i valori individuali, in un campionato nel quale persino Pelé non ha avuto ruolo, il Portogallo ha espresso Eusebio, virtuale vincitore della classifica dei cannonieri, uno fra i più incisivi uomini-gol che il calcio mondiale abbia mai espresso.

Soltanto il francese Fontaine nel 1958 in Svezia e l’ungherese Kocsis nel 1954 in Svizzera hanno segnato più gol di lui nell’ormai lunga storia del campionati del mondo. Il Portogallo ha partecipato per la prima volta alla massima rassegna del calcio: può essere soddisfatto del suo bilancio che forse sarebbe stato più apprezzabile se la nazionale lusitana avesse avuto il sostegno di una retroguardia. e soprattutto di un portiere più efficiente. Anche stavolta Pereira ha messo in difficoltà la sua squadra, così com’era accaduto in semifinale contro gli inglesi. La nazionale portoghese era andata in vantaggio dopo appena 13’. Su uno dei tanti palloni alti che i portoghesi usano lanciare verso il lungo Torres era saltato Khurtsilava, un difensore forte ed efficace, ma troppo basso per poter contrastare validamente il suo avversario. Sovrastato, Khourtsilava si aiutò protendendo un braccio e deviando il pallone con una mano. Rigore. Eusebio contro Jascin, faccia a faccia.

Un duello di giganti. Silenzio sul campo, mentre i due rivali, i nervi tesi in una concentrazione spasmodica, si preparavano alla fulminea sfida. Il pallone partì violentissimo dal basso in alto, verso l’angolo alla destra del portiere sovietico. Jascin intuì la traiettoria, si protese, ma non riuscì a sfiorare il pallone. Aveva vinto Eusebio. E prima di riportarsi a centrocampo, il cannoniere si avvicinava al rivale per rincuorarlo affettuosamente.

L’avvio della partita sembrò alimentare liete speranze. Adesso si sarebbe scatenato Eusebio alla ricerca di un’affermazione di prestigio, che gli consentisse di riscattare la grigia prova offerta contro gli inglesi. Adesso si sarebbe scatenata la Russia, decisa a imporre anche nella partita per il terzo posto la superiorità del calcio atletico. Poteva nascerne una grande partita. Non avvenne nè una cosa nè l’altra. Eusebio fu controllato e fermato d’abilità dal bravissimo Voronin. La Russia si distese all’attacco con la consueta monotona manovra appena ravvivata da qualche fantasiosa sgroppata di Metreveli.

La nazionale sovietica aveva profondamente rinnovato i suoi ranghi, soprattutto in difesa, mandando in campo uomini più freschi. Ma non ne aveva guadagnato nè in pratica nè in efficienza. Se occorreva una conferma per dimostrare che il girone toccato alla nazionale azzurra era il più facile, questa conferma si è avuta proprio stasera.

La debolezza della retroguardia portoghese favorì comunque il recupero dei sovietici. Due o tre volte Malafeev, stranamente disorientato in fase conclusiva dopo essere stato nel corso del «mondiale» l’attaccante più insidioso della nazionale sovietica, sbagliò il pallone del pareggio. Ma provvide il portiere Pereira a realizzare ciò che i russi, da soli, non riuscivano a ottenere. Al 43’ del primo tempo, infatti, un pallone calciato dalla destra, da Metreveli, e carico di effetto, sfuggì dalle mani protese del portiere portoghese, lo superò e si avviò a entrare in porta: forse avrebbe egualmente superato la linea, ma provvide Malafeev, arrivando in corsa insieme a Banichevski, ad accompagnarlo in fondo alla rete.

Per lungo tempo, nella ripresa, si ebbe la sensazione che la partita si sarebbe conclusa sull’uno a uno. L’incontro si fece sonnolento. Perfino Jascin perse d’improvviso la necessaria concentrazione, provocando stupore nella platea che lo aveva accolto con una lunga ovazione, e sbagliò un paio di respinte di pugno.

Ai russi si presentò un’occasione per segnare al 23’, quando scattò Banichevski, in solitario contropiede, ma il portiere Pereira lo «stese» con un fallo che avrebbe meritato un intervento da parte dell’arbitro. Mancavano due minuti alla fine — e le due squadre parevano ormai destinate ad essere classificate alla pari al terzo posto — quando un pallone lanciato da Hilario, e scambiato di testa tra Augusto e Torres, consentì ai lungo centravanti portoghese di trovarsi solo davanti a Jascin: gol imparabile.

Jascin aveva sognato più felice epilogo per la partita conclusiva della sua carriera. Anche i suoi compagni avevano forse sperato di più. Traspare dal nervosismo con cui accolgono il verdetto. I portoghesi tentano invano di ottenere lo scambio delle maglie. Restano a torso nudo, ma i sovietici respingono la loro offerta. Da anni i russi tentano invano di conquistare un ruolo di preminenza nel calcio mondiale. Ed anche questa volta hanno ottenuto il miglior risultato della loro storia — infatti non erano mai riusciti a superare i quarti di finale — ma le ambizioni di partenza sono state deluse. Ai russi appare quasi incredibile di non riuscire a conquistare nel calcio ciò che essi hanno raggiunto in tutti gli altri settori dello sport. In pochi anni di intenso lavoro — applicando un sensazionale programma di diffusione dello sport — essi sono riusciti a produrre saltatori, velocisti, pugili, canottieri, tiratori, ginnasti, persino velisti di eccezionale valore; sono riusciti a contrastare, e talvolta a superare, l’antica tradizionale superiorità degli americani. Solo il calcio implacabilmente li boccia.

La spiegazione, forse, non è difficile. In molti sport il successo deriva da un’idonea selezione del materiale umano e da una metodica applicazione dei più moderni ritrovati della tecnica. Nel calcio, invece, c’è anche bisogno di un pizzico di fantasia. La personalità del singolo giocatore, nel calcio, può avere una funzione a volte determinante. Invece le squadre sovietiche susseguitesi al campionati del mondo, hanno avuto sempre un identico gioco, condotto sempre allo stesso ritmo, eseguito sempre attraverso prevedibilissimi schemi, con giocatori a volte addirittura indistinguibili l’uno dall’altro.

Stavolta sembrava che la personalità di Banichevski e di Malafeev potesse consentire alla nazionale sovietica d’interpretare il calcio con maggior fantasia. Ma nel momento delle partite decisive gli antichi difetti sono improvvisamente riaffiorati. Il calcio continua a ribellarsi a chi ritiene di poterlo scientificamente programmare. Le sconfitte del foot-ball sovietico, dal giorno in cui i russi si presentarono per la prima volta nell’arengo mondiale — e sono ormai quattordici anni — innegabilmente lo dimostrano.