1966: L’Inghilterra di Palumbo

31 luglio 1966 – L’Inghilterra Campione del Mondo

Sventolano le bandiere degli inglesi che hanno vinto; sventolano le bandiere dei tedeschi che hanno perduto. Sfilano di corsa, davanti alla folla esultante, i giocatori inglesi vittoriosi; sfilano di corsa, davanti alla folla plaudente, i giocatori tedeschi sconfitti. Ancor prima di festeggiare i nuovi campioni del mondo, Wembley esalta i protagonisti di una partita drammatica, passata attraverso tutte le emozioni, resa vibrante dai più repentini mutamenti di punteggio, prolungatasi nei tempi supplementari; giocata senza un attimo di respiro, interpretata con esaltante vigore ma anche con magnifica correttezza. La folla, quella di parte tedesca e di parte inglese — sin qui divisa dalle speranze, dalle delusioni, dall’amarezza, dalla gioia; e fra poco di nuovo separata dalle inevitabili polemiche che si intrecceranno sulla validità del terzo gol inglese, il gol decisivo — si ritrova adesso compatta nel gridare i suoi evviva ai 22 esausti gladiatori.

E’ stata una partita di calcio, ma è stata anche una sfiancante – maratona. I giocatori, quelli che ridono e anche quelli che piangono, hanno il volto scavato dalla fatica, lo sguardo vitreo, l’andatura stanca, i crampi alle gambe. Mentre salgono la scala che li conduce al palco dov’è la regina, taluni incespicano, uno cade. Devono sorreggerli. L’ultimo quarto d’ora è stato — su quel terreno scivoloso e attaccaticcio — penoso e commovente insieme.

Un campionato del mondo dominato dai forti, condotto secondo le leggi del vigore atletico, ha trovato nella partita conclusiva la sua esaltazione. Una finale diversa — decisa da un gol astuto, una finale che non avesse affidato la sua soluzione alla resistenza fisica, coraggio, carattere; una finale giocata al risparmio, una finale nella quale una squadra o l’altra si fossero supinamente rassegnate ad accettare la sconfitta — avrebbe tradito sia lo spirito, sia l’impronta del calcio con cui gli inglesi e i tedeschi sono giunti ai vertici del valore mondiale.

Perciò la folla di Wembley concorde li applaude; perchè essi non hanno tradito, anche a prezzo di una immane fatica. Gli inglesi hanno subito un gol nelle prime fasi di gioco e hanno reagito rabbiosamente; i tedeschi sono arrivati in svantaggio a pochi secondi dallo scadere dei 90’ ma non si sono rassegnati e hanno trovato la forza per raggiungere ancora il pareggio; gli inglesi — anziché abbattersi per la psicosi di un titolo mondiale che pareva sfuggito — hanno ripreso caparbiamente a lottare per ottenerlo; battuti da un gol discusso sulla cui validità ha deciso l’intervento d’un guardalinee, i tedeschi, anziché abbandonarsi a scene d’isterismo, hanno ripreso a lottare, sia pure invano, con disperata rabbia, profondendo le ultime energie nella estrema speranza di evitare la sconfitta. Hanno vinto gli inglesi, hanno perduto i tedeschi. Ma quando il calcio viene onorato così — con estrema lealtà e con maschio vigore — non vi può essere gerarchia nell’applauso fra vincitori e vinti.

Un impegno d’orgoglio, contratto con la folla; contratto con un popolo che è il più sportivo del mondo. Per giungere a quel traguardo un tecnico ha rivoluzionato i vecchi schemi del gioco inglese, senza però tradirne il lontano spirito leonino. Adesso l’Inghilterra manovra con moderne concezioni, attraverso un movimento collettivo che consente all’intera squadra di distendersi all’attacco come di racchiudersi altrettanto prontamente in difesa. Ma lotta con la stessa grinta di sempre.

All’inizio della partita, in tribuna stampa, nel gruppo dei giornalisti italiani, ci si rivolgevano ansiose domande sui criteri di marcatura: «Ma chi hanno messo su Haller? Ma con chi controllano Seeler? Chi sta a fare la guardia a Emmerich?». E quando ci s’illudeva di aver trovato la «chiave» — su Haller ci sta Stiles; su Seeler ci sta Charlton; su Emmerich ci sta Wilson — ci si accorgeva che non era vero nulla. Bastava che la squadra si stendesse all’attacco perchè tutto il piano tattico che si era creduto di aver capito, immediatamente si trasformava. Chi stava indietro, di colpo si ritrovava avanti, in una realizzazione mobilissima del gioco, attraverso una attuazione polivalente — tutti in difesa, tutti all’attacco — quale da noi, legati a una interpretazione statica del gioco, non si concepisce più.

Questa è l’Inghilterra che Ramsey, resistendo a furiose critiche, ha preparato attraverso tre anni di intenso e serio lavoro, sfruttando le qualità combattive ed atletiche dei giocatori inglesi, ma obbligandoli ad una disciplina di gioco che essi non avevano mai voluto accettare. Il tecnico inglese non disponeva di uomini di alta classe: la Germania ne aveva di più, anche se — Haller per primo — hanno quasi tutti deluso. L’Inghilterra ha vinto, e giustamente, perchè è stata più «squadra». Perciò dalle tribune di Wembley, oggi, non si è gridato solo «England, England», ma anche «Ramsey, Ramsey».

Sulla spavalda sicurezza di Ramsey, dopo dodici minuti di gioco cadde, d’improvviso, il dubbio di un gol dei tedeschi. La squadra germanica non si era ancora vista all’attacco, sino a quel momento. Bobby Charlton aveva cominciato dominando l’elegante Beckenbauer.

Uno strano gol

La Germania applica un «catenaccio» rigoroso, all’italiana, frutto evidente delle esperienze condotte in Italia nel nostro campionato da Haller. Il «libero» tedesco Schulz non si muove mai dall’area di rigore: è andato avanti, oggi, solo nell’ultimo quarto d’ora, nel disperato tentativo di rovesciare una situazione ormai compromessa. Avere affidato Charlton a Beckenbauer sembrò un errore, in quanto costringeva il laterale tedesco a seguire l’andirivieni del dinamico giocatore britannico, impedendogli di sfruttare il suo insidioso tiro. Se sia stato davvero un errore, è difficile stabilirlo: è vero che Beckenbauer si vide poco all’attacco, ma è anche vero che Charlton ha avuto una parte meno importante del consueto nella vittoria inglese.

Ma di questo si discuteva, e si avanzavano tristi presagi sulla sorte della squadra tedesca, allorché all’improvviso la Germania andò in vantaggio. Fu un gol strano, come strani furono molti dei gol della giornata, quasi a stabilire uno stridente contrasto tra l’alta drammaticità della partita e la banalità di talune delle fasi che la decisero. Era il dodicesimo. Per un fallo sull’insidioso Seeler, vi fu una punizione battuta da Held. Il pallone ricadde a spiovente, verso l’area inglese. Il terzino sinistro Wilson, emozionato, ribattè corto la palla che finì sul piede di Haller. Il tiro fu pronto ma non forte. Sulla traiettoria, si trovò Jackie Charlton. Forse il portiere britannico ritenne che sarebbe stato lui a rimandare. Forse Charlton pensò che il portiere fosse appostato alle sue spalle. Il pallone beffardo passò fra i due e finì in rete.

Molti ricorderanno che solo l’Uruguay nel 1930 e la nazionale italiana, nel 1938, riuscirono a conquistare il titolo mondiale, pur avendo segnato per primi. Ma quale valore si poteva dare ad un ricorso storico ora che la Germania — squadra massiccia ed esperta — godeva del vantaggio di un gol, ed ora che gli inglesi avrebbero inevitabilmente risentito del nervosismo? Ma questi sono discorsi che vanno bene con i latini, con gli italiani. Gli inglesi non sanno cos’è il nervosismo.

Reazione britannica

E’ Moore a guidare il gioco britannico. Bobby Charlton si vede poco e Moore splendidamente lo sostituisce nella regìa. Quanto al ritmo vi provvedono due ragazzi, i più criticati della squadra di Ramsey: le due ali Ball (pel di carota, rosso e litigioso), e Peters mai fermi nella loro posizione, instancabili nel recuperare sugli avversari e nel contrastarli.

Il gol che premia la reazione britannica è però anch’esso un gol banale. Scaturisce, come il gol tedesco, da una punizione. La tira Moore. E’ un lungo lancio verso destra. I tedeschi restano tutti fermi, imbambolati. Forse si aspettano che esca il portiere. Tilkowski si aspetta forse che intervenga qualche compagno. Dalla destra arriva Hurst e di testa mette in rete.

Adesso è la Germania a ripresentarsi all’offensiva. Ma si avvertono già i segni della inferiorità che ne determinerà la sconfitta: a centro campo la manovra britannica — avvantaggiata dalla presenza di un uomo in più rispetto ai tedeschi, che tengono fermo in area il libero Schulz — crea una frattura nella nazionale germanica.

Invano Schnellinger, il migliore della squadra germanica, tenta di superare il vuoto a centrocampo con lunghi rilanci. Invano Seeler si batte come un leone, saltando più in alto dei difensori britannici e talvolta affrontandone anche due insieme. Da solo, non può farcela. Emmerich è troppo grezzo: i difensori inglesi, arrivandogli addosso, non gli consentono mai di piazzare il suo formidabile tiro, l’unica arma pericolosa di cui disponga. E Haller, segnato il gol, è scomparso. Sarà la più deludente partita di un «mondiale» di cui era stato sinora un buon protagonista.

La partita resta inchiodata sull’uno a uno fino al 32’ della ripresa: e a doversene lamentare sono più gli inglesi, che mancano preziose occasioni per realizzare. La retroguardia tedesca, per quanto rinforzata, non riesce a controllare l’ampia insistente manovra della squadra britannica che, quando attacca, si rovescia interamente nella metà campo avversaria. Hunt sbaglia un paio di gol, solo davanti al portiere. Bobby Charlton si vede poco. Ci si domanda se gli inglesi non debbano essere puniti per aver sprecato tanto. Potrebbe accadere. Ma non è gente che si demoralizza. Insistono. Un tiro di Charlton fa passare di un soffio il pallone al di là del palo, a portiere battuto. Noi italiani saremmo capaci di discutere per mesi su quell’occasione. Non facemmo così per un gol sbagliato da Pivatelli a Budapest?

Gli inglesi, anziché discutere sulle occasioni che sbagliano, ne creano delle altre. E approfittano della incessante superiorità a centrocampo, stringendo d’assedio la squadra tedesca. Un angolo, un altro. Un difensore germanico ribatte il pallone fuori area. Gran tiro di Hunt. Il pallone schizza sul piede del terzino Hottges, e s’impenna: arrivano, in corsa, in due, Peters e Ball, e il primo scaraventa in rete. 2 a 1. Mancano tredici minuti alla fine. L’Inghilterra è «quasi» campione del mondo.

Qualche giocatore inglese tenta talvolta di perdere tempo, con passaggi all’indietro al portiere. Il pubblico lo fischia. Non rientra nello spirito dello sport. Bobby Charlton, quando ormai mancano due minuti alla fine della partita, e ha accanto a sè tre compagni con i quali scambiare la palla, quanto basterebbe perchè il tempo scadesse, tenta invece una soluzione personale Non si adatta a un calcolo. Vuole segnare anche lui. Invece lo fermano. Sulla respinta, Stiles compie un fallo su Emmerich. C’e la punizione. Stiles protesta. Forse sente che quella punizione può essere fatale agli inglesi. Dienst lo rimprovera con fermezza (dopo avergli consentito proteste che forse non sarebbero state consentite a un giocatore d’altra squadra). Batte Emmerich. Il pallone schizza sulla barriera, e Held, attivissimo, dopo un primo tempo deludente, lo rimette verso il centro. Si vede anche la mano di un inglese protendersi verso il pallone. Dalla destra arriva in corsa Weber, un difensore, e segna. Nello stesso momento scocca il novantesimo Per la seconda volta, nella storia del «mondiale», il titolo verrà assegnato nei tempi supplementari: il «precedente» riguarda l’Italia, che lo vinse nei «supplementari», a Roma, contro la Cecoslovacchia.

Anche nel supplementari gli inglesi confermano la loro superiorità. Hanno accettato il gol — un gol che potrebbe togliere loro il «mondiale» —- senza batter ciglio: neanche un gesto di disperazione. E’ nella legge dello sport prendere un gol all’ultimo minuto di un campionato. E tornano ad attaccare.

Ormai neanche Schnellinger ce la fa più a rifornire l’attacco germanico con i suoi lunghi rilanci. E’ stanco e si massaggia le gambe. E’ sempre l’Inghilterra a comandare. Charlton finalmente emerge e tira: il pallone è respinto dal palo.

Ma è proprio vero che gli dei del calcio oggi sono contro gli inglesi? No, non è vero. All’11’ è ancora il diabolico piccolo Ball a portare il pallone verso l’area tedesca. Il suo passaggio coglie Hurst a pochi passi dalla rete germanica. C’e un terzino alle spalle dell’attaccante britannico; ma Hurst compie un mezzo giro su se stesso e si smarca. Il pallone parte violento dal basso in alto: schizza sotto la traversa. Taluni vedono la rete scuotersi, altri no. L’arbitro Dienst resta interdetto. E guarda verso il segnalinee. Poi gli va incontro, chiede a lui il parere decisivo. E il guardalinee, un sovietico, indica il centro del campo. Anche talune riprese televisive confermeranno più tardi la validità. E’ gol. E’ il gol che assegna il titolo mondiale. I tedeschi accettano con disciplina.

Dall’ultimo sforzo disperato i tedeschi ottengono qualche calcio d’angolo, ma non riescono più a farsi pericolosi: Haller si sottrae alla lotta, Seeler è sfinito, Beckenbauer non trova mai gli spazi per tirare. Va avanti, adesso, anche il «libero» Schulz. Tutta la squadra tedesca si rovescia nell’area inglese in una disperata commovente offensiva. Ma le idee sono ormai annebbiate, i muscoli cedono. Gli scatti sono frenati dai crampi. I tedeschi, se vogliono attaccare, non possono più cautelarsi in difesa. E un rilancio di Stiles li coglie del tutto scoperti. E’ l’ultimo minuto della partita più lunga. Cinque o sei ragazzini stanno già entrando in campo per festeggiare i loro «eroi»: l’inesorabile Hurst scaraventa in rete il quarto pallone. Gli inglesi sono per la prima volta campioni del mondo. E il calcio ha scritto un’altra avvincente pagina della sua bella storia.