«Si disse che la squadra era spaccata in tanti clan. Potrei aggiungere che fu forse un errore avere al seguito troppe persone che comandavano: Carraro, Franchi, Allodi»
Italia-Haiti, sessantanovesimo minuto: il più lungo nella storia azzurra di Giorgione «Long John» Chinaglia, il centravanti della Lazio tricolore e di quella Nazionale italiana che nel 1973 violò per la prima volta il santuario londinese di Wembley. La squadra di Valcareggi sta digerendo a fatica il modesto avversario centroamericano nella partita d’esordio dei Mondiali. Mille errori in attacco, il piccolo portiere haitiano, Francillon, che para tutto e quando non para viene colpito dagli approssimativi tiri dei nostri. Poi la doccia fredda, il gol del carneade Sanon, l’incubo coreano dissolto da una rimonta propiziata da una giocata di Rivera e da un’autorete di Auguste. E a quel punto…
Questi i ricordi del compianto Chinaglia:
«Valcareggi decise di sostituirmi con Anastasi. La cosa non mi entusiasmava, credevo volessero fare di me il capro espiatorio di una giornata poco felice. E’ vero, ci eravamo mangiati un sacco di gol, ma io non ero certo più colpevole degli altri. Fatto sta che, in qualche modo, accetto la decisione e comincio ad allontanarmi dal campo. Quand’ecco che, guardando la panchina, mi accorgo che tutti mi stanno applaudendo. Eh no, questo è troppo. Ho pensato a una presa in giro e la reazione mi è venuta spontanea: ho alzato una mano, ma non per fare un gestaccio. Mi limitai a scuoterla, come dire: lasciate perdere, levatevi dai piedi».
E invece successe il finimondo. Quella corsa di Chinaglia verso gli spogliatoi dello stadio di Monaco è entrata nella piccola leggenda azzurra come uno dei più clamorosi atti di insubordinazione.
«Sono stato frainteso. Un semplice segno di insofferenza è stato scambiato per un atto osceno, per una manifestazione di volgarità, quasi di insulto alla bandiera e alla patria. Niente di più falso, ma allora dovetti assistere quasi impotente alla marea di polemiche che mi sovrastò. Arrivò anche il povero Maestrelli, il mio allenatore nella Lazio, a calmarmi, ma io ero tranquillissimo».
La ribellione di Giorgione Chinaglia non fu che l’immagine-simbolo di una spedizione sbagliata, forse perché nata sotto auspici troppo ottimistici.
«Arrivammo in Germania come favoriti. Da due anni non perdevamo una partita, e Zoff deteneva un record incredibile di imbattibilità. E poi avevamo espugnato Wembley, battuto il Brasile. Insomma, ce n’era abbastanza per montarsi la testa. Al resto contribuì il brutto clima del ritiro pre-mondiale. Per motivi di sicurezza, vivevamo praticamente segregati dal resto del mondo. L’unico contatto era quello con i giornalisti, e quindi non poteva certo essere un incontro rilassante…».
Il rimpianto serpeggia ancora nelle parole di Chinaglia.
«Si disse che la squadra era spaccata in tanti clan. Potrei aggiungere che fu forse un errore avere al seguito troppe persone che comandavano: Carraro, Franchi, Allodi. Ma la realtà è che se non fossimo usciti al primo turno per differenza-reti, avremmo potuto realizzare con otto anni di anticipo il miracolo riuscito agli azzurri di Bearzot in Spagna. Riva, Rivera, Capello, Mazzola, Causio: eravamo fortissimi, i più forti di tutti. Ma non facemmo in tempo a dimostrarlo. Sarebbe bastato approdare in qualche modo alla seconda fase e lì, sono sicuro, il gruppo si sarebbe ricompattato e avrebbe fatto grandi cose. Peccato. Insomma: il gestaccio lo rifarei, il resto no. Soprattutto vorrei tornare indietro per segnare un paio di gol in più ad Haiti: così io non sarei stato sostituito e l’Italia si sarebbe qualificata…».