Ezio Pascutti: dietro ogni gol una nuvola d’ira

Intervista rilasciata al Corriere della Sera nel gennaio del 1994. Il bomber friulano, scomparso nel 2017, rievoca tra nostalgia e rimpianto i suoi anni migliori


L’ala sinistra sta a Bologna da quarant’anni e ormai lo chiamano per ruolo. “Ohè , alasinistra“. Quell’edicola, il solito bar, lo stesso ristorante. La vita di sempre. Ezio Pascutti si muove dentro un suo territorio, ogni giorno ne segna i confini.

«Abito là dietro, via Riva di Reno, mai cambiato. E mia moglie l’ho conosciuta qui. Usciva dalle scuole e passava davanti al bar, tutte le mattine. Dai e dai ci siamo sposati».

Erano i luoghi della conoscenza, della presa di possesso; i pasti e i posti caldi di un ragazzo arrivato in città dalla bassa friulana che aveva 17 anni. Oggi sono il corrimano per tenere su lo spirito quando l’umore fa le bizze, per restare saldi quando arrivano le ventate della vita «perchè Bologna non è più la stessa, è cambiata come è cambiato ovunque, i giovani hanno problemi, situazioni difficili che vivi sulla tua pelle». Quel corrimano aiuta anche la gamba sinistra a trascinarsi. Perché l’ala sinistra la sua gamba l’ha lasciata da qualche parte, dietro un tackle o un fallo assassini, dietro 5 operazioni e un logorio che l’ha stancata. Oggi, quando non va in motorino, se la porta appresso con una zoppia che sembra un saltino, come se avesse da evitare ancora un’entrata di Burgnich.

«L’avversario vero è stato lui, il mio compaesano. Soffrivo i piccoletti: Poletti, Losi, erano frecce. Ma il più grande è stato Tarcisio: da Ruda a casa mia saranno 15 chilometri, in campo parlavamo furlan e litigavamo sempre. Quel gol in tuffo, nel 1966, non lo dimenticherò mai, lui rallentò la palla con la mano, Sarti arrivò a toccarla ma fu rete lo stesso: Bologna Inter 3-2. L’ immagine vinse il premio di fotografia del mese. Poi, quando Tarcisio è venuto a fare l’allenatore al Bologna, ho fatto l’osservatore per lui».

Maurizio Parenti, storico fotografo dell’Ansa, catturò l’immagine del gol in tuffo di Pascutti, che è diventata leggendaria: anche Burgnich lo ringraziò

Ezio Pascutti sta dentro un’iconografia arcinota: un nugolo di gol dentro una nuvola d’ira. Ma quella nuvola, con la sua aneddotica gonfia di giornate e giacchette nere, pesa bassa sulle sue imprese e smarrisce i contorni di cifre che sono da capogiro. Perché quella “chierica” impertinente che protestava con gli arbitri e gli avversari, che il pubblico beccava con l’acrimonia che solo una massa anonima sa avere, ha segnato in campionato 130 reti senza rigori.

«E in sole 294 partite. Senza rigori ho segnato più di Riva, Savoldi e parecchi altri. E ho ancora un record anche se nessuno lo ricorda: torneo 1962/63, sempre in gol nelle prime 10 giornate. E in nazionale, 17 presenze e 8 reti. Squalifiche? Tredici turni in 15 campionati, non mi sembra di essere stato un mostro. Diciamola tutta, quando passi per un attaccabrighe, gli arbitri non fanno niente per aiutarti. Non si rendevano conto che era difficile giocare in un mare di fischi. Un giorno a Genova mi dissi: “Li frego tutti“. E misi i tappi nelle orecchie, ma il mondo mi girava intorno e dovetti toglierli. L’unico arbitro per il quale ho avuto un gran rispetto è stato Lo Bello, lui mi capiva. Mi ricordo a Roma, 2-0, due gol miei. Non la smettevo di esultare. Lo Bello si avvicina e mi dice: “Bene cosi, stai calmo che li prendiamo per il culo tutti“. Perché quando sei fischiato, offeso, e gli fai due gol ti viene voglia di scaricare i nervi, ma lui non voleva che facessi gesti da farmi cacciare. Capiva la mia situazione, non era legato al gregge».

E se non capiva, doveva almeno intuire quali rabbie fermentavano dentro quel ragazzo che prendeva ogni cosa a muso duro, prima di tutte la palla: d’istinto, così come viene. Gol acrobatici, spettacolari, marchio di fabbrica; ma anche errori grossolani. Il gesto atletico era così rapido che spesso rincorreva l’intenzione, l’appaiava, finiva per coincidervi. E la palla finiva chissà dove.

«E vero, sbagliavo i gol facili. Una volta con l’Udinese, in Coppa Italia, stavamo 2-2 e mancavano tre minuti alla fine. Vinicio va sul fondo e mette in mezzo. Colpisco sicuro da tre metri e mando alto. Quante me ne disse Vinicio. Supplementari e io fremevo perchè alle 5 avevo il battesimo di mia figlia. Rigori. Dico: “Tiro io il primo, così vado subito sotto la doccia“. Rincorsa, sbagliato, eliminati. Capitavano anche giornate così».

Anche Bologna lo ha fischiato qualche volta, ma poi ha voluto bene a quel ragazzo che divenne mancino tirando palloni contro un muro, al friulano testardo, terzo di tre fratelli, che in campo metteva la testa tra i garretti altrui con quel coraggio onesto di chi si sente, assieme, miracolato e bastonato dalla vita. Ricordi di una casa di campagna, Chiasiellis di Mortegliano, tra la strada e il granturco.

«C’è Enea, il secondogenito, che parte per il Canada. E il 1948 e io ho 11 anni. Mio fratello era un grande giocatore, andò a Chieti, si fece male, lasciò il calcio. E seguì il destino del mio paese: 450 persone, 250 emigrate in America. La terra non rendeva niente, troppo arida. Ricordo Enea che torna la prima volta e mi dice “Devi imparare a calciare di sinistro, in Italia non c’è una buona ala sinistra dopo Carapellese”. Mi esercitavo per ore e se mi arrischiavo a dare di destro mi prendeva a calci nel sedere. Può essere stata la mia fortuna. Poi Enea riparte per l’America e quando ritorna io sono un calciatore vero, ho già vinto lo scudetto col Bologna, sono stato ai mondiali in Cile e sto per andare in Inghilterra. Ma lui è tornato perchè sta morendo, un brutto male. Gli dico: “Fatti coraggio che ti porto ai Mondiali”. E lui: “Non so se ci arrivo”. E infatti non ci è arrivato. Se n’è andato a 38 anni.

«Il piu’ grande dei fratelli era Paride, invalido di guerra: distrutto dalla guerra, dalle botte, prigioniero in Germania. Quando è venuto a casa non poteva più fare nulla, si è messo a letto, a trent’anni. E morto d’inedia. L’avevano ammazzato a forza di botte. Mi hanno accusato di essere troppo nervoso, ma quando si viene da queste storie si ha una forza dentro, si vorrebbe spaccare il mondo a testate. Però non voglio neppure essere troppo patetico perché io non ho mai pianto da nessuno, mai chiesto nulla. Sì, sono proprio un friulano orgoglioso. E credo sia una dote».

Ezio Pascutti (Chiasiellis, 1º giugno 1937 – Bologna, 4 gennaio 2017)

Enea emigrato, Paride deportato… Il giovane Pascutti che se ne andava a Bologna nel 1954, voluto da Gipo Viani, partiva anche per loro, riconciliava una famiglia con quell’atto dell’andarsene, il suo almeno era un saluto sereno. E chissà che proprio il passato non gli abbia impedito di tornare indietro.

«Ho venduto la casa, il Friuli è una radice forte, ma ho scelto Bologna. Da qui non mi muovo più».

Paride, Enea, Ezio: un greco leggendario morto in guerra, un troiano partito per altre terre, l’ultimo condottiero romano capace di vincere prima del disfacimento dell’impero.

«Strani nomi, vero? A casa non sapevano neanche chi fossero quei personaggi perché mio padre, falegname, non ha studiato. Forse mia madre, che era bidella… Giocavo a pallone grazie a lei, potevo entrare nei campetti delle scuole dove lavorava. Ero rapido e facevo già un mucchio di gol. La prima squadra a Pozzuolo, poi il Torviscosa e subito il Bologna. Solo il Bologna: una vita e una gamba spese per una squadra. Anche se un giorno non mi hanno più voluto. E accaduto con Fabbri, presidenza Corioni. Avevo sempre fatto l’osservatore per la società e lui mi ha messo alla porta. Una cattiveria indegna, e proprio da lui… Quando lo incrocio mi volto dall’ altra parte».

Mondino Fabbri sta anche in quella foto accanto a Pascutti, stadio Lenin di Mosca. E il 1963, il fattaccio si è appena consumato.

«Urss Italia, sto andando in gol, Dubinski da dietro mi colpisce alla gamba operata, io mi alzo, gli metto le mani al collo e gli do una spinta. Espulso. All’inizio fu quasi una comica. L’ arbitro polacco mostrava due dita, come a dire: l’11 deve uscire. Maldini, che era il capitano, aveva perso la testa e fraintese: “Vedi il segno che fa? Ti ha espulso solo per due minuti”. Io ero conciato talmente male, quasi in trance, che davvero aspettai due minuti a fianco del c.t. prima di fare il giro dello stadio mentre in centomila fischiavano. Entrai da solo negli spogliatoi, mi misi a piangere così forte che cadevo sotto la doccia. Avevo intuito il seguito…»

«Perché quella non era solo una partita. Era la prima sfida Urss Italia, con noi erano venuti dieci parlamentari. La stampa mi inchiodò : “Vergogna”. Anche Brera, che dopo i due gol di Vienna all’Austria aveva scritto che ero l’ala sinistra più forte del mondo, chiese una punizione. Sul volo di ritorno mi misero in prima classe coi parlamentari, per evitare contatti coi giornalisti: nessuno mi rivolse la parola, solo un senatore comunista di Reggio mi fece coraggio, mi pare si chiamasse Ferioli. L’Uefa non mi squalificò, la federazione invece, pressata da politici e giornalisti, mi inflisse tre mesi di sospensione. A me non dissero nulla, ma a casa trovai mia moglie che piangeva, aveva sentito la notizia alla Tv».

Per il friulano orgoglioso quella censura era più amara di una sconfitta.

«Ma ora, quando penso ai due minuti di Maldini, son capace di mettermi a ridere da solo».

Un po’ di disincanto, tanto che il Bologna di oggi non gli accende rimpianti.

«In citta’ il calcio è in caduta verticale di credibilità e passione. Non gliene frega più niente a nessuno, saranno state le retrocessioni».

Parola di Ezio, un destino nel nome: condottiero un pò barbaro, reclutato al nord per vincere l’ultima volta prima del disfacimento dello “squadrone che tremare il mondo faceva”. Ci saranno altri numeri 11 al Bologna, mai più “l’alasinistra”.

  • di Cesare Fiumi – (15 gennaio 1994 – Corriere della Sera)