ABBADIE, AGUILERA, ALEMAO, ALTAFINI, AMARILDO, ANDREOLO, ANGELILLO, ASPRILLA
Julio Cesar Abbadie arriva a Genova nell’estate del 1956. E una notizia che entusiasma i tifosi: il giocatore gode di robusta fama, nonostante la ridotta risonanza del calcio internazionale dell’epoca. Ala destra della Nazionale uruguaiana (già ai Mondiali del 1954), possiede estro e virtù tecniche da campione, la classica ciliegina da apporre sulla torta per completare l’opera.
Peccato che il Genoa non possieda la torta e al massimo coi funambolismi del nuovo arrivato possa decorare una grezza pagnotta casalinga. Traduzione sul campo: le sue fughe sulla fascia destra sono vertiginose, il suo dribbling (una specie di scatto senza finta che lascia regolarmente sul posto il difensore) non perdona quasi mai, i cross dal fondo zampillano perfetti, ma non c’è chi possa assecondarlo nella manovra e soprattutto a centroarea tradurre in gol quegli splendidi inviti. Dopo un avvio scoppiettante, il campione viene risucchiato nella mediocrità generale. Il Genoa si salva all’ultima giornata e un altro paio di salvezze rimedierà nelle due stagioni successive, nonostante nel 1958 assuma la presidenza l’armatore Gadolla, ingaggiando il portierissimo Ghezzi e promettendo orizzonti di gloria.
L’uruguaiano oltretutto torna dalle ferie con una pleurite che lo tiene parecchio lontano dai campi di gioco e il suo rendimento ne risente. Nel 1959-60 infine il tracollo collettivo della squadra, condannata alla B per illecito sportivo (tentativo di corruzione con l’Atalanta), coinvolge pure Abbadie, che solo a tratti illumina con la sua classe. Ormai trentenne, emigra a Lecco, dove la neopromossa squadra blu-celeste riesce grazie anche alle sue giocate a compiere l’impresa della salvezza. Ancora un anno in Lombardia, costellato di problemi, la retrocessione e l’addio al calcio italiano. Ripartiva per l’Uruguay un campione vero, che in patria continuò a giocare fino alla soglia dei quarant’anni.
È stato un peccato che la carriera italiana di Carlos Aguilera, funambolico attaccante uruguaiano, si sia infranta sui ben poco edificanti scogli di una vicenda giudiziaria, chiusa con una lieve condanna. Difficile pensare che Carlos, ragazzo acqua e sapone, tutto campo e famiglia (la moglie Patrizia e i due figli), potesse davvero essere coinvolto in un “giro” di equivoche ragazze sudamericane e coca in quel di Genova.
Fatto sta che nel febbraio del 1994 chiuse frettolosamente il proprio rapporto col Torino, con cui avrebbe avuto ancora un anno e mezzo di contratto, e rientrò in patria. Quattro mesi dopo, la condanna.Prima della vicenda giudiziaria (avviata con il clamoroso arresto del 26 aprile 1990 e il rinvio a giudizio del novembre 1991),
“Pato” era risultato uno dei migliori stranieri del campionato italiano. A volerlo era stato Franco Scoglio per il suo Genoa neopromosso. A differenza degli altri due (più reclamizzati) uruguaiani, Paz e Perdomo, il piccolo centravanti si inserì subito nella nostra realtà, entusiasmando i tifosi con i suoi guizzi in area e il suo senso del gol. Straordinaria la sua seconda stagione, con 15 gol realizzati e il Genoa portato ai fasti della Coppa Uefa. Prima dell’Italia aveva giocato in Uruguay (River Plate di Montevideo, Nacional e poi Penarol), Colombia (Independiente Medellin), Argentina (Racing) e Messico (Guadalajara), ma solo nel Bel Paese conseguì una autentica fama internazionale.
Idolo dei tifosi genoani, nel maggio 1992 annuncia il suo addio per una non ben chiarita colpa del presidente Spinelli («Gli sono antipatico, mi ha offeso, non posso accettarlo»). Approda al Torino, ma dopo una prima stagione positiva (culminata con la conquista della Coppa Italia), viene emarginato da Mondonico, scontento del suo ridotto rendimento, fino a risolvere anticipatamente il contratto. «La vicenda giudiziaria non c’entra» assicura prima di partire, ma nessuno gli crede.
È rimasto celebre per un episodio, il “giallo della monetina”, nonostante le sue qualità avrebbero meritato ben altro riconoscimento. Rogerio Ricardo de Brito, detto Alemão per la sua faccia (e il suo gioco) da tedesco, acquisisce notorietà sulla grande scena internazionale ai Mondiali del 1986, quando costituisce la diga centrale del Brasile assieme a Elzo, come lui mediano più votato alla rottura che alla proposizione del gioco. Un giocatore ben poco “brasiliano”, reclamizzato da due ottime stagioni all’Atletico Madrid anche se qualcuno a Napoli lo immagina un nuovo Falcão e li per lì resta deluso. Per questo (e per una epatite virale che lo toglie di squadra per mesi), la prima stagione a Napoli è sofferta. Contribuisce comunque alla conquista della Coppa Uefa.
L’anno dopo, la “monetina”. Alemão è ormai un punto di forza del Napoli: non regista centrale, ma formidabile intemo a tutto campo. Corre, tampona, rilancia, sfoderando carattere, grinta e rapidità da campione. 8 aprile 1990, Atalanta-Napoli, quartultima del campionato. I partenopei di Bigon hanno appena raggiunto il Milan di Sacchi in testa alla classifica. Sullo 0-0, a una decina di minuti dalla fine, Alemão viene colpito da una monetina lanciata dalle gradinate. Si accascia al suolo, viene portato fuori in barella, sembra evidente la “sceneggiata”.Il Napoli vincerà a tavolino 2-0 e poi lo scudetto. Le polemiche saranno talmente feroci da portare alla modifica della norma sulla responsabilità oggettiva. Nel 1992, Alemão lascia il Napoli per l’Atalanta e a Bergamo rievoca: «Quella volta obbedii a ordini superiori». Polemiche a volontà, che diventano roventi la stagione successiva: accusato di “remare contro” il tecnico Guidolin, viene messo fuori “rosa” e poi, dopo un paio di mesi, reintegrato. Inutilmente: i nerazzurri retrocedono, così chiudendo l’avventura italiana del “tedesco” venuto dal Brasile.
Una carriera straordinaria, per qualità e longevità. Altafini ha poco meno di vent’anni quando partecipa al Mondiale 1958, che rivela al mondo Pelé. In patria lo chiamano “Mazzola”, anzi, “Mazola”, per la somiglianza fisica con Valentino Mazzola, eroe del Grande Torino. Centravanti, gioca le prime partite, poi Feola gli preferisce il più stagionato Vavà e vince il titolo.
In compenso, per “Mazola” arriva l’ingaggio del Milan. Recupera il proprio cognome ed esplode in campo come una bomba: 28 reti in 32 partite, il Milan di Schiaffino e del “baby” Rivera vince lo scudetto. Fa il bis nel 1962 e l’anno dopo a Wembley è la prima squadra italiana a conquistare la Coppa dei Campioni. José è il capocannoniere (14 reti, un primato) e segna entrambi i gol con cui il Milan rimonta la rete iniziale di Eusebio.
Tecnicamente eccezionale, vigoroso quanto basta, ha un senso del gol micidiale, anche se il direttore tecnico rossonero Viani lo chiama “coniglio” per via della cautela con cui nelle aree infuocate si cura di preservare integre le proprie preziose estremità. Il rapporto si guasta nel 1964-65, quando dopo un lungo braccio di ferro torna dal Brasile in inverno, in tempo per… far perdere ai suoi uno scudetto virtualmente già conquistato al termine dell’andata (a sorpresa vince l’Inter). La Juventus farebbe carte false per averlo, ma il Milan non vuole cederlo alla diretta concorrenza. Con il trasferimento dell’anno (110 milioni) va allora al Napoli, dove vive splendide stagioni assieme a Sivori, vincendo tuttavia solo una Coppa delle Alpi. Il colpo di scena nel 1972: a 34 anni lo ingaggia la Juventus, trasformandolo in un mortifero centravanti part time, che gioca da punta arretrata.
Conquista due scudetti e due secondi posti e solo a 38 anni si arrende all’età, per emigrare in Svizzera dove chiude la carriera, per poi diventare commentatore televisivo. È stato uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio italiano.
Il Mondiale 1962 porta tra le principali proprio la sua firma. Nella seconda partita (contro la Cecoslovacchia), Pelé l’immenso si infortuna e il Ct Aimoré Moreira consegna la maglia numero 10 al suo sostituto: Amarildo. Il ragazzo, ventitré anni, figlio d’arte (il padre ha vestito la maglia della Nazionale), è un talento assoluto: titolare a nemmeno vent’anni nel Botafogo, è un “dieci” con spiccate caratteristiche di attaccante puro. Contro la Spagna diventa subito una stella: nel finale, con gli iberici in vantaggio per 1-0, segna due gol. Realizzerà ancora in finale, contro la Cecoslovacchia, vincendo il titolo iridato con lo “score” invidiabile di tre gol in quattro partite.
L’anno dopo, al termine di una lunga tournée col Brasile, il “garoto” (“ragazzo”) viene ingaggiato dal Milan. Grandi giocate, grandi gol, ma anche tante espulsioni per via di un carattere indocile, in un rapporto che non mantiene del tutto le attese. Vince solo una Coppa Italia, poi passa alla Fiorentina, si frattura il perone e resta fuori per mesi. Sembra finito, ma quando torna è pronto a dare il meglio.
Con la sua classe e le sue invenzioni trascina la Fiorentina al secondo, indimenticabile scudetto della sua storia, nel 1969. Il tramonto a Roma, poi il ritorno in patria (al Vasco da Gama) e infine il dietro-front verso l’Italia, dove diventa allenatore senza mai attingere le serie maggiori.
Nel 1935 il Bologna era senza “mediocentro”, per la partenza di Occhiuzzi. Fedullo pescò in Uruguay il successore: si chiamava Michele Andreolo, giocava nel Nacional Montevideo e bastò vederlo un paio di volte in campo per capire che il Bologna aveva ingaggiato un campione. Potente e ricco di classe, sapeva aprire il gioco sulle ali con lunghi traversoni, secondo i canoni ideali del centromediano del “Metodo”, lo schema tattico che appunto nel cuore della manovra prevedeva un leader incaricato di frenare gli attacchi avversari e rilanciare l’azione. Unica debolezza: non voleva battere i rigori e una volta che il pubblico e i compagni, contro la Fiorentina, lo convinsero a tirarlo, sbagliò.
Con il Bologna vinse quattro scudetti e il prestigioso Torneo dell’Esposizione di Parigi. Approdò in Nazionale e fu il successore del mitico Monti ai Mondiali del 1938, in cui l’Italia di Pozzo vinse il suo secondo consecutivo titolo iridato. Aveva fama di gaudente: amava le carte e le belle donne, non gradiva gli allenamenti, eppure il suo rendimento era eccelso e la sua vita agonistica fu lunghissima: dopo la guerra approdò a Napoli, dove giocò parecchie stagioni, prima di chiudere in C, a Catania e Forlì, una straordinaria carriera.
Alla sua figura di campione contraddittorio è legato tuttora il record assoluto di gol realizzati da un singolo giocatore in una stagione del campionato italiano. Nato a Buenos Aires, si afferma giovanissimo nel Racing, che tuttavia lo cede subito al Boca Juniors. Attaccante dal tocco di velluto e dall’azione scarna quanto efficace, Angelillo approda giovanissimo in Nazionale e al Torneo Sudamericano del 1957 trionfa formando con gli altri “baby” Maschio e Sivori un trio leggendario (ribattezzato dai cronisti, in omaggio a un celebre film, “los angeles de cara suda”, gli angeli dalla faccia sporca).
Angelo Moratti lo ingaggia per la sua Inter che non decolla e lui ripaga con una prima stagione ricca più di ombre che di luci, nonostante i sedici gol. Qualcuno lo bolla come “bidone”, ma l’anno successivo, con 33 reti in 33 partite, stabilisce il record assoluto di realizzazioni, tuttora imbattuto.
Ancora due stagioni all’Inter, poi Helenio Herrera ne pretende la cessione.Motivo ufficiale: dolce vita. Legato sentimentalmente a una splendida ballerina italiana, dall’esotico nome di Ilya Lopez, una sua foto in smoking salì agli onori della cronaca. Sia pure a malincuore, Moratti si decise a cederlo, realizzando un affare storico: i (tantissimi) soldi sborsati dalla Roma per la sua cessione vennero spesi per ingaggiare Luis Suarez, il regista del Barcellona su cui poi Herrera costruì la Grande Inter. Nelle quattro stagioni in giallorosso, Angelillo fu solo un giocatore normale, celebre più per le amicizie mondane (i cantanti Peppino di Capri e Fred Bongu-sto) che per le prodezze sul campo. La sua carriera tuttavia ebbe un ultimo guizzo nel 1967-68, quando, sia pure con tre sole presenze (e un gol) contribuì allo scudetto del Milan (dove già aveva giocato una stagione prima di emigrare al Lecco).
Chiuse al Genoa, tra i cadetti, dispensando gli ultimi lampi della sua classe, poi divenne allenatore nelle serie minori (con una promozione in A a Pescara) e successivamente in Marocco.
Breve la stagione felice di Faustino Asprilla in Italia. Il tempo di sciorinare i lampi accecanti della sua classe pura e poi l’addio, dopo troppe vicende burrascose. Arriva in Italia nell’estate del 1992, ingaggiato per 6 miliardi dal Parma, che ha battuto sul filo la concorrenza della Fiorentina.
L’avvio è incerto; poi, a tratti, emerge un talento straordinario: rapidissimo nella sua morbida corsa di gazzella, è un’ala con cadenze imprevedibili. I suoi scarti improvvisi, i suoi dribbling sul filo dell’ impossibile, i suoi gol da lontano ne fanno un fuoriclasse in sboccio.Nella primavera del 1993, tuttavia, quando le sue prodezze fanno volare il Parma fino alla finale di Coppa delle Coppe a Wembley, il primo “caso”: torna in Colombia per assistere la madre malata (che infatti morirà di lì a poco) e si ferisce gravemente a un polpaccio. Operato in ospedale, la sua versione – una bottiglia di gazosa caduta alla moglie gli ha fatto rimbalzare sul muscolo schegge di vetro – viene smentita dalla stampa locale, che racconta di una rissa per strada con un conducente d’autobus. Torna appena in tempo, per punizione Scala lo lascia fuori e trionfa; offeso, lui chiede di essere ceduto. Torna nei ranghi, ma in estate una sua “fuga” dalla Nazionale gli provoca una esclusione a vita, subito rientrata.L’avvio della stagione ’93-94 è esplosivo: sembra inar- restabile e Parma sogna lo scudetto col “nuovo Pelé”,
poi a novembre gli attribuiscono una storia d’amore non corrisposta con una sexy-star, lui nega ma il rendimento scema. Ai Mondiali ’94 delude, al ritorno in patria una furiosa lite col fratello per motivi familiari fa intervenire la polizia.Dopo l’uccisione del compagno Escobar, torna in Italia e si annuncia cambiato, però a dicembre una rissa con spari in un locale notturno ne provoca la denuncia. Verrà condannato a un anno di prigione. Nel gennaio 1996, nel pieno di una stagione di esclusioni e sfoghi (Scala lo ignora), viene ceduto al Newcastle di Kevin Keegan per 15 miliardi.
L’esperienza inglese di Asprilla durò esattamente due anni. Offuscato dalla stella emergente di Alan Shearer e condizionato dai numerosi infortuni, nel gennaio 1998 ritorna a Parma. Qui, però, non riuscirà ad avvicinarsi ai grandi livelli su cui si era espresso all’inizio degli anni ’90 e dopo una stagione e mezzo (22 presenze e 3 gol), lascerà definitivamente l’Italia dopo aver vinto, da comprimario, un’altra Coppa UEFA (1999).