ABBADIE Julio Cesar: l’uomo del mistero

Una carriera lunga e gloriosa per l’ala uruguagia dalle fulminanti serpentine. In Italia non sempre venne apprezzato quanto il suo valore autentico avrebbe meritato.

Nato a San Ramón, dipartimento di Canelones, presso Montevideo, il 7 settembre 1930 da genitori di origini spagnole, tira i primi calci importanti nell’Athenas, da dove, nel 1945, lo preleva il Peñarol per 600 pesos. Il ragazzo ci sa fare, a diciannove anni è titolare al fianco di Schiaffino, la sua classe di guizzante ala destra lo proietta presto in Nazionale. Ai Mondiali 1954 dà spettacolo e solo il brasiliano Julinho (futuro viola) riesce a fare meglio nel ruolo. Abbadie esce imbattuto: partecipa alle vittorie contro Cecoslovacchia, Scozia e Inghilterra, poi lo stiramento patito contro gli inglesi lo esclude dal match clou contro la Grande Ungheria, che la Celeste perde 2-4 dovendo uscire dalla manifestazione pur avendovi dimostrato qualità notevoli, da degni campioni uscenti.

Nel 1956 il Genoa si svena (36 milioni di lire al Peñarol, ben 10 all’interessato) per fargli varcare l’oceano. La prima stagione è disgraziata: Abbadie arriva fresco di matrimonio, ma soffre subito un difficile ambientamento… alimentare; a novembre viene operato di appendicite, dopo aver patito problemi di fegato. Contro la Juventus si lussa un braccio, contro l’Inter riporta l’incrinatura di una costola. In più, dalla patria lontana giunge notizia che il padre è moribondo, ma per la salvezza del Genoa è costretto a rimanere in Italia, senza poterlo abbracciare l’ultima volta.

Il finale di campionato, sarà la rabbia sarà l’orgoglio, è scintillante e porta alla salvezza del club della Lanterna. La stagione successiva, giurano i tifosi, sarà quella del boom. Invece il campionato 1957-58 è quello delle polemiche, o, come suggerisce parte della critica, del “mistero“. Nel senso che la discontinuità del suo rendimento è addirittura disarmante. Facciamolo dire al principe dei narratori di calcio dell ’epoca, Bruno Roghi, che nel novembre 1957 scrive:

«I suoi risvegli sono veri e propri soprassalti, e in questi soprassalti la sua classe riluce e sfavilla come gemma preziosa. In questo incontro di cristalli purissimi che il termine astratto “classe” compendia, sta la virtù atletica di Abbadie al quale bastano, talvolta, il guizzo di un dribbling, l’avvio di un passaggio, la partenza di uno scatto, un’apertura a ventaglio per toccare la sommità dell’arte calcistica. È quando lo stadio ha tutti gli occhi e tutti gli applausi per lui. E allora? Come e perché accade che Abbadie il Grande di ieri sia l’Abbadie il Piccolo di oggi? Accade appunto perché l’Abbadie il Piccolo di oggi è la promessa dell’Abbadie il Grande di domani. Di qui il disorientamento degli sportivi, e degli stessi esperti, quando si sforzano di giudicarlo».

Non giova neppure alla sua serenità la polemica con l’allenatore Magli, che lo vuole all’ala mentre lui, assaggiate le crudezze dei difensori italiani, preferirebbe il ruolo di interno. Le serpentine di “Giulio Cesare” hanno un che di magico, prive come sono all’apparenza di qualsiasi finta. Semplicemente, sembra che l’uruguagio abbia il pallone incollato ai piedi e che riesca a tenerlo anche quando si disimpegna in un groviglio di difensori avversari.

Il nuovo allenatore Frossi lo accontenta, collocandolo in posizione di interno, e alla fine è di nuovo salvezza, con 13 reti e 33 presenze dell’uruguagio. Che tuttavia l’anno dopo perde oltre la metà del campionato a causa della pleurite con cui torna dalle ferie. E nel 1959-60, dopo la retrocessione in serie B, emigra al Lecco, neopromosso tra i grandi. Una buona stagione e la salvezza, poi un’altra dimezzata da problemi fisici e chiusa con la retrocessione, al termine della quale gli viene tuttavia offerta la conferma, viste le sue eccellenti doti.

Ma Abbadie preferisce tornare in patria, per timore di perdere il posto in Nazionale. Ha 32 anni, sembra incamminato a un rapido tramonto e invece lo attende ancora una lunga e felice carriera. In patria si ripresenta con le doti di velocità intatte, ma con un bagaglio tecnico e tattico molto arricchito dall’esperienza italiana. Da attaccante si trasforma in suggeritore, per la fortuna di punte come Spencer e Joya.

Ai quattro titoli nazionali conquistati prima della parentesi italiana ne aggiunge altri quattro, ma soprattutto vince nel 1966, a 36 anni, la Coppa Libertadores nell’esaltante finale contro il River Plate e poi partecipa al doppio successo sul Real Madrid nell’ottobre dello stesso anno che frutta al Peñarol la Coppa Intercontinentale.

Si ritira, fresco di un nuovo titolo nazionale, solo nel 1968 entrando nei libri di storia come uno dei campioni più longevi del calcio del suo paese.

StagioneSquadraPresenze (Reti)
1949-1956 Peñarol76 (40)
1956-1960 Genoa95 (24)
1960-1962 Lecco45 (7)
1962-1969 Peñarol94 (20)