Aldo Cazzullo intervista Liedholm: «Io e il calcio, tra maghi e astrologia»

Intervista di Aldo Cazzullo a Nils Liedholm – Corriere della Sera 8 febbraio 2004

I ricordi di Liedholm: Ai giocatori raccomandavo la castità. Una volta portai Falcão da un guaritore a Busto Arsizio. Scelsi lui perché era della Bilancia, ma gli attaccanti migliori sono dello Scorpione

«A Valdemarsvik, il fiordo del vichingo Valdemar, negli inverni prima della guerra c’erano 20 gradi sotto zero. Per irrobustirmi iocavo a bandy. Come l’hockey, ma più virile. Ci gettavamo uno contro l’altro, pattinando a tutta velocità. Tornavo a casa pesto e sanguinante». Un’infanzia difficile. «Ero gracile, volevo diventare forte. Cominciai a iocare a badmington, boxe, lotta, e poi i 100 metri, i 1.500, i 3.000, il giavellotto, il peso, il salto in alto». Il salto in alto? «Anche il salto con l’asta, se è per questo. E la mattina facevo 5 chilometri di corsa nel bosco per andare a scuola. Papà era capo di una segheria. Più che un bosco era una foresta, abitata da zingari. Una volta uno di loro mi lesse la mano. Disse che avrei girato il mondo, avrei trovato molte cose ma non sarei diventato ricco».

La vita di Nils Liedholm vale l’opera omnia dei giovani scrittori italiani e forse anche svedesi. Raccontata, s’intende, da lui medesimo.

«Gli inverni di Valdemarsvik erano tiepidi in confronto al primo inverno di guerra. Quarantatré gradi sotto zero, ad Haparanda, il punto più a Nord della Svezia, in riva a un fiume ghiacciato. Nella tenda eravamo in cinque ma nessuno dormiva; non per paura che arrivasse l’Armata Rossa dalla Finlandia, per non morire congelati. Il calcio è cominciato dopo. Con Gren, Nordhal e me, il Gre-no-li, noi dilettanti svedesi battevamo i maestri britannici. Giovanni Agnelli mi vide nel Norrköping e mi chiese di andare alla Juve. Dissi no e lui prese John Hansen. Poi venne a iocare il Milan, e perse 3 a 1. Restai a trattare con i dirigenti tutta la notte. Firmai alle 4 di mattina».

«Milano nel ’47 era piena di macerie ma era una città straordinaria. Quando ho conosciuto mia moglie? Non saprei, la conosco da sempre. C’era ancora il mito del bicampeon Meazza, la squadra per eccellenza era l’Inter. Con il Grenoli è cambiato tutto. Quattro scudetti. Nel ’58 arriviamo in finale di Coppa Campioni con il Real. Stiamo vincendo 2 a 1 con un mio gol, quando Joselito mi dà una botta terribile alla caviglia. Cerco di non far vedere che zoppico, ma loro si fanno sotto e vincono 3 a 2. Quella notte non ho dormito. Per tutta la vita mi sono chiesto se Joselito l’ha fatto apposta. Due anni fa ho incontrato a Roma Gento e Di Stefano, che è il calciatore più forte che abbia mai visto, la classe di Maradona con la forza di Cruyff, e gliel’ho chiesto. Si sono guardati, hanno riso, poi Di Stefano ha detto: “Joselito è uno che sapeva scegliere i momenti giusti“».

Liedholm è uno per cui Santiago Bernabeu non è il nome di uno stadio ma un signore che lo voleva a ogni costo. «Mi portò nel suo allevamento di tori da corrida. Un toro ci ha puntato, gli ho salvato la vita, e sono rimasto al Milan». E’ una storia di iperboli. La vicenda del calcio è piena di tiri da cinquanta metri, di cannonate che sfondano la rete, di lanci da porta a porta. I lanci li ha fatti quasi tutti Liedholm. Sul serio, però. E poi gol a centinaia. «Ma la massima ovazione l’ho avuta a San Siro, per un passaggio sbagliato». Davvero? «Erano tre anni che non sbagliavo un passaggio». Tre anni? «Sì, e ogni volta che la racconto aggiungo un mese».

Parla bene di tutti, di Viani che lo lanciò come allenatore e di Rocco che era un po’ geloso di lui («’sto mona d’un barone, può dire la più grande monata del mondo, e tutti gli credono»), di Ianni Rivera che arrivò quando lui giocava l’ultimo anno nel Milan e di Berlusconi che gli preferì Sacchi. «Mi voleva milanista a vita, ma non era più il mio calcio. E’ stato gentile con me, non gli porto rancore» dice indicando una foto con il Cavaliere e il Papa. «Il più gentile di tutti era l’Avvocato. Vincesse o perdesse, scendeva sempre negli spogliatoi a salutare. Ha tentato di portarmi alla Juve anche da allenatore, sono stato a casa sua, poi è venuto qui Boniperti, fino alle 4 di notte, al ritorno si è fermato in autostrada a dormire in macchina. E’ stato inutile, la Juve non era per me. Avrei vinto troppo».

A casa Liedholm si arriva per una strada sterrata tra le vigne del Monferrato, da cui trae il suo vino. «Ero astemio e mia moglie voleva una casa a Sanremo. L’hanno venduta a un altro che offriva 2 milioni in più e siamo venuti qui, a fare grignolino e barbera. Ora sono triste perché la mia cara moglie non sta bene. Anche la vecchia ferita mi fa male. Sente qui, quest’incavo nella tibia? Una volta in Svezia mi sono fratturato la gamba, ma non potevo ingessarla per non farmi scoprire da mio padre. Continuai a iocare fasciato stretto stretto».

Una magia. Arte con cui Liddas, come lo chiamava Brera («grande uomo, grande amico, un po’ troppo fissato con stopper e libero»), ha consuetudine. «Ma non è vero quanto ha detto Viola, il presidente della Roma, che praticavo riti magici con Falcão e Pruzzo. Solo, quando Falcão è stato male, l’ho portato dal guaritore». Da chi? «Dal guaritore. Il mago di Busto Arsizio, il più potente che abbia mai incontrato. Ha avuto una vita strana, è stato nella Legione straniera, decorato in Indocina. Poi ha scoperto il suo dono. Curava una persona al minuto. Io avevo bisogno di Falcão, era la proiezione di me stesso in campo, e il mago di Busto Arsizio l’ha guarito. Ma ora non credo eserciti più. Mi scusi, vado a vedere come sta mia moglie».

Di magia Liedholm parla per allusioni. Ha studiato l’astrologia, che per il calcio, spiega, è molto importante. «I grandi centrocampisti sono della bilancia. Io sono della bilancia. Falcão non l’avevo mai visto iocare, solo in videocassetta; l’ho preso perché era della bilancia. I grandi attaccanti sono dello scorpione: Van Basten, Maradona, Riva». Ma il parametro principale è un altro. «Volevo prendere Ancelotti, andavo a vederlo, ma non ero convinto, mi pareva intelligente ma non intelligentissimo come un grande centrocampista. Poi sono stato a casa sua, ho visto la sua famiglia, ho visto come obbediva a sua nonna, una rezdora emiliana, e l’ho preso».

Il grande centrocampista, dice Liedholm, è uno che non fa mai niente per se stesso: «Io non dribblavo mai. Solo i miei cani, per allenarmi; i cuccioli sono fortissimi, vanno su tutte le finte. Una volta contro la Spal sono partito palla al piede e sono arrivato in area, solo a forza di finte; tutti si aspettavano il passaggio, io ho pensato: questa è la volta che entro in porta con il pallone. Poi ho pensato che era meglio tirare, e ho fatto gol. Un’altra volta avevamo segnato subito e siamo rimasti in 10. Ho toccato tre palle in tutta la partita». Ma dai! «Sì, ma ogni volta l’ho tenuta 20 minuti». Davvero? «Non so. I tifosi dicono così».

Non è mai stato ammonito in vita sua. «Nei boschi gelati ho imparato il silenzio». E’ lieve, con sé e con gli altri. Gioca ancora, sull’aia, con i nipoti. «La palla non suda», meglio sia lei a correre. E’ una casa serena, pure il cane e i due gatti vanno d’accordo. «Mia moglie si scusa se non può venire a salutare». Il figlio Carlo ha imparato la lingua paterna via Internet: qui passano ogni anno migliaia di svedesi, a venerare il calciatore designato con referendum il più grande di tutti i tempi, come da diploma appeso in camera da letto. I ragazzi che ha scoperto sono lontani, Bettega che fece comprare dalla primavera della Juve per centomila lire, Vierchowod «più forte del toro di Santiago Bernabeu», qualcuno non c’è più, come Di Bartolomei cui aveva dato la fascia da capitano. A tutti raccomandava la castità prepartita, «io l’ho fatto la prima volta a 27 anni, e mi sono trovato benissimo». Oggi c’è Roma-Juve, il suo passato contro il suo destino mancato, una partita senza fine: «La palla l’avevamo sempre noi, poi l’arbitro fischiava una punizione e Platini la metteva all’incrocio dei pali».

Quella di Liedholm è anche una storia di sconfitte. Come la finale dei Mondiali persa a Stoccolma contro il Brasile: «Noi svedesi avevamo quarantanni, Pelé 18. Allora ho detto ai compagni: segno subito io, poi ci difendiamo. Ho segnato subito, una specie di magia, la palla mi è carambolata addosso spiazzando i due Santos. Poi ci siamo difesi. Ce ne hanno fatti cinque». Come la finale di Coppa dei Campioni con la Roma, «l’amarezza più grande, quasi quanto la gioia per la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1948. Ma la vera impresa storica fu la salvezza con il Monza». La squadra più debole di tutti i tempi. «I tifosi ci fischiavano già all’ingresso in campo, così, prima di iocare. Li presi a novembre che eravamo ultimissimi, finimmo undicesimi e restammo in serie B. E ora mi scusi, devo andare da mia moglie». E’ sera, Liedholm è stanco, i ricordi si confondono, Maldini padre con Maldini figlio, Garrincha e Bruno Conti, tiri da metà campo e soprattutto lanci da porta a porta; perché, di questo passo, tra un po’ saranno ottantadue anni che Liedholm non sbaglia un passaggio.

Aldo Cazzullo – Corriere della Sera 8 febbraio 2004