FERGUSON Alex: l’allenatore infinito

“Sono nato a Govan. E’ una cosa che ti porti dentro tutta la vita”. La prima volta che i giocatori del Manchester United capirono che cosa volesse dire per Alex Ferguson essere nato a Govan fu in un pomeriggio grigio del 1987. Avevano perso una partita miserabile contro le mezze seghe del Wimbledon. Lui entrò negli spogliatoi: “Sedetevi”. Fatto. “Ascoltatemi”. Silenzio. Poi uno per uno, in senso orario: faccia contro faccia, tre centimetri tra le sue labbra e il volto dell’interlocutore. “Sei un fottuto perdente”, con voce così alta da trapanare il cervello. Un urlo a testa e quelli tutti terrorizzati, di fronte al primo phon umano della storia. Ecco Alexander Chapman Ferguson, l'”hairdryer”. E’ il nickname che l’accompagna da quando siede su una panchina: prima di essere il Boss, il Padre, lo Scozzese, il Socialista, il Testardo; prima di essere Sir Alex, Ferguson è l’Asciugacapelli.

A urlare così il tecnico del Manchester United l’ha imparato quando era giovane. A Govan, ovviamente. Cioè nel sobborgo più povero di Glasgow, dove è nato nell’ultimo giorno disponibile dell’anno 1941 e dove gli orgogliosi eredi di William Wallace sono considerati dal resto dei britannici ancora più rozzi dei già rozzissimi scozzesi “normali”. Govan è il mare, il porto, è una banchina fatta di cantieri navali dove furono costruite la Queen Elizabeth, la Queen Elizabeth 2, il Lusitania; è il territorio dei camalli, è una sfilza di pub che quando cala il sole si riempiono i boccali, è una serie di capannoni usati dai portuali per ritrovarsi e indicare la strada verso le rivendicazioni, è il feudo delle Trade Union, è un posto dove c’è spazio per il pallone, la birra e il comunismo.

“Crescere in un posto così ti indica la via”. La strada, mister Alex, la strada: praticamente un mix di calcio, alcol e politica. Il primo, cominciato quando era un giovincello, bullo e violento, uno buono per stare al centro dell’attacco a tirare calci al pallone e agli stinchi dei difensori nel campetto dilettanti dell’Harmony Row. Poi al Drumchapel: amatori pure loro. Era ancora il ’57: a 18 anni, quando smetteva di litigare per un fallo che ovviamente non c’era, Alexander andava ad aiutare il padre Alex Sr. nelle ultime ore di lavoro. Il che apriva la seconda tappa del cammino: l’alcol. Birra, amici. La stessa che appena finita la carriera di giocatore a metà degli anni ’70 diventerà la sua. Perché uno di quei pub messi in fila vicino al porto se lo comprerà, chiamandolo Fergie’s. Pinte su pinte per prepararsi alla terza tappa quotidiana: tutti fermi ad ascoltare i compagni dei sindacati che pompavano ogni giorno i portuali contro il futuro: “Qui i cantieri chiuderanno, vedrete, daranno lavoro a quelli di Belfast, per tenerli buoni. Poi accontenteranno Liverpool e Southampton, figuratevi quelli sono inglesi. Noi andremo tutti a casa. Prepariamoci a combattere. Compagni sciopero“.

Alex Ferguson con la maglia dei Rangers Glasgow

S’è formato così il giovane Fergie. A suon di slogan e di rivendicazioni. S’è formato nella convinzione che il potere è nemico e quindi è meglio esercitarlo. S’è formato nella certezza che nella vita ti puoi fidare della famiglia e di pochi amici. S’è formato pensando che urlare sia il modo per farsi ascoltare. Era un professionista nel 1960 quando giocava nei Queens Park a Londra e un giorno tornò di corsa a Glasgow per mettersi in prima fila durante un’agitazione sindacale dei portuali: lottavano per stipendi più alti. Lui si mise accanto a papà Alex alla testa del corteo. Il replay quattro anni dopo: altri picchetti contro “l’ingiusto licenziamento di un collega”.

Tra una “battaglia per la giustizia” e un’altra, il pallone. Niente di straordinario: dal ’60 al ’64 al St. Johnstone, poi al Dunfermline Athletic, i Glasgow Rangers, il Falrick, l’Ayr United, l’East Stirling, il St. Mirren. Fino al ’75, poi basta. A 34 anni niente più botte agli avversari, niente liti in campo. Il ritorno a Govan, il pub, il governo di un posto dove si serviva birra in attesa di buttarsi nella mischia per interrompere una rissa. Una volta da solo non ci riuscì: chiamò la polizia per fermare un tipaccio che aveva tirato fuori una pistola e minacciava di riempire di pallottole chiunque si rifiutasse di versargli un’altra pinta. Fu la fine di Fergie’s, l’inizio della vita. Era il ’78 e Alex fu contattato da una squadra all’epoca piccola e senza pretese, l’Aberdeen. I dirigenti del club in crisi l’avevano notato una volta sulla panchina del St. Mirren: perché nonostante il pub, mister Ferguson il calcio non l’aveva abbandonato del tutto.

Aveva smesso di giocare, ma per tre anni aveva accettato di restare alle dipendenze della società per cominciare la carriera di allenatore. Ora arrivavano questi signori a chiedergli di mollare Govan: “Alexander, hai 37 anni, sei giovane. Noi abbiamo bisogno di uno senza grosse pretese, ma che abbia voglia di far tornare questa squadra a livelli accettabili“. Otto anni dopo l’Aberdeen aveva vinto tre volte il campionato di prima divisione scozzese. Un mezzo miracolo in un torneo nel quale da più di cent’anni l’albo d’oro è affare a due: Rangers o Celtic, Celtic o Rangers. Nell’83 l’altra metà del miracolo: vince la Coppa delle Coppe, contro il Real Madrid.

Maggio 1983: i tifosi dell’Aberdeen portano Ferguson in trionfo con la Coppa delle Coppe

Adesso non ci sono più notizie dell’Aberdeen, ma mister Alex è diventato il Boss, il Padre, lo Scozzese, il Socialista, il Testardo. E’ diventato nobile: Sir. E’ diventato l’allenatore più vincente della storia del calcio mondiale: una valanga di trofei, tra campionati, coppe nazionali, coppe di Lega, Supercoppe varie, la Champions League, l’Intercontinentale. Alexander Chapman Ferguson è stato il tecnico più ricco del pianeta, ha guidato una delle squadra più ricche del globo, Il Manchester United. E’ stato un uomo chiacchierato, discusso, tormentato. Fenomenale, ma antipatico. Vincente, ma che non sa accettare le sconfitte. E’ un rompicoglioni nato. E continua a essere comunista: “Socialist, please”. Il che, oggettivamente, è una bella impresa, sapendo che molte delle cose che ha fatto sarebbero un insulto alla sua fede politica. Ma lui ci crede, perché “quando nasci a Govan te lo porti dentro per tutta la vita”. Mentre gli altri cancellano, lui ostenta.

La storia delle sue origini povere è un ritornello usato ogni volta che conviene. E’ accaduto per giustificare l’episodio più divertente e allo stesso tempo imbarazzante della sua vita: quello della scarpa sul viso di Beckham. Per come l’ha raccontata l’ex centrocampista del Manchester dev’essere stata una scena simile a quella di Wimbledon dell’87: la squadra che torna nello spogliatoio, Ferguson nero, l’asciugacapelli entra in funzione, tutti zitti. David che dice “ma non è colpa mia” e quello che s’avvicina vede una scarpetta appoggiata sul pavimento, via un calcione e i tacchetti che finiscono dritti sul bel visino di Beckham: sangue a fiotti. La rissa sfiorata. I punti di sutura. I cerotti. La vergogna. “Dovete scusarmi, anche tu David, non l’ho fatto apposta, non volevo colpirti. E’ stato uno scatto d’ira: sapete dove sono nato io c’è sempre stata violenza: una volta degli avversari, a cui avevo fatto dei falli in campo, mi hanno seguito fino al pub per riempirmi di botte; un’altra volta sono stato gonfiato per aver difeso un ragazzo che aveva la poliomielite e veniva insultato: era mio cugino“.

Beckham e Ferguson

Il problema di Ferguson è che non è capace di ammettere quando sbaglia. Non l’ha mai fatto: è uno dei pochi uomini di calcio britannici che quando perde “è colpa dell’arbitro“. E’ l’unico che, dopo aver alitato con tutto il fiato che ha in corpo sul viso dei giocatori dopo una sconfitta, poi cerca di convincerli: “Ehi, quello ti ha fatto il fallo, l’arbitro non l’ha visto, brutto figlio di puttana“. Poi arriva in sala stampa e guai a chi lo critica: una volta ha impedito ai suoi giocatori di rilasciare interviste alla tv ufficiale del Manchester United, perché un giornalista aveva sostenuto che un rigore reclamato dai Red Devils e non dato dall’arbitro non c’era.

Per Alex sono tutti nemici: Gli italiani sono cascatori“, “i francesi sbruffoni“, “Wenger (allenatore dell’Arsenal, ndr) senza quella squadra non vincerebbe neppure il torneo del condominio“, “Mourinho? Con i soldi di Abramovich sono bravi tutti“. Uno così sarebbe stato perfetto per l’Italia, ma invece ha scelto di restare per più di 20 anni anni nello stesso posto. A Manchester. “A Londra non ci sarei mai potuto stare, è una città per fighetti“. Già i fighetti, espressione che per il signore di Govan è il massimo dell’insulto. Lo ha usato costantemente quando ha voluto denigrare Beckham, che era un suo figlioccio, ma ha commesso l’errore d’innamorarsi di una donna oltre che del Manchester: “Un fighetto non può giocare a calcio, andasse piuttosto a fare il buffone su qualche passerella“.

Alex non tollera quelli che non la pensano come lui. Di fatto odia praticamente tutti, perché pensarla come lui significa avere solo due cose nella vita: il calcio e il socialismo: “Il socialismo nel quale credo io è questo: ognuno lavora per l’altro, ognuno ha rispetto dell’altro e lo aiuta. E’ il modo con cui vedo la vita, è il modo con cui vedo il calcio“. E’ stata la dottrina che ha portato il suo Manchester a essere una squadra meravigliosa. Una macchina perfetta: pulita, lineare, esce quello entra quell’altro, ma il risultato non cambia. Passaggio, triangolazione, tiro, gol. Gol. Gol. Gol. Vittorie, trofei, coppe. Spettacolo.

Quella squadra non vinceva un fico secco dalla fine degli anni ’60, dall’epoca dei Best e dei Charlton. Da quando è arrivato lui, ha conquistato il mondo. I “Fergie boys”, li hanno chiamati: la generazione dei Giggs, dei Butt, degli Scholes, dei Beckham, dei fratelli Neville. E poi ancora dei Van Nistelrooy, dei Rooney e dei Cristiano Ronaldo. Tutti ragazzi cresciuti con le sfuriate di hairdryer. Gli saranno in eterno debitori. Quelli che lui, in una sera di maggio del ’99, ha fatto arrivare in Paradiso, passando da Barcellona. Finale di Champions League, contro il Bayern Monaco. Al minuto 87 i tedeschi stanno vincendo 1-0, Ferguson ha appena mandato in campo Sheringam e Solskjaer. Il Manchester non ha fatto un tiro in porta. Primo minuto di recupero, corner, mischia, gol: pareggio. Supplementari. Altro corner, mischia, gol: 2-1. Manchester campione d’Europa: hanno segnato Sheringam e Solskjaer. Sarà anche stata fortuna, ma uno che azzecca una mossa del genere entra dritto nei manuali.

Lui, Alex, grazie a quel colpo è diventato qualcosa di più. In ginocchio davanti a Elisabetta II, la spada sulla spalla destra: “Alzatevi, Sir Alex“. Le parole della storia, quelle che un vero scozzese non accetterebbe: “Ma il medioevo è passato da molti secoli, io sono contento di essere diventato Sir Ferguson“. Passi la prima parte della frase, ma la seconda nessuno gliela ha fatta passar liscia: Sir Ferguson, una gaffe mostruosa. Perché il titolo di cavaliere anticipa il nome, mai il cognome. “Sì, ma io vengo da Govan“. Ancora.

Se dentro il campo è stato un mito assoluto, Sir Alex ha avuto seri problemi fuori: i suoi 19 anni a Manchester l’hanno trasformato in un capo famiglia, ma anche in un padre padrone che appena si toglie la tuta e indossa la giacca dimentica il suo “socialismo”, per trasformarsi nel “Boss”. Anche se continua a dire di stare dalla parte dei più deboli, come quando nel ’98 appoggiò le Trade Union inglesi contro la nuova riforma pensionistica del governo Blair. Al congresso dei sindacati, quando fu scandito il suo nome, scattò l’ovazione: “Non devono ringraziarmi, io faccio sempre battaglie per la giustizia“. Intanto, però, ha lasciato che il figlio diventasse procuratore calcistico e l’ha aiutato col più becero dei conflitti d’interessi: “Ehi, vuoi diventare titolare? Bè fatti rappresentare da mio figlio Jason. Altrimenti stai fuori, o ti vendo“.

E nel 2013 ariva l’abdicazione: Sir Alex Ferguson lascia il suo Manchester United, che allenava dal novembre del 1986. Le dimissioni erano state già annunciate nella stagione 2001/02 salvo poi ripensarci e annunciate di nuovo poco tempo fa al venticinquesimo anno alla guida del Manchester, «sono arrivato ai rigori della mia carriera, ma è durissima scendere dal treno». L’ansia per il suo ritiro in Inghilterra è sempre stata relativa. Resta imbattuto il record di Guy Roux che allenò l’Auxerre dal 1961 al 2005, raggiunto invece da Ferguson quello dei 26 anni di David Calderhead, al Chelsea tra il 1907 e il 1933. In ogni caso una eternità, “sky’s the limit” recitava un slogan dei tifosi e sotto il cielo di Ferguson, dal suo debutto sulla panchina del Manchester, si sono alternati nel campionato inglese 1200 colleghi.