SIMONSEN Allan: la farfalla danese che conquistò l’Europa

Un’ala velocissima, estremamente tecnica e raffinata. Abbagliante, avrebbe detto il buon Nando Martellini. La storia di Allan Simonsen, laterale d’attacco danese, inizia in una cittadina che sta in mezzo alla Danimarca. Vejle, infatti, sulla mappa si mimetizza nelle lande scandinave. Nacque e vive di commercio, tanto da meritarsi il soprannome di Manchester di Danimarca. Non c’è molto a Vejle ma c’è una discreta squadra di calcio. Le storie più vibranti, di solito, vengono da posti come questo. Il Vejle BK nacque nel lontano 1891, grazie alla volontà di 23 uomini che volevano, inizialmente, mettere su una squadra di cricket. La sezione calcistica prese vita dieci anni circa più tardi, nel 1902. Per i primi successi bisognerà aspettare gli anni ’50, per gli ultimi Allan Simonsen.

Il piccolo prodigio dei De Rode (i Rossi), nacque nel 1952 e fece tutta la trafila giovanile nella squadra cittadina. Nel 1971 il debutto, a 19 anni, in prima squadra.
Allan è fortissimo e tutti, nel club, sanno, appena lo vedono, che rimarrà poco con loro. Il tempo di vincere due campionati danesi di seguito, nel ’71 e nel ’72, a cui contribuì con 16 marcature in 46 partite. Addirittura nel 1972 vinse anche la Coppa di Danimarca, mettendo a segno un Double.
Il ragazzo è già svezzato, furbo e abile nell’uno contro uno. In contropiede è devastante, punta l’uomo e lo salta quasi sbadigliando e poi vede la porta abbastanza per essere un cursore di fascia. L’intesa con il centrocampista Flemming Serritslevè totale. Se la squadra va in difficoltà, lui lancia sulla fascia e Simonsen capitalizza con gol e assist.

Come nelle caratteristiche medievali della sua città, che amava far commercio con le città tedesche, anche Simonsen decise di cercare la consacrazione in terra teutonica. Lo prese, nel 1973, il Borussia Mönchengladbach, tra l’altro per sostituire un altro danese e un altro dal passato al Vejle, Ulrik le Fevre, primo vincitore del famoso – in Germania – premio di Tor des Jahres, ossia Gol dell’Anno in Bundesliga.

Al Borussia serviva una spalla da affiancare al bomber Jupp Heynckes. Era uno squadrone, il Gladbach, in quegli anni. Aveva vinto l’anno prima il campionato ed era l’unica squadra che teneva testa al Bayern di Maier, Beckenbauer e Muller. In Europa, poi, rendeva la vita difficile a tutti. Nei primi due anni non gioca molto, poco più di quindici partite con soli due gol. Piccolo di statura ed esile di fisico, fatica. La società lo sa aspettare e ha ragione.

Dalla stagione 1974-75, Simonsen si prende prepotentemente il Bokelbergstadion, l’antenato del moderno Borussia-Park. Non saltò nemmeno una partita della Bundes, e segnò la bellezza di 18 gol, secondo miglior marcatore dietro, manco a dirlo, ad Heynckes con 27 gol in 31 partite. Era una squadra spettacolare. Wittkamp a destra era un muro, i due centrali Berti Vogts, futuro ct tedesco, e Surau due mastini, a sinistra giocava Klinkhammer, solido manovale della squadra; in mezzo il piede vellutato di Rainer Bonhof e la corsa a perdifiato di Hans Wimmer, contornati da un altro turbo come Danner; davanti il trio delle meraviglie: Simonsen, Heynckes e Jensen.

Quella squadra vinse per tre volte di seguito il campionato, eguagliando il Bayern, con cui diede vita ad un dualismo per tutti gli anni ’70. Si, forse mancò solo il massimo acuto europeo, dal momento che perse nei quarti di Coppa dei Campioni con il Real Madrid nel 1976, la finale persa nel 1977 e la semifinale del 1978, entrambe per mano del Liverpool. La Coppa Uefa fu vinta per ben due volte, nel 1975, nella doppia finale con il Twente, e nel 1979, battendo, invece, la Stella Rossa.

Allan, in quella Uefa, segnò otto gol in otto partite, mentre nella prima trionfale campagna ne segnò addirittura dieci in dodici. Ah, nella finale di Coppa Campioni del 1977, il Liverpool si impose per 3-1. Per i Fohlen segnò lui. Contro la Stella Rossa, decise lui la finale di ritorno. Ricordatelo, perché ci servirà più avanti. Dopo il secondo successo europeo con il Gladbach, molti club si accorsero di lui e fecero delle avances – più o meno – importanti. La spuntò, tra Juventus, Amburgo e club arabi, il Barcellona, che aveva già provato a ingaggiarlo l’anno prima.

In Catalogna ci mise pochissimo a far dimenticare l’olandese Johan Neeskens. Per tutti, quasi subito, Allan sarà “Simonet”. La classe, la rapidità e la quantità di assist che diede ai compagni lo fecero diventare un idolo dei tifosi. Non vinse nessuna Liga ma riuscì a portare al Camp Nou tre Coppe: una del Re, una di Lega e la Coppa delle Coppe 1982, tra l’altro giocata proprio nell’impianto catalano. Nel 2-1 con il quale i blaugrana rimontatrono e piegarono un coriaceo Standard Liegi c’è la sua firma. Prima il gol del vantaggio, poi l’assist per il raddoppio del bomber Quini. Quel gol, al 44′ del primo tempo, lo fece entrare nella storia. Ecco, vi ricordate i gol con il Gladbach in finale di Coppa Campioni e Uefa? Bene, con la rete ai belgi in quella delle Coppe divenne il primo, e unico, a segnare in tutte e tre le finali delle principali coppe europee per club.

Nella storia, però, Allan Simonsen vi entrò ben prima. Nel 1977, infatti, battè di tre voti Kevin Keegan e di quattro un certo Michel Platini, e venne proclamato giocatore europeo dell’anno. Per i profani, vinse il Pallone d’Oro, primo – e al momento – unico giocatore scandinavo a riuscirci.
Simonsen, poi, dimostrò un’umiltà clamorosa. E un episodio lo conferma. Nel 1982 passa al Charlton Athletic, dopo che fu costretto a lasciare Barcellona perché il suo posto di extracomunitario doveva essere liberato per accogliere Diego Armando Maradona.

Lui non fece polemiche, solo la valigia e tolse il disturbo. La domanda viene spontanea: nell’82 Simonsen aveva 30 anni, perché passare ad una squadra che militava sì in First Division, ma non aspirava ad altro che una tranquilla salvezza? Perché non voleva altro stress. In fondo, era partito dalla sua Danimarca a 20 anni ed era diventato grande tra Germania e Spagna. Questo aveva comportato grandi responsabilità. Adesso voleva solo giocare tranquillo, senza pressioni, senza patemi. Poteva accettare un’altra squadra inglese, il Tottenham, e un altro tipo di contratto. Oppure poteva fare un clamoroso salto della barricata, passando al Real Madrid. No, lui mantenne la fedeltà al popolo culé e non accettò.

In verità al Charlton passò solo tre mesi, dove mise a segno 9 gol in 16 partite. Poi, visto il mancato pagamento degli stipendi, rescisse. Umile si, scemo no. Infatti, tornò a casa, al Vejle, con il quale vinse ancora un campionato danese. Negli ultimi sei anni di carriera non perse il vizio del gol, ma non arrivò mai alla forma degli anni migliori. Nonostante questo, 70 gol in 166 partite, per un totale di 282 partite e 104 gol complessivi con la maglia biancorossa. Chapeau. Nel 1989 decise di dire basta. A 37 anni.

La vera e propria qualità, magari non sottolineata da questi numeri e da questi periodi è stata la caparbietà di un piccolo (era alto 1,65) danese, venuto da una cittadina medio-piccola, consacratosi come un gigante del calcio in mezzo ai giganti tedeschi prima e all’atletismo iberico poi.
Divenne sopratutto l’idolo, l’ispiratore di una generazione. Non solo della sua nazione, ma bensì di tutta la Scandinavia. E lo ha fatto mattoncino dopo mattoncino. Guarda un po’.

Testo di Paolo Paolillo – https://larepubblicapallonara.wordpress.com