ALVARO MARCHINI – febbraio 1975

Splendido ritratto di Alvaro Marchini, ex presidente della Roma, che si apre a 360 gradi sul passato e futuro della Roma e dell’Italia

Intervista di Elio Domeniconi, febbraio 1975


ROMA – Marcel Proust andò alla ricerca del tempo perduto. Il cronista va alla ricerca degli uomini che ha perduto il calcio. Perché se ne sono andati? Sarebbero disposti a tornare? Come valutano, con il senno di poi, la loro esperienza? Cosa consigliano a chi li ha sostituiti?

L’inchiesta comincia con il dottor Alvaro Marchini, l’ex presidente della Roma. Il Papa Rosso, il comunista miliardario, come lo battezzarono i suoi oppositori, mescolando lo sport alla politica. Fecero credere all’opinione pubblica che il PCI si era impossessato della Roma. Ora Marchini è solo un dinamico costruttore che vorrebbe restare lontano da ogni polemica, invece continuano a gettarlo nella mischia perché è il suocero del capitano della Roma Ciccio Cordova, che ha sposato sua figlia Simonetta. Così quando la Roma andava male, i soliti maligni parlavano di una congiura ordita da Cordova per scalzare Gaetano Anzalone e far tornare Marchini. Si è detto anche che Marchini è entrato nell’Immobiliare per aumentare la sua potenza e che l’Immobiliare ha acquistato (o sta per acquistare) due giornali, così Marchini avrà altre armi per fare la guerra ad Anzalone.

Siamo nell’ufficio di Marchini, all’EUR, via Montagne Rocciose 60. Per un’ora dimentica gli affari. Fa dire alla segretaria che non c’è per nessuno. Si mette a disposizione del Guerino. E racconta come stanno le cose:
«Io non ho alcuna intenzione di tornare alla presidenza della Roma. Con l’Immobiliare non c’entro. E l’Immobiliare non compra giornali. Semmai quei giornali interessano a società del gruppo che però sono collegati con la Democrazia Cristiana. Il Marchini che è entrato nell’Immobiliare e mio nipote Alessandro, figlio di mio fratello Alfio. Io non sono voluto entrare nell’Immobiliare, e continuo a consigliare a mio nipote di uscirne. Non è che non creda nell’Immobiliare. Per Roma l’Immobiliare è una cosa importante. Potrebbe fare nell’edilizia quello che fa la Fiat nel settore automobilistico. Ma troppe cose non quadrano, così sono rimasto in disparte. L’ho detto a tanti giornalisti, ho mandato anche lettere di rettifica. Macché: si continua a scrivere ohe anch’io sono entrato nell’Immobiliare. E’ venuto qui da me un giornalista del “Corriere della sera” Gaetano Scardocchia. Voleva avere informazioni di prima mano, prima di scrivere l’inchiesta e io gliele ho date, perché sono sempre a disposizione della verità. Ebbene ha scritto tutto il contrario di quello che gli ho detto, segno che aveva già in mente l’articolo prima di venire qui. E questa sarebbe l’obiettività di tipo anglosassone predicata dal suo direttore Piero Ottone? C’erano pure ‘gli estremi della querela, perché sono stato inserito tra i “palazzinari dal torbido passato”. E invece tra tutti i 230 costruttori denunciati per lo scandalo della Magliana noi Marchini siamo gli unici che non c’entriamo, siamo già usciti fuori. La libertà di stampa è bella, purché non diventi libertà di calunniare la gente».

Il crack di Marini-Dettina

— Parliamo di sport, dottor Marchini. E’ vero che suo genero non le ha dato retta e che lei gli aveva consigliato di lasciare la Roma?
«Le dirò. Come tifoso della Roma sono contento che sia rimasto, perché se non ci fosse Cordova la Roma finirebbe in serie B e non lo dico perché Ciccio è mio genero. Cordova è un semplice, gioca perché gli piace giocare. Certo è un professionista e non un francescano, lo fa anche per interesse. Però alla base c’è la passione. E’ rimasto un puro, e quindi si comporta da ingenuo, diciamo pure da sciocchino. Lo mettono fuori contro l’Ascoli, partita facile, poi gli chiedono se se la sente di giocare a Torino contro la Juventus e lui per la passione accetta. Quello che è seguito dopo (le accuse, la multa, il colloquio con Anzalone alla Casina Valadier) sarebbe roba da racconto umoristico. Ma io non voglio suscitare polemiche. Quindi, chiudiamo l’argomento».

— Perché accettò la presidenza della Roma: per passione sportiva o per altri motivi? Sia sincero.
«Non ho nulla da nascondere. Prima di diventare presidente, ero consigliere. Ero entrato nel consiglio nel 1965 perché c’era da dare una mano a un amico, il conte Francesco Marini Bettina, che per la Roma correva il rischio di rovinarsi».

— Si disse che Marini Dettina con la Roma ci rimise un miliardo, un miliardo di allora.
«Posso dire invece che riuscii a fargli ridare quasi tutto, naturalmente quello che figurava nel bilancio della Roma. Molte spese, però, erano state fatte di sottobanco, come si usava allora. E non potevo certo ridargli anche quei milioni. Quelli ce li ha rimessi, di sicuro. Ma ha riavuto buona parte del resto e si è salvato».

La Finanziaria per una Roma più grande

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Alvaro Marchini con la figlia Simona

Dopo un breve interregno di Ranucci c’era bisogno di un nuovo presidente di rango e nei 1968 l’on. Franco Evangelisti ritenne che lei fosse la persona più adatta. Lei è comunista, Evangelisti democristiano. Come fate ad andare d’accordo?
«Evangelisti è un tipo da prendere con le molle, è il classico onorevole democristiano. Siamo amici, certo, andiamo ogni tanto a cena assieme con le famiglie, una volta pago io e una volta paga lui. Ma non è che condivida il suo modo di agire, e non penso lontanamente di costruire un Senato giallorosso, formato da tutti gli ex presidenti della Roma. Che senso avrebbe una casta del genere? Probabilmente ci ha già rinunciato lo stesso Evangelisti. Ricorda quando organizzò l’Oscar giallorosso per premiare il miglior giocatore della Roma. Adesso non se ne parla più. Per spiegare come opera Evangelisti, le racconto un episodio. Sono proprietario dell’Hotel Leonardo da Vinci e nell’albergo Evangelisti come presidente della Federboxe aveva organizzato una conferenza stampa per presentare Benvenuti. Io capito lì, per caso, a conferenza iniziata, Evangelisti mi vede, mi blocca e mi obbliga a sedere al tavolo della presidenza, tra lui e Benvenuti. Ma io con la boxe che c’entro?».

— Non Condivide l’idea del Senato giallorosso propugnato da Evangelisti. Però un’idea per fare più grande la Roma, l’aveva anche lei, no?
«Certo, la Finanziaria. E uno dei vicepresidenti della Roma, l’amico Ugolini ha riconosciuto che la grande occasione la Roma l’ha persa due anni fa, quando Anzalone non accettò la mia idea della Finanziaria (la piccola Finanziaria che hanno formato loro, non serve a nulla; in pratica si sono limitati a sostituirsi ai creditori). Io avevo pensato alla Finanziaria quando ero ancora presidente della Roma. Vede, i tempi sono cambiati, il presidente mecenate non esiste più, le società vanno organizzate su basi industriali. Voglio bene ad Anacleto Gianni che nell’ultima assemblea ha lanciato il “Libretto giallorosso”. A parte il fatto che si tratta di una cosa complicatissima, con gli interessi divisi tra la Roma e il cliente, quindi con un doppio lavoro per la banca, e a parte il fatto che si sapeva già che gli interessi praticati attualmente sono fittizi, devo dire che l’idea del libretto dì risparmio tra i tifosi è peggio ancora della famosa colletta del Sistina».

— Lei è stato anche consigliere della Lega Nazionale. Ritiene che la trasformazione in SpA sia stato un fatto positivo per il calcio italiano?
«Indubbiamente. Io sono stato un fautore delle SpA. Ritenevo, che il mecenatismo privato fosse immorale, immorale anche nei confronti degli altri. Poi uno, da solo, con tutti quegli impegni, a fare il presidente non si diverte più. La SpA ha permesso una responsabilizzazione ben precisa quindi più seria anche se la riforma non è stata varata sino in fondo. Si è creduto di risolvere tutto con il mutuo, senza tener conto delle situazioni di fatto e cioè che la maggior parte dei bilanci erano fasulli e con il mutuo ci sarebbero stati altri interessi passivi da pagare. Non si è nemmeno considerato che il nostro codice civile non prevede la figura della SpA senza fine di lucro e chissà se e quando verrà attuata la riforma».

— Ma lei, come giudica l’atteggiamento dello Stato?
«Io sono comunista, quindi rifiuto questa società borghese anche se devo accettarla, perché sono un cittadino italiano, e di conseguenza inserito in questa società. E’ quello che cerco anche di far capire ai miei operai. Loro mi considerano un padrone e non hanno torto. Ma mi è difficile farli ragionare. Se sono inserito in questa società borghese, anch’io devo attenermi a certe regole. Vorrei aumentare la loro busta-paga, ma non posso. Siamo in regime di concorrenza. Se un appartamento mi viene a costare X non posso venderlo, mentre lo vende il mio vicino di cantiere che lo vende a Y. Dico: vogliamo cambiare questa società borghese? Cambiamola. Mi rimetto il giubbotto di partigiano e sono con voi».

— Lei, Marchini, ha combattuto per la Resistenza e ha contribuito a fare un’Italia nuova. Cosa prova a trent’anni di distanza?
«Provo una grande amarezza. Perché noi facendo i partigiani sul serio, dormendo all’addiaccio sulle montagne e con il fucile sulle spalle, cioè rischiando la pelle, credevamo davvero di fare un’Italia migliore. Eravamo uniti tutti dallo stesso ideale, non ci chiedevamo se eravamo democristiani, liberali o comunisti. Volevamo un paese migliore anche per l’avvenire dei nostri figli. Dopo trent’anni mi accorgo che le nostre speranze sono andate deluse».

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— Qual è la sua idea, cosa pensa che si dovrebbe fare?
«Io sono coerente con le mie idee. Sono comunista come mio padre che era comunista perché era muratore. Con il mio lavoro mi sono costruito una piccola fortuna, ma sono sempre vicino agli operai. Però mi accorgo che qualcosa non funziona più nemmeno nella classe operaia. Non dico che gli operai siano strumentalizzati dai sindacati, per carità il sindacato è un istituto sacrosanto in difesa dei lavoratori. Lo statuto dei lavoratori è un vangelo, però è anche inattuale, utopistico. In Italia manca lo statuto del lavoro. Nelle scuole ci sono addirittura cinque o sei sindacati. Si fa soprattutto della demagogia. Il momento è critico, sta andando tutto a rotoli. Il denaro costa il 25%; le industrie devono fermarsi per forza, quindi si ferma tutto. E’ difficile il momento internazionale, lo riconosco, però bisogna dire che in Italia si è sbagliato tutto. Adesso andiamo a fare gli accattoni per il mondo cercando di commuovere gli scià e gli sceicchi. Tutto questo non è serio, ma è il prodotto di una società borghese. D’altra parte, i miei operai sono i primi a riconoscere che non è il caso di fare la rivoluzione, bisogna cambiare l’Italia con i sistemi democratici, e allora affidiamoci alla democrazia. C’è però una completa sfiducia. Spero solo che si arrivi al compromesso storico. I comunisti hanno dimostrato di saper amministrare bene i comuni dove hanno la maggioranza. Farebbero bene anche al Governo».

— La presidenza della Roma le avrà procurato almeno qualche vantaggio per le licenze edilizie?
«Vantaggi? Mi ha procurato solo svantaggi. Venni dipinto come un essere fiscale. L’ufficio imposte mi fece quattro verifiche in due anni con una discriminazione vergognosa tanto da farmi telefonare dall’allora Procuratore Generale della Repubblica dottor Carmelo Spagnolo. Parlai con il suo segretario, mi qualificai come «un cittadino», e chiesi un appuntamento. Il segretario volle sapere il mio nome di cittadino e quando dissi che ero Marchini venni richiamato dopo cinque minuti. L’indomani alle undici avevo già l’appuntamento al Palazzaccio. Ci andai con le cartelle delle tasse degli ultimi quattro anni. Spagnolo mi rispose: se in Italia ci fossero 10 contribuenti come lei, lo Stato sarebbe a posto. Però nell’imposta di famiglia sono secondo dietro Torlonia, che ormai è il primo per abitudine. A Roma ci sono tanti industriali più ricchi di me, ma restano nell’ombra. Io sono diventato famoso come presidente della Roma e il Fisco continua a tartassarmi».

Il fisco? D’accordo se è uguale per tutti!

— Però gli affari le vanno bene. Chissà quanti vorrebbero essere al suo posto.
«Ma io mi alzo tutte le mattine alle sei e un quarto e sgobbo tutto il giorno come un negro. Alla sera mi addormento dopo un po’ di televisione. L’ultimo film che avevo visto era “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” sono tornato al cinema per le feste di Natale per accontentare mia moglie che voleva vedere “C’eravamo tanto amati”. Le mie figlie mi prendono in giro perché se mi mettono nelle tasche della giacca 50.000 lire, dopo un mese me le ritrovano sempre lucide perché non so come spenderle. Quando è festa, mia moglie domanda: oggi dove andiamo? E io rispondo che resto a casa, a riposarmi e anche a godermi la casa. Ho una bella villa, certo, ma me la sono costruita io, nel 1950, è la casa della famiglia. L’essermi messo in luce come presidente della Roma mi ha danneggiato in tutti i modi. L’agente del fisco aveva persino accertato che nella mia villa c’è la piscina con l’acqua calda e fredda e non volevano sentir ragioni, perché c’era scritto nell’accertamento. E allora ho invitato l’accertatore a venire a fare il bagno a casa nella mia piscina. Ho una bella collezione di quadri, certo, ma ho cominciato a raccoglierli nel 1933 e facendo grossi sacrifici, perché mi piace l’arte. Sapesse quanti pittori ho aiutato nei momenti difficili. Quasi tutti quando, poi, sono diventati famosi non hanno mostrato nemmeno un briciolo di riconoscenza, ma questo è un altro discorso. Dicevo della mia vita. Non ho nemmeno una barca, anche perché non mi piace il mare. D’estate vado a Grottaferrata, e faccio una scappata di tre o quattro giorni a Londra per trovare l’amico Peronace. L’estate scorsa ha passato una breve vacanza a Brunico, ma perché dopo un’operazione il dottore mi aveva ordinato una lunga convalescenza. Il nostro è un mestiere strano. Adesso sto preparando il piano per Vigna Murata ma per cinque anni dovrò affrontare solo spese. Comincerò a guadagnare tra cinque anni. Ma vai a raccontare al Fisco che per cinque anni non guadagno niente. Mi hanno accertato 350 milioni di imponibile, e ho detto sta bene a patto che tutti gli altri siano tassati in proporzione. Poi leggendo «La Stampa» di Torino ho scoperto che Agnelli è stato tassato per 320 milioni e allora ho detto che non mi sta più bene».

E per finire… il compromesso storico

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Del Sol alza al cielo il Trofeo Picchi, accanto a lui il presidente Marchini

— Lei rimarrà nella storia del calcio come il presidente che ha pagato di più un allenatore. A Helenio Herrera dette in un anno 230 milioni.
«Quel contratto scandaloso non lo feci io, lo trovai. Dissi subito in Consiglio che era immorale. Andai in Lega per cercare di non rispettare il contratto, riferii tutto al presidente, che allora era il dotor Stacchi, gli spiegai anche che H. H. avrebbe preso molti di questi milioni sottobanco. Stacchi mi rispose che stavo dicendo cose molto gravi, perché violavo il regolamento della Lega, quindi avrei dovuto essere squalificato. Ricordo che c’era Arrica e allora dissi che dovevamo guardarci in faccia e chiesi se ci volevamo prendere in giro tra di noi, perché nei libri contabili c’era scritto che il Cagliari dava a Riva 40 milioni, mentre a me risultava che Riva ne prendeva 110. La mia rivalità con Herrera cominciò proprio per questo contratto scandaloso. Purtroppo non mi fu possibile fare quello che volevo anche per via della stampa».

— Lei era amico di Anzalone, perché poi ha rotto?
«Non certo per colpa mia. Anzalone era un amico di famiglia e io sono ancora ottimo amico del padre, delle sorelle e del cognato. Nella Roma tutti lo consideravano il mio delfino. Poi però è cambiato, ha creduto alla storia delle congiure e ha coinvolto anche Cordova. Io un giorno mi sono scocciato e l’ho chiamato proprio da questo telefono dicendogli che se avesse continuato l’avrei sculacciato per la strada, come sì fa con i ragazzini impertinenti, perché noi continuiamo a considerarlo un ragazzino anche se ha ormai 45 anni».

— Per non essere coinvolto nella storia del golpe, per due anni ha disertato l’«01impieo». Adesso è tornato. Cosa pensa dell’attuale momento del calcio italiano e della Nazionale affidata a Bernardini?
«Bernardini ha ricordato che volevo riportarlo alla Roma dopo aver mandato via Herrera, ed è vero. Però io volevo prenderlo come direttore tecnico (e inserirlo pure nel Consiglio come dirigente) con un allenatore giovane al fianco. Penso che anche in Nazionale si dovrebbe formare un tandem del genere. Io non sono un conservatore, vado avanti, capisco i giovani, ma in tutte le cose ci vuole prudenza».

— Anzalone adesso ha allargato il Consiglio della Roma, sembra intenzionato a fare grandi cose.
«Qualche nuovo consigliere è entrato, ma bisognerebbe dire come sono stati reclutati. Mi risulta che volevano anche un democristiano non l’hanno trovato. Un nuovo dirigente è Belli del Banco di Santo Spirito. La nuova sede dell’istituto, qui all’ Eur, l’abbiamo costruita noi Marchini. Ho incontrato Belli alla inaugurazione. Mi ha raccontato che era fuori Roma con la famiglia e ha appreso dai giornali di essere stato eletto consigliere della Roma. Non ne sapeva nulla».

— Lei dice che nella Roma tante cose non funzionano. Ma nella Lazio regna l’anarchia eppure Lenzini ha vinto lo scudetto.
«Ma nella Lazio non c’è un vuoto di potere, comandano Wilson e Chinaglia. La forza della Lazio è Wilson che ha formato una specie di casta. Si può parlare addirittura di mafia, ma un potere c’è».

— E per rilanciare l’Italia, Marchini, cosa manca?
«Manca il compromesso storico. I tempi sono ormai maturi. Non siamo più all’epoca di Papa Pacelli che dopo la Liberazione scomunicò i comunisti spaccando l’Italia in due. L’Italia è di nuovo in pericolo, dobbiamo unirci tutti, democristiani e comunisti».