AMADEI Amedeo: il primo dei moderni

Fra i più grandi centravanti del calcio italiano di ogni tempo: una storia bella ed edificante.

Nasce il 26 luglio del 1921 a Frascati, dove la sua famiglia possiede un forno che è da secoli un’istituzione. Però succede che il nonno Antioco, posseduto dal demone del gioco, una sera mette sul piatto il suo forno per trentamila lire e lo perde. Il giorno dopo la famiglia deve ricomprarlo per quarantamila e il padre di Amedeo eredita questa situazione piuttosto pesante, che obbliga tutti a una dura esistenza di lavoro e sacrificio. Anche Amedeo, che all’epoca ha dodici anni, a tredici deve lasciare la scuola, che è diventata un lusso insostenibile, e prende a fare il «cascherino», il ragazzo che distribuisce il pane ai negozi della zona, partendo all’alba col cestone sulle spalle, spingendo sui pedali di una bici antidiluviana.

Nei pochi momenti liberi, gioca al calcio, nelle giovanili del Frascati. Un giorno lui e un suo amico leggono su un ritaglio di giornale che la Roma fa provini per i giovani al Testaccio. Amedeo inventa una scusa e con la sua bici va all’appuntamento, gioca, e subito pigia sui pedali per il ritorno. Ma fora, arriva in ritardo e a casa sono dolori. Pochi giorni dopo arriva la convocazione della Roma e il padre, che non ne sapeva niente, va su tutte le furie e pone il veto. Altro che giocare, c’è il lavoro che chiama. Per fortuna di Amedeo, le due sorelle, Adriana e Antonietta, due angeli, prendono col padre un solenne impegno: avrebbero fatto loro anche la parte del fratello, per consentirgli di inseguire il suo sogno.

Alla Roma, la sua ascesa è fulminante. Quando ancora gli mancano tre mesi per compiere i sedici anni, il 2 maggio 1937, esordisce in Serie A. Vanta ancora il primato di essere il debuttante più giovane, con poche settimane di vantaggio, su un futuro fuoriclasse, Gianni Rivera. Nella stagione gioca tre partite e segna un gol. E un attaccante rapidissimo, soprattutto il suo scatto è portentoso. E saettante è il suo tiro, da fermo e in corsa. Amedeo viene mandato un anno a Bergamo, nell’Atalanta in Serie B, per maturare, rientra alla Roma nel campionato ’39-40, esplode in quello successivo, a vent’anni, con diciotto gol in trenta partite.

L’allenatore, Alfredo Schaffer un ungherese rifugiatosi in Italia allo scoppio della guerra, ha fra le mani una squadra non eccezionale, che non può essere rinforzata per mancanza di fondi. Così si adegua e gioca un «metodo», basato soprattutto sul contropiede. Amadei ne è la punta di diamante, affiancato ai lati da Krieziu e Pantò. La sua velocità risulta decisiva, come i suoi diciotto gol, e la Roma vince lo scudetto del ’42, debellando il Venezia di Loik e Mazzola nonché l’emergente Torino.

E’ l’epoca in cui l’Italia canticchia un motivo intitolato «Se potessi avere mille lire al mese». Il primo stipendio di Amadei era di 450 lire, che diventarono 800 nella stagione seguente e 1.800 in quella dello scudetto. Il più pagato era il portiere Masetti, che guadagnava il doppio. La conquista del titolo regalò ad Amadei un premio di 500 lire per ogni partita giocata, 15 mila lire in tutto. «Più un orologio di metallo e 25 giorni di licenza dal corpo dei bersaglieri. Di feste, nemmeno a parlarne. Fummo ricevuti dal federale, che ci offrì due pasticcini. C’erano la guerra e una fame bieca»

Ecco, la guerra appunto. Nel valutare la carriera, e i gol, di Amadei, bisogna tenere conto anche di questo sbarramento crudele. Nel ’43 Amadei gioca una partita di Coppa Italia a Torino. Un gol dei granata in evidente fuorigioco viene convalidato e i giocatori della Roma circondano il guardalinee Masseroni. Amadei, un tipo tranquillo, arriva per ultimo, proprio mentre il guardalinee viene colpito da un calcione alle terga. Masseroni si volta, vede Amadei e vi identifica il colpevole. Scatta inesorabile la squalifica a vita per il ventiduenne centravanti.

Quando si riprende, dopo l’armistizio, Bernardini è nominato commissario straordinario della Federcalcio e subito promulga l’amnistia. In effetti, il colpevole era stato il romanista Dagianti, più tardi… reo confesso. La Roma si dibatte in perenni problemi economici e nel ’48 cede Amadei (che ha segnato 19 gol nel campionato appena concluso) alla ricca Inter.

Così il «fornaretto» entra in Nazionale e gioca a Madrid, in quella che sarà l’ultima partita del Grande Torino in azzurro, rimanendo affascinato dai compagni di squadra e in particolare da Valentino Mazzola. «Vincemmo per 3-1 a Madrid e io segnai il terzo gol. Ho fatto appena in tempo ad apprezzare da vicino l’incantevole talento di Valentino. In Italia non c’è mai stato un calciatore completo come lui»

All’Inter forma un attacco atomico con Nyers e Lorenzi. In due stagioni nerazzurre segna 42 gol, due dei quali li segna nel 1949 in un derby leggendario, quello che l’Inter vince per 6-5 dopo essere stata sotto 4-1. Poi arriva l’invito del Napoli, appena risalito dalla B, che Lauro vuol rendere competitivo con gli squadroni nordisti.

A ventinove anni, Amadei conosce il suo terzo ciclo, quello napoletano. Da attaccante si trasforma in regista per lanciare Jeppson e Vinicio, sorretto alle spalle da chi corre anche per lui. Amedeo vi gioca sino ai 35 anni, sempre snocciolando i suoi puntualissimi gol.

Lauro stravede per lui e determina la svolta della sua carriera. In realtà Amedeo pensa di andare a spendere gli ultimi spiccioli agonistici in Francia, in un calcio meno stressante. Ma Lauro un giorno lo chiama e gli dice: «Monzeglio mi sembra inadatto a guidare il mio Napoli, da domani la squadra è tua». Così Amadei si trova allenatore e poiché è un uomo coscienzioso si iscrive subito al corso e si ritrova compagno di banco di Carletto Parola, suo rivale in epici scontri sul campo.

Sotto la guida di Amadei il Napoli si comporta alla grande, sicché alla fine della stagione il presidente della Roma, Gianni, lo convoca di nascosto e gli offre una barca di soldi per allenare i giallorossi. Amadei, che si sente impegnato con Lauro, rifiuta, ma intanto il comandante ha assunto Frossi senza fargliene parola e così si ritrova a spasso.

Comincia a capire che quel mondo non fa per lui. Tanto più che, dopo appena quattro giornate, Lauro licenzia Frossi e lo richiama. «Dopo ogni sconfitta, Lauro mi faceva vedere i telegrammi dei miei colleghi, che si proponevano per sostituirmi, e da quel giorno ho vissuto nel terrore di diventare come loro».

Così, addio al calcio, salvo una parentesi per hobby alla guida della Nazionale femminile. «All’epoca c’erano pochi soldi, io percepivo soltanto i rimborsi spese. Delle ragazze che selezionavo mi sbalordivano la volontà e l’orgoglio, superiori a quelli di tanti maschietti»

Meglio restaurare il forno di famiglia, ancorarsi alle sane tradizioni, sfruttare il successo per costruire qualcosa di solido. A Roma la sua popolarità è sempre stata immensa. Bruno Roghi lo incoronò sul Calcio Illustrato: «Viva Amedeo Amadei, ottavo re di Roma». Nel 1952, quando giocava nel Napoli, la Democrazia Cristiana lo presentò candidato nelle sue liste e il fornaretto ottenne una tale valanga di voti da finire secondo assoluto, alle spalle del sindaco Rebecchini. I romani non avevano dimenticato il loro idolo.

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Amadeo Amadei (Frascati, 26 luglio 1921 – Grottaferrata, 24 novembre 2013)

Amadei ha giocato 17 campionati di A (9 nella Roma, 2 nell’Inter, 6 nel Napoli) con un bilancio di 457 partite e 189 gol. Esordio il 2 maggio 1937 (Roma-Fiorentina 2-2, addio il 26 febbraio 1956 (Genoa-Napoli 3-1). Con la Roma, nel 1942, ha vinto il primo scudetto della storia giallorossa.
Odio e amore per l’azzurro: in nazionale Amadei ha giocato 13 partite e segnato 7 gol. Esordio il 27 marzo 1949 a Madrid (Italia-Spagna 3-1) e addio il 17 maggio 1953 a Roma (Ungheria-Italia 3-0). Poco visto dal c.t. Pozzo, entrò nel giro azzurro relativamente tardi.
Da allenatore, Amadei ha vinto nel 1958 il Seminatore d’oro. In panchina ha guidato Napoli, Lucchese e, dal 1972 al 1978, la nazionale femminile