Anselmo: Fuga dalla vittoria

La storia dell’uomo che per paura saltò la prima finale dei Mondiali di calcio

Se l’intenzione era quella di spaventarlo, ci riuscirono benissimo. Povero Peregrino Anselmo, centravanti provetto con la sindrome di Don Abbondio. Salito alla ribalta all’inizio degli anni Venti, in una Montevideo che viveva un’irripetibile età dell’oro calcistica, il buon Anselmo a ventott’anni aveva raggiunto l’apice di una carriera dignitosa, ma non memorabile. Col Peñarol, la sua squadra di sempre, aveva vinto quattro campionati nell’arco di sei stagioni, relegando una volta tanto al ruolo di comprimari gli storici rivali del Nacional. Il guaio era la Nazionale: in quella inarrivabile Celeste, capace di mettere in fila le potenze del calcio mondiale tanto a Parigi (Olimpiadi del 1924) quanto ad Amsterdam (1928, finale olimpica con l’Argentina: il più bel match della storia secondo le cronache del tempo), non c’era posto per Anselmo. Chiuso da Pedro Petrone, dirimpettaio del Nacional, due volte campione olimpico: una gloria patria come Nasazzi, il capitano, come Scarone, la mente. Uno che, dopo una vita di successi, avrebbe praticamente chiuso la carriera in Italia (alla Fiorentina), già allora terra promessa per i pedatori d’ogni latitudine.

La grande occasione. Normale che al primo Mondiale della storia l’Uruguay si presenti con i mostri sacri. Per Anselmo c’è la panca, che in un calcio senza sostituzioni e senza turnover è un limbo con pochi spiragli. Ma il 1930 è, nel bene e nel male, l’anno di Anselmo. Il 18 luglio la Celeste inaugura lo stadio Centenario: contro il Perù dovrebbe finire in goleada e invece i pluridecorati uruguaiani non vanno oltre uno striminzito 1 -0. Delude soprattutto Petrone, il gran bomber mai così sgonfio. E allora, per il secondo match, contro la Romania, Alberto Suppicci, il giovane Ct, decide di cambiare: fuori il punterò spuntato e dentro Anselmo, l’eterna riserva. Altra musica, decisamente: quattro gol dell’Uruguay e uno di Anselmo, che si dimostra subito assai più reattivo rispetto all’illustre predecessore.

L’undici dell’Uruguay schierato contro la Romania. Anselmo è esattamente al centro

Per Suppicci basta e avanza: il limbo della panchina stavolta accoglie Petrone. Scelta felice: la semifinale con la Jugoslavia è una passeggiata (come quella degli argentini contro gli Stati Uniti) e Anselmo raddoppia. Suoi i gol del 2-1 e del 3-1. Alla fine saranno sei, rotonda conferma di una squadra che ormai gira a meraviglia. Il 30 luglio è il gran giorno: la finale è una classicissima, Uruguay-Argentina come ad Amsterdam due anni prima. Stavolta però non c’è di mezzo un oceano e il clima si scalda in fretta. In un paio di giorni ventimila argentini attraversano il Rio de la Piata con intenzioni non propriamente pacifiche se è vero che il più diffuso quotidiano di Montevideo se ne esce con questo titolo: «Che nemmeno un revolver argentino attraversi il confine». Eccessivo? Sì, come le minacce di morte (!) che Monti e Zumelzù, mediani dell’Argentina, si sentono rivolgere la notte prima del match. O come le pretese dell’arbitro belga John Langenus, che accetta di dirigere la finale a patto che gli sia intestata seduta stante un’assicurazione sulla vita a beneficio della famiglia e che, a cose fatte, gli sia messo a disposizione un piroscafo pronto a partire per liberarlo da quell’inferno.

Un rifiuto, troppi misteri. Qualcosa di strano doveva essere capitato, durante la notte, anche al nostro Anselmo, perché pochi minuti prima dell’inizio il centravanti che aveva sognato quel giorno per tutta la vita si avvicinò al capitano Nasazzi e gli sussurrò poche, sorprendenti parole: «Preferirei non giocare». Di più non è dato sapere: la reazione del capitano e dei compagni, i tormenti del terrorizzato Anselmo e soprattutto il motivo dell’inattesa rinuncia. Mistero. Certo, chi si era messo in testa di spaventare il nostro malcapitato, ci riuscì benissimo. Purtroppo per gli argentini, però, la sua assenza pesò meno di zero: l’Uruguay vinse 4-2 e l’ultimo gol fu segnato da Hector Castro, il sostituto di Anselmo cuor di leone. Che, dopo il gran rifiuto, ritrovò finalmente la tranquillità. E di quella si dovette accontentare per tutta la vita.