Argentina-Olanda e le occasioni perdute

La storia della finalissima di Baires 78: i favoritismi ai padroni di casa, la forza della sottovalutata Olanda e il palo di Rensenbrink.


L’Olanda approdata alla finalissima in Argentina era una lontana e sbiadita parente della formazione irresistibile che quattro anni prima in Germania aveva sbalordito il mondo con un calcio rivoluzionario e spettacolare. L’abbandono di Johan Cruijff il profeta, il solo fuoriclasse in grado di nobilitare quegli schemi impregnati di atletismo e di forza fisica, aveva tolto ispirazione e fantasia alla manovra.

Ernst Happel lo scontroso e formidabile tecnico austriaco che guidava gli orfani del grande Johan, era tuttavia riuscito ad allestire una squadra ugualmente competitiva, seppur di alterni umori. Il telaio era ancora costituito dagli sfortunati eroi di Monaco: il portiere anomalo Jongbloed, Suurbier e Krol, Jansen e Neeskens, Rep e Rensenbrink, Arie Haan. I nuovi, di non eccelsa qualità, erano Brandts, Poortvliet, Van Kraay, Nanninga e gli ottimi gemelli Van de Kerkhof, Willy e René.

Era un’Olanda meno scintillante, ma capace di randellare scientificamente, nei momenti di emergenza: l’aveva dimostrato rovesciando la partita con l’Italia, che le era tecnicamente superiore, proprio per averla messa sul piano fisico e intimidatorio. Sicuramente, se c’era una squadra insensibile al fattore campo, sufficientemente sfrontata per non subire il pesante condizionamento di un pubblico scatenato, questa era l’Olanda.

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Le squadre in campo agli ordini dell’italiano Gonella

L’Argentina per questo la temeva. Ma Luis Menotti, sotto un altro profilo, era anche soddisfatto per aver evitato i due avversari che riteneva più pericolosi e più indigesti al suo tipo di gioco: l’Italia e il Brasile. Dopo ripetuti cambiamenti di rotta nel corso del Mondiale, «el Flaco» aveva infine trovato i giusti equilibri. Davanti al bravissimo Fillol, Passerella era tornato, nelle ultime partite, il «caudillo» in grado di comandare a bacchetta la retroguardia. Luis Galvàn era un centrale di modesta tecnica ma di formidabile agonismo, implacabile in marcatura. I due terzini, Olguin e Tarantini, avevano progressivamente raggiunto la migliore condizione.

Il centrocampo aveva un lucido e raffinato cervello, «Ossie» Ardiles, e un infaticabile cursore, Ruben Americo Gallego, detto «Bortolo», molto prezioso in copertura. Il reparto riceveva l’appoggio di Mario Kempes, che partiva da lontano per le sue folgoranti puntate a rete, e di Bertoni, funzionalissimo pendolo sulla fascia destra. Luque era il centravanti-boa e Ortiz la velocissima ala mancina, in grado di sfornare perfette centrate dal fondo.

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Duello a centrocampo tra Neeskens e Ardiles

A questa formazione, Menotti era arrivato per gradi: in partenza, Houseman era l’inamovibile titolare sulla destra dell’attacco, Villa o Valencia la mezzala di rifinitura e Kempes il centravanti. Ma lo stentato avvio aveva operato una selezione naturale e il tecnico era stato assai abile a raccogliere le indicazioni del campo e ad apportare i necessari ritocchi.

Molta attesa per la designazione dell’arbitro, dopo che i ripetuti favori ricevuti dai padroni di casa nel corso del torneo avevano fatto drizzare le antenne a tutti gli osservatori. La scelta dell’italiano Sergio Gonella parve una sufficiente garanzia. In effetti, Gonella non prestò il fianco a critiche specifiche, anche se tutta la direzione fu inclinata a senso unico, dal sistematico perdono delle rudezze di Passarella, alle ammonizioni in serie inflitte agli olandesi. D’altra parte, sarebbe stata utopia pretendere l’assoluta imparzialità in quell’ambiente surriscaldato, con ottantamila spettatori invasati in attesa del momento fatidico in cui inneggiare all’Argentina campione del mondo.

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Il nostro Sergio Gonella tra l’austriaco Erich Linemayr e l’uruguaiano Ramón Barreto Ruiz

La complessa macchina organizzativa, che si era mossa sin dall’inizio con l’unico scopo di portare la squadra di casa sul tetto del mondo e inondare il Paese con un bagno di euforia nazionalistica, stava per raccogliere i suoi frutti e non era pensabile che tollerasse uno sgarbo proprio… in vista del traguardo. Eppure, come vedremo, ci fu un momento in cui tutto il sofisticato piano parve sul punto di saltare in aria.

Ma ora sintonizziamoci in cronaca diretta su quel 25 giugno, allo stadio Monumental del River Plate, interamente dipinto di bianco e di azzurro, i colori della Nazionale argentina, con qualche sporadica macchia arancione. Il prologo è subito tempestoso. René van de Kerkhof si presenta in campo con una fasciatura rigida al polso destro, ferito nell’incontro precedente, Gonella gli impone di toglierla e la squadra olandese minaccia addirittura di non iniziare la partita! Momenti concitati, con il pubblico in ebollizione. Poi il giocatore olandese viene fornito di una benda leggera e si può cominciare.

Happel ha studiato l’Argentina, sa che la sua forza è il gioco d’attacco, in velocità, ma che la retroguardia non è invulnerabile. Decide di adottare una tattica aggressiva, per portare il gioco nel settore che gli è più favorevole. Gli arancioni vanno per le spicce, secondo il loro solito, il pressing sconfina sovente nella scorrettezza e gli argentini sono maestri nell’ingigantire le conseguenze dei falli subiti.

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Gli argentini praticano un gioco al limite del regolamento, gli olandesi non si tirano indietro

Gonella, inesorabile, ammonisce a tutto spiano, ma sul suo taccuino finiscono soltanto giocatori olandesi: Krol, il leader della squadra, Poortvliet, Neeskens, Suurbier. L’Olanda si innervosisce, anche perché l’arbitro sorvola con disinvoltura su una gomitata che Passarella rifila in pieno volto a Neeskens, staccandogli due denti! I giudici di linea sono l’austriaco Linemayr e l’uruguaiano Barreto.

Entrambe le squadre adottano la tattica del fuorigioco, ma per due volte gli attaccanti olandesi lanciati verso il gol, vengono fermati in modo assai opinabile. Cosi dunque va il mondo, e non è una sorpresa. Con tutto questo l’Olanda tiene l’iniziativa del gioco, Rep punzecchia ripetutamente Fillol, che risponde da campione.

Happel le prova tutte, comanda il tiro da lontano, ma la superiorità olandese non riesce a concretizzarsi anche perché il cannoniere scelto, Rensenbrink, non è precisamente un cuor di leone e alle prime rudezze della coppia GalvànPassarella ha preso a girare accuratamente al largo.

Non è che l’Argentina stia a guardare: le sue offensive sono condotte prevalentemente sulle corsie esterne. dove la velocità di Bertoni e Ortiz mette a disagio i massicci difensori olandesi. Specialmente Bertoni tortura con il suo gioco variato il mediocre Poortvliet. Al 37’ un’azione partita dal piede sapiente di Ardiles, e proseguita da Luque, fornisce finalmente una palla giocabile al furente Kempes: folgorante anticipo e diagonale incrociato imprendibile per Jongbloed. Il gol, oltre a scatenare il delirio sugli spalti, accende l’estro degli argentini, che chiudono il primo tempo all’attacco, su un Olanda visibilmente sconfortata.

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La prima rete di Kempes

La ripresa è per lunghi tratti deludente. L’Argentina sembra paga, sente il successo vicino, arretra il baricentro del gioco, a protezione della sua non irresistibile difesa. Bertoni e Ortiz si incaricano di alimentare qualche contrassalto più che altro dimostrativo. L’Olanda rotola in avanti per forza d’inerzia, più che per reale convinzione. Non ha molte idee, non c’è un Cruijff nelle sue file, e lo si nota vistosamente. Haan e Brandts armano velleitari tiri dalla distanza, che Fillol neutralizza con sicurezza. Happel non sa che fare.

Chiama fuori lo spento e impaurito Rep e lo sostituisce con Nanninga. attaccante di modeste qualità tecniche, ma corpulento e combattivo. Con Gonella che dà la chiara impressione di voler arrivare in fondo senza complicazioni, e quindi spezzetta il gioco in continuazione. l’Olanda impotente e l’Argentina appagata, è proprio una finale in tono minore. Ma riserva il dolce (o il veleno?) nella coda.

A nove minuti dalla fine, René van de Kerkhof, in proiezione esterna, centra un pallone pericoloso nell’area argentina, pasticciano Tarantini e Luis Galvàn. Poortvliet. con la collaborazione di Nanninga, riesce a far rotolare la sfera nella rete di Fillol. Mentre il gelo cala sugli spalti, si riaprono i giochi.

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Nanninga festeggiato dai compagni dopo l’insperato pareggio

E non è finita. Novantesimo minuto. Rensenbrink riemerge dal suo torpore, fila dritto come una spada fra la stranita difesa argentina, chiude con un tiro imprendibile dalla sinistra, cercando lo stretto varco fra il portiere e il palo di destra. Fillol è battuto, il pallone, violentissimo. incoccia in pieno il legno e rimbalza in campo!

Gonella fischia subito la fine dei tempi regolamentari, a scanso di equivoci. Gli ottantamila del River sono ammutoliti. Ecco, in quei tempi supplementari dell’ultima partita, l’Argentina dimostra finalmente di meritare, in parte, il suo titolo mondiale. Sin qui è stata affettuosamente accompagnata e sorretta da tante mani lungo il cammino. Ma adesso si ritrova sola e reagisce da squadra vera.

L’Olanda ha lasciato su quel palo tutti i suoi sogni. La proroga, che dovrebbe veder prevalere il suo superiore atletismo, è invece una sofferenza, per i tulipani. La coppia KempesBertoni impazza senza remissione. Al 104′ Bertoni avvia l’attacco, serve Kempes che salta imperiosamente i due centrali olandesi, invita Jongbloed all’uscita e lo trafigge in controtempo.

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Kempes nei supplementari riporta in vantaggio l’Argentina

Dieci minuti dopo, le parti si invertono. Kempes aggredisce frontalmente la difesa avversaria, poi offre un delizioso assist a Bertoni che realizza a porta vuota. È il trionfo.

Gli olandesi non ci stanno. Contestano l’arbitraggio contrario, al punto che lasciano il campo senza assistere alla consegna della Coppa alla squadra vincitrice. Happel si nega alla conferenza stampa. Krol non si presenta a ricevere il premio per il secondo posto. Eppure hanno avuto, per un attimo, la partita in mano e se la son vista sfuggire per pochi centimetri.

Bertoni diventa un semidio. Alla vigilia dei campionati aveva rivelato ai giornalisti argentini: «Ho sognato che l’Argentina diventerà campione del mondo e che io segnerò il gol decisivo nella finalissima». E si era prestato a girare in anticipo quella scena, per i fotografi. Tutto si era svolto come in quella singolare divinazione. Buenos Aires si abbandona a 48 ore di follia, durante le quali (giusto i piani di Videla e della «junta») tutto è dimenticato sull’altare del dio pallone. Il dubbio se sia stata vera gloria, al momento, sembra fuori luogo.