Giovanni Arpino: Cronache Argentine

6 giugno 1978: Esorcismi in salsa ungherese

«Ma sì piova pure, venga anche il diluvio, danneggerà più gli ungheresi di noi», brontola Enzo Bearzot. Tirano raffiche di pioggia, poi riappare il sole, poi si abbatte un vento che apre squarci splendidi nel cielo, quindi tornano fumi temporaleschi. E’ un marzo confuso con novembre, l’umidità supera il novanta per cento, chi è debole di tonsille sta già riempiendosi di antibiotici. Ma al «vedo» sta bene: gli uomini di Baroti, infatti, sono palleggiatori ragguardevoli e certo non potranno sfoggiare le loro doti di maestria nello stadio di Mar del Plata, magnifico per chi ama «veder calcio» ma con un fondo erboso che sembra un orto da cui stanno per sbocciare ravanelli e fagiolini. E’ il gran giorno, è il momento di Italia-Ungheria, che potrebbe fin da oggi assicurare agli azzurri il «passaggio» al turno successivo, un traguardo che veniva giudicato impossibile dalle Cassandre che esaminavano la «banda Bearzot» non secondo la realtà del clan ma obbedendo solo ai propri isterismi critici.

Inutile ripeterci che sarà dura, durissima, ma che il rìschio è enorme, che l’ottimismo è una trappola, che la rabbia ungherese vorrà sfogarsi con schemi, inventiva, incisività e non con calcioni (ormai rischie- rebbe solo più brutte figure e «penalizzazioni» in patria). E’ il gran giorno, bisogna moderare l’ansia e mettere la sordina alle tentazioni euforiche. Malgrado i tradizionali veleni che l’assediano, il fortilizio azzurro è rimasto sano, intatto. Ancora una volta, tutto dipenderà dal recupero delle energie spese nell’esordio contro la Francia. Ancora una volta il commissario tiene fede alla sua politica di coerenza, attendendo le lezioni del campo per apportare le eventuali varianti. L’attesa è enorme, e questa spropositata «Riminona» che è Mar del Piata sembra respirarla in lunghe sorsate apprensive.

Gli ungheresi «sono qualcuno» malgrado le sberle subite durante l’amichevole a Londra e la stangata appioppatagli dagli argentini in una partita drammatica per la tensione e le rabbie agonistiche. Anche come individualità, la squadra magiara è un complesso rispettabile, al di là di certi «sfizi» zingareschi. Un antico sangue corre nelle vene del suo gioco danubiano e non bisogna mai dimenticarlo. Sia detto per scaramanzia, da molto tempo l’Ungheria è una delle nostre «bestie nere», così come la squadra azzurra lo è per la Francia o la stessa Germania. Non sarà tango, oggi, nell’orto verdissimo di Mar del Plata, dove i talloni affondano fino alla caviglia, dove le punte dei piedi rischiano di sollevare zolle enormi. Può darsi che qualche piccolo stilista magiaro soffra più di Bettega, ma anche questo è un discorso che potremo fare solo «a posteriori», non adesso.

Ho cercato di dare un’occhiata agli ungheresi, anticipando la troppo ufficiale conferenza stampa del vecchio Baroti. Ho tentato l’avventura domenica scorsa, in una mattinata di pioggia continua, con le grandi onde dell’Atlantico che si distendevano lungamente, infingarde, attraverso l’immensa baia di Mar del Plata. Con un collega siculo saliamo su un tassì e ci dirigiamo verso Chapadmalal, a una trentina di chilometri. Quando ormai Mar del Plata è lontana, la macchina comincia a fumare dal cofano. Pedro Bandi, il tassista, ferma, e qui comincia una sequenza secondo i canoni cinematografici di Stantio e Ollio. Chino dentro il cofano, Pedro comincia a strappar roba, pezzi di metallo, budelli di gomma. Li mostra in alto, come trofei maledetti, li insulta e li butta via. Dà martellate, stringe chissà cosa, piazza due calci, poi si riparte. Cinque chilometri e il fumo è di nuovo lì che fuoriesce.

Usciamo di strada, lungo una «correlerà» stravolta dal fango, e approdiamo in mezzo a una torma di cani bagnati, che abbaiano finché non arriva un uomo con un secchio e un po’ d’acqua. Decisamente Pedro Bandi innaffia dentro il cofano della sua «Peugeot Diesel» targata V-004910, sempre insolentendola come se si trattasse di donna infedele, rinfacciandole la vita ancora giovane e i suoi antenati meccanici, le sue genealogie straniere. Ancora una volta Pedro si solleva facendo mostra di lacerti metallici bisunti e li scaraventa via, davvero come Stanlio o Ridolini. Si riparte, ignorando cosa rimanga dentro quel cofano spolpato. Pedro è coperto di grasso dai polpastrelli alla nuca, ma ci porta fino al «ritiro» di Baroti, che secondo me, a questo punto, deve essere uno jettatore, forse inconsapevole ma pericoloso.

Niente da fare. Non si entra. Chi ci parla è un sergente dell’esercito argentino, molto gentile ma inflessibile. E’ anziano, ha un viso ritagliato nel cuoio, da piccolo John Wayne o da oscuro eroe di film bellici degli «Anni Cinquanta». Tutta la zona è controllata dall’esercito, perchè costituisce la residenza estiva del Presidente della Repubblica, più o meno come Castelporziano vicino ad Ostia. Gli ungheresi sono lì dentro, inavvicinabili se non nel momento della conferenza «oficial». Addio, Baroti, ce ne torniamo, io e l’amico siculo, sotto l’acqua e dentro la «Peugeot» che ha tosse, catarri, sputi, sobbalzi e inverecondi rumoracci. Non smetto di toccar ferro. Mica per tema di incidenti, ma perchè quattro anni fa mi accadde un’avventura più o meno identica quando tentai di forzare il «ritiro» tedesco di Gorski, il «mister» dei polacchi. Non parlai con Gorski, e gli azzurri, avventandosi come cuccioli affamati ma senza forze si fecero sbranare sul campo dai vari Gorgon, Deyna, Lato.

E se ho concesso spazio a questo ritrattino è per esorcizzare il fatto, per scavare una buca tra passato e presente, per levar eventuali colpi di scalogna alla mia e nostra «banda Bearzot». Iniziano da oggi le battaglie della verità: troppi sono nei guai, dalla Francia di Hidalgo alla Spagna di Kubala allo stesso Brasile di Coutinho. Da questo momento il coltello esce da sotto il banco per ferire. Il «Mundial» entra nella curva cruciale, perché molte partite — secondo logica, e sempreché logica esista — potrebbero contare di meno, al terzo «round». Questo, che invece è il secondo, deve mostrar la vera faccia di chi possiede ambizioni pari alla capacità. Il resto è chiacchiera, o mortifera o sollazzevole ma anche superflua. Avanti chi ha gambe, questo è l’ordine. Corra chi può. Sfanghi chi è in grado di assumere l’iniziativa. Perché lo «stress» del debutto va ad assommarsi all’urgenza di ripetersi.

Un «Mundial» detta la sua crudeltà proprio nel breve giro dei turni. Inutile cabalizzare sugli azzurri, come fanno molti: se battono l’Ungheria, possono «riposarsi» con l’Argentina che stecchisce la Francia, e ambedue i clan schiereranno uomini freschi, dando agli altri sette giorni di pausa. Ma che bello. Prima però bisogna sudare nel vento e nella pioggia questi maledetti novanta minuti con l’Ungheria, e non è detto che la Francia porga il collo dei suoi «coqs» alla mannaia di Menotti (anzi: se si avventano, i biancocelesti rischiano molto di fronte al contropiede di Hidalgo, che certo non vorrà andarsene a casa con zero punti, dopo tutte le chiacchiere spese nell’annata).

Devo ancora compiere un esorcismo, a proposito di Ungheria. E mi scuso per il «fatto personale». Gli è che a Budapest e dintorni sono considerato in modo molto lusinghiero, diversi studenti magiari si sono laureati discutendo i miei libri, l’ultimo numero della più nota rivista letteraria ungherese ha pubblicato un mio romanzo abbastanza recente. Insomma: non sono un profeta, ma mi nobilita questa attenzione, come mi lusingò, anni fa, la traduzione clandestina d’un mio libro, che circolava tra gli esponenti della più fresca «intellighentzia» budapestina. Dovrei quindi essere tenero nei loro riguardi, e magari chiudere un occhio su un «offside» durante la gara d’oggi, oppure applaudire la squadra di Baroti mentre si avventa verso Zoff. Ebbene: no. Il grido di «pietà l’è morta» può suonare esagerato, ma sintetizza lo stato d’animo del critico di calcio, che non accetta consigli o inviti alla prudenza da parte del romanziere.

E non mi coprirò di ceneri ipocrite il capo. La cultura è eterna, il calcio è solo momento fenomenico però va amato, non per bassa passione tifosa, ma come da bambini si amasio, gli aquiloni. E così, mentre il critico di football sgambetta il romanziere (il quale però sa come rotolare e rialzarsi: o almeno glielo auguro) inventerò qualche via d’uscita diplomatica. Segnate un paio di «pere» al sorridente Baroti, o «fratellini» azzurri. Dopodiché sarà doveroso da parte mia spedire una cassetta di vini piemontardi alla redazione della rivista «Nagy Valag», mia cara ed incauta editrice ungara.