Giovanni Arpino: Cronache Argentine

8 giugno 1978: Spinta per il futuro

L’aereo compie una lunghissima virata, il comandante avvisa: «Alla vostra sinistra potete vedere lo stadio del “River Plate” dove in questo momento l’Argentina sta giocando contro la Francia». Sotto di noi Baires notturna è un presepe senza confini, una galassia luminosa che supera lo spettacolo offerto da New York quando la si scorge da seimila e poi tremila e poi mille metri. Il fiume è un mare buio, fitto di navi all’ancora; le strade sono filamenti stellari che si perdono fino all’orizzonte. Ma è lo stadio del «River Plate» che dobbiamo guardare, il comandante vira ancora una volta attorno a quello smeraldo accecante, quasi volesse tuffarsi e dare una mano ai poveri giocatori «gauchos» in sofferenze di fronte ai «coqs». Con Giulio Accatino attraversiamo poi la megalopoli deserta: pare una scena da film di fantascienza, non c’è anima viva, non c’è un rumore.

Dieci milioni di argentini stanno inchiodati davanti ai televisori, mordendosi i gomiti, il gol segnato da pochi minuti li ha portati in vantaggio, ma i francesi sono «muy rapidi», «muy peligrosi» e la squadra di Menotti denuncia limiti. Finché la partita finisce, e Baires può letteralmente esplodere, squarciandosi come un milione di crateri che eruttano contemporaneamente stendardi biancocelesti, urla, macchine clacsonanti, «felicidad». Che lieto momento. Anche i «nostri» sono tra le otto finaliste del «Mundial». Anche gli azzurri appartengono all’élite delle squadre d’alto e convincente e meritato prestigio. D’ora in poi lasciamo perdere quei menagramo, quei beceri, quei meschinelli privi di occhi e di senso realistico che per amor di tesi maligne ci pronosticavano carne da macello pallonara e volevano Bearzot in pensione, Bettega al mare, Causio alla vanga e Paolino Rossi «riservato» alle piccole cronache casalinghe.

I complimenti torrentizi dei critici inglesi e brasiliani e argentini sono autentici. L’Italia ha costituito una eccezionale sorpresa, che ha fugato ogni dubbio. Sulla testa di Bearzot piovono giudizi da Londra a Montreal a Bucarest, e tutti si domandano perché un commissario di tale valore sia stato messo in croce, nel suo Paese, per mesi. Gigi Peronace ritaglia brani di giornali britannici, corre qua e là per farli vedere, il «vecio» non fa una piega: anche questa vittoria sui magiari per lui è soltanto la verifica positiva di un certo lavoro. Da vent’anni non ce la godevamo tanto: nel ’58 eravamo all’ultimo banco della scolaresca bullonata, nel ’62 fu il Cile a triturarci malgrado i falsi o veri «oriundi», nel ’66 fu la Corea, nel 70 si arrivò secondi ma il turno venne passato senza ombra di gioco e con un solo gol, casualissimo, messo a segno da Domenghini, nel 74 capitò l’umiliazione di Stoccarda. Solo dopo vent’anni i «fratellini» azzurri, rinnovati, rinsanguati, fervidi di un loro gioco nuovo, possono vantarsi di cinque reti messe a segno in due sole partite, più tre traverse, più un rigore negato (da Barreto, arbitro che non vede un fallo su Paolo Rossi).

E’ un piccolo patrimonio, è sostanza vera. E’ la conferma che questa squadra ha un presente ma soprattutto sta creandosi per un avvenire, pur non possedendo mostri o fenomeni. Naturalmente va ripetendosi la storia della volpe e dell’uva. Se «noi», cioè gli azzurri, andiamo avanti, questo dipende dal fatto che il «Mundial» non vale granché: è la solita teoria dei critici che si trovano ormai aggrappati all’ultimo scoglio delle loro tesi, smentitissime ma ancor più inferocite. Si consolino così, ignorando il mondo che gode e festeggia. Adesso cominceremo veramente a divertirci, Zoff ed io, Bobby e Bearzot, Rossi e Perucca, Tardelli e Giglio Panza, che è un po’ il decano della banda giornalistica e non ricorda una Nazionale simile. Ci divertiremo perché non abbiamo pretese e quindi non mordiamo «stress», ogni partita sarà giocabile e giocata, con la giusta allegria e la grinta necessaria.

Nella giungla di un «Mundial», fra tanti protagonisti torvi o delusi o rabbiosi o carichi di troppe attese e responsabilità, una squadra lesta e ilare, che non vanta pretese eccessive, ci vuole. Nel 74 fu la Polonia, che quasi «si accontentò» del terzo posto, ma mise sulla graticola la stessa Germania di Franz Beckenbauer, oggi quella squadra è la nostra, e ogni suo uomo, guidato da Bearzot, non si pone né traguardi né limiti. Non abbiamo titoli da difendere come Schoen, non abbiamo imposizioni popolari come quelle che gravano sulle spalle degli argentini e di Menotti, non siamo depositari di formule come gli olandesi, non riceviamo telegrammi governativi come i polacchi. Siamo liberi, o fratelli, di fare ciò che possiamo e nella maniera che ci garba, che ci riesce. Questo è anche un dono che il «vecio» ha offerto ai suoi «fratellini», che ora guardano avanti senza commuoversi, senza illudersi, senza cedere alla frenesia e alla trappola dell’obbligo.

L’avventura continua, così, con il vento del giorno dopo giorno. I «replay» che le televisioni argentine danno per le partite dell’Italia vengono rivisti con compiacimento da tutti, i giudizi dei giornali su Paolo Rossi e Bettega fanno sorridere per la magniloquenza ma paiono sinceri, oggi i brasiliani rendono omaggio a Romeo Benetti, e urlano — loro, i «padri della patria pelotera», loro così superbiosi e convinti di possedere ogni verbo calcistico — che un Romeo lungo la linea del centrocampo e poi anche capace di andare in gol non Io possiedono. Tutti ignorano certe pecche della nostra squadra, noi le ricordiamo, invece, da Bellugi che per il suo stesso peso affonda nell’orto di Mar del Plata, a Scirea che ora è tempestivissimo, in avanti, ma ora è anche reticente in area (e poi gli appoggi verso Zoff vanno centellinati: il pubblico si scoccia, non accetta il cinismo da «Mundial», un cinismo che possiamo capire ma non approvare). Non so che tipo di squadra schiererà il «vecio» contro l’Argentina, sabato prossimo. Ma anche Menotti non lo sa, ed è attanagliato dai problemi.

So che Bearzot preferirebbe Rosario (come capita se arriviamo secondi nel girone) per un motivo ben preciso: un mese di trasferta va interrotto da mutamenti d’ambiente, di «ritiro», si vedono cose nuove, si sfugge alla monotonia, ci si tiene svegli per la curiosità. «Ora pro nobis», mi aveva sogghignato Bearzot al telefono, due ore prima della partita con i magiari. L’avevo chiamato per un abbraccio ideale, e lui: «Può darsi che sia una brutta partila». Aveva aggiunto: «L’Ungheria sa creare ragnatele a centrocampo e non dobbiamo cadervi dentro come macachi. Dovremo marciare a vampate, ripiegando tutti quando è il momento e non lasciar spazi ai loro contropiedi». La rinascita di Tardelli, il lavoro di «panzer» Romeo, le invenzioni e la volontà di Causio, il feroce spolettare di Cabrini e Gentile lungo le fasce laterali hanno finito per fiaccare gli ungari: due, nella ripresa, hanno letteralmente mandato a quel paese Gentile in fuga. Non ce la facevano più ad inseguirlo. Come dice il «vecio»: «Quando Gentile è in questa condizione, il suo avversario, dopo un quarto d’ora, ha solo più voglia di ritirarsi sotto la doccia».

Chissà che partecipazioni illustri, in Italia. Quando si vince, accorrono tutti, il sociologo e l’umanista, il tifoso laureato e il «paragoniere», cioè quel tipo che fa sempre confronti col Rosetta e il Cevenini. Ma sia lecito anche a loro sfogarsi. Dopotutto la Nazionale è piatto unico, e patrimonio collettivo. Purché non esagerino. Purché adesso non pretendano il titolo mondiale, la corona dei pesi massimi e una laurea in biologia marina all’università di Mar del Plata. Grande Baires, intanto, sembra una città conquistata dai suoi stessi abitanti. Chi adorna, chi sventola, chi decora, chi appende striscioni. Non v’è giacca che non porti al bavero un fiocco biancoceleste o tricolore. Uomini serissimi, dallo sguardo languido e il severo «poncho» intorno alle spalle, reggono sulla zucca cuffie da neonati, a strisce di ogni colore. Ho visto bandiere tra i cioccolatini, tra le scarpe, tra gli arrosti, tra i cosmetici, tra i libri, tra i prodotti farmaceutici, tra i peperoni e tra le stupende mele che arrivano da Rio Grande e pesano un chilo e mezzo l’una (davanti a queste mele mi inginocchio, come un cavernicolo miracolato dai frutti del paradiso).

Si «parla football», ma lietamente ed in pace, senza le follie e i travestimenti e i danni da «indiani metropolitani», ed anche questo va sottolineato. Il senso della festa non viene distorto per scopi che vanno al di là del «discorso» pallonaro. E’ una misura giusta, non disumana ed eccessiva. Certo, debbono tacere alcuni personaggi. Baroti ha levato il saluto ai due suoi ragazzi espulsi durante la partita con l’Argentina. I poveretti si aggirano nel «ritiro» magiaro come dei paria. Hidalgo si trova con la lingua veramente secca: dopo tanta «grandeur», anche simpatica, ora è il momento di guardare a quei punti «zero», un buco che risucchia la boria dei «coqs». E chissà cosa sta accadendo ai messicani, che sono pazzi d’orgoglio pedatorio: potrebbero suicidarsi in massa. Bene. Stiamo qui a dondolarci sull’amaca del «Mundial». I polpastrelli diventeranno callosi, ma ne vai la pena. Forse rideremo ancora. All’ultima gigantesca bistecca vorrei dare una sberla, ma ho paura che si rivolti. Agli amici che mi dicono: «Avevi ragione», non offro più da bere. Sarei ubriaco tre volte al giorno.