Giovanni Arpino: Cronache Argentine

9 giugno 1978: Quando la via di mezzo è quella giusta

Anche questo è un Paese dove bisognerebbe aver vent’anni, un cavallo e voglia d’andare. Provai l’identica sensazione in Messico, otto anni fa, e poi in quella briciola di Canada che conobbi durante un’Olimpiade. Un europeo, soprattutto un italiano di città, non ha più idea di cosa siano gli spazi, le lontananze perpetue, la solitudine naturale, non quella alienante degli agglomerati urbani. Da troppo tempo, da secoli, siamo vissuti in ghetti, pollai, canili, fessure. Anche Versailles e la sua reggia sono una caverna priva di spazio, se pensiamo a quale dovrebbe essere il destino di una creatura umana sulla terra. L’idea argentina di spazio è indefinibile: in un suo viaggio, Guido Piovene cercò di decifrarla attraverso luoghi e volti e costumi. Ma questa idea di spazio è anche un blocco concreto di «naturalezza» e non è un’astrazione: si materializza nei frutti, nelle distese deserte, nel fiume di cui non vedi mai l’altra sponda, nei venti che arrivano dalla Patagonia e vengono definiti gentili se non superano i sessanta chilometri orari. Non è dunque uno spazio da inventare, ma tangibile: lo si nota palpando cortecce di alberi secolari ed immensi, lo si scopre guardando come il macellaio affetta la carne. Siccome non costa nulla, sia filetto sia rognone, se ne butta più di quanto se ne conserva.

L’idea di spazio, infine, ti fa sorridere e disperare sulle condizioni assurde del mondo: qui una birra costa come una bistecca, un whisky equivale ad un arrosto per dieci persone. Le frutta sono stupende, di scarsissimo prezzo e venerate: il cameriere che ti porta una mela, il verduriere che te la vende, la chiamano sempre «bella», «chica», «guapa», «splendor», come se si trattasse d’un infante alla prima comunione. Da noi si masticano carni ignobili, si buttano sotto il trattore tonnellate di pesche, si lasciano maturare le banane nei frigoriferi. Come non definire folle questo mondo, come non credere ai processi di autolesionismo che sono tanto forti (e loro sì, progressivi) del nostro vivere? Come non notare che tu, sul tuo balcone, puoi al massimo piantar prezzemolo mentre in questi «spazi» potresti far crescere baobab? Come non pensare che il secolo venturo potrà darsi un’immagine solo partendo da questi «spazi» e non dai ghetti, dai canili dove noi ingrigiamo, malati di passato, talora deliziosamente malati perché la nostra antichità è sublime ma eccessiva?

Parliamo di pelota, che forse è meglio. Dopo la partita con la Francia, gli argentini hanno cominciato a nutrire i primi dubbi, per mesi la squadra di Menotti aveva goduto di un compattissimo favore crìtico, più o meno preordinato. Da ieri l’altro si cominciano a udire voci discordi, e la gente — che capisce di football ed è onesta, non faziosa come noi e come i brasiliani — spera sempre, ma non nasconde i suoi timori. Un vecchio squalo del mondo pelotero qual è Lorenzo confida: «Qui bisogna star nel vento», e questo significa che è opportuno appoggiare Menotti e chi lo protegge. Finché vince. Ma se non vincesse? Anche Omar Sivori, nota e godibile malalingua, tace. Per non compromettersi troppo ha scelto il silenzio, ma si aggira con sguardi cupi e con improvvisi consigli di «star buoni» ai soliti giornalisti italiani troppo rissosi, troppo incarogniti nei loro assurdi arzigogoli. E’ ora di accentuare il realismo iniziale. Perché non sempre si può far trentuno dopo aver fatto trenta, non sempre è positivo sottolineare il peso delle responsabilità già in crescita di momento in momento.

La corsa ad individuare il favorito per il titolo del «Mundial» ha improvvisamente imbrogliato le carte: l’Olanda non piace, la Germania neppure, la Polonia sembra vecchia. Restiamo noi, oltre naturalmente agli argentini. Ma forse dipende da una forma di illusione collettiva, su cui bisogna gettar acqua e non benzina. Le notizie che arrivano dall’Italia, percorsa da cortei parossistici e colta da una lobbie «mundial» preoccupante, non rallegrano certo gli azzurri. Molti scuotono il capo. Perché un onesto cacciatore di lepri non può trasformarsi in sterminatore di leoni dal mattino alla sera, anche se il novantotto per cento della critica italiana, dopo aver negato ogni possibilità alla «banda Bearzot», adesso sta facendo incredibili retromarce, ad una velocità che lascerebbe di stucco i piloti di Formula Uno. Certo: la Nazionale di Bearzot è uscita allo scoperto, costituisce la vera sorpresa del torneo, gode di pronostici arditi.

Ma questa è cornice falsa, così come era sbagliata quella precedente, che ci vedeva «morti» e indegni persino del funerale. In un «Mundial» c’è sempre un settore critico che esige innamoramento: prima per il calcio atletico, poi per quello totale all’olandese, adesso tocca a noi il rischio di strane etichette. Cose divertenti da raccontare ce ne sono sempre, però. Eccone qualcuna. La prima riguarda Calderon, commissario tecnico peruviano, il tecnico «incas». Lo vedemmo a Verona quando una «sperimentale» di Bearzot incontrò la Lega scozzese: occhialuto, con gambette incredibilmente storte che gli danno un’andatura sbilenca, con un volto da questurino buono. Stava per commettere «harakiri» nella città di Giulietta e Romeo. Ululava: «Ho fatto ventimila chilometri, ventisei ore d’aereo, e qui non c’è neanche uno scozzese di quelli che dovrei incontrare ai mondiali». Aveva le lacrime agli occhi e contava gli spiccioli in tasca. Che dice oggi il buon «incas» Calderon? Dice che lui è riuscito a battere la Scozia proprio perché potè «studiarla» a Verona. Quante cose bisogna fare per rendere giustificabile una «nota spese» e raccattare un «momentito» di gloria.

Poi, eccovi il Brasile. Non sopporto questi giocatori feroci e subito dopo imbelli. I gialloverdi che si occupano di calcio non sono certo degli sportivi impeccabili. Si ritengono gli eredi di Mercurio, che come sapete viaggiava su una ruota sola. Non gliene importa un classico lieo secco del valore avversario — se sono in gioco i loro interessi — e pur di vincere sono disposti a restringere il campo, ad abbattere i paletti della porta, a sottrarre la palla al giocatore che deve batterla dalla linea laterale e nasconderla sotto la panchina. Urlano, starnazzano, litigano, formano e sciolgono clan perversi, si illudono di poter competere anche contro i marziani, poi piegano quasi le ginocchia di fronte alla Spagna, che non è certo una potenza pallonara.

Ogni volta che entrano in campo io tifo per il loro avversario, anche se ammiro certe squisitezze, tuttavia ormai rare. Il loro «capataz» (o forse ex «capataz»), Coutinho, ai bordi del terreno, sembra un Dustin Hofiman che sta facendo la caricatura di se stesso. E i vecchi conoscitori di football piangono miseria. Nella «tournée» in Europa, ancora manovrati da Rivelino, i vari «ninho» fecero qualcosa di bello. Oggi sono preda di un’involuzione tattica che sgomenta i buongustai. Il teorico Coutinho ha letteralmente plagiato i suoi uomini, che non capiscono più cosa seguire, dopo ore di lavagna, comizi, lezioni, studi strategici. E pensare che una volta si affidavano agli stregoni, e senza far tante storie (ma baccano sì, questo è innato) vinsero tre titoli mondiali.

Stiamo entrando nel momento più delicato del «Mundial». Mentre Bearzot e Menotti debbono chinarsi sulle loro rispettive «rose» e annusarle in vista dell’incontro diretto, vorrei precisare: tutti giurano sulla fraterna e diplomatica «non belligeranza» tra argentini e azzurri, io ci credo poco o niente. Primo: perché i premi di partita argentini sono legati alla vittoria. Secondo: perché Menotti vuole restare a Baires, anche se forse gli converrebbe sottrarre i suoi «gauchos» alle pressioni ormai insostenibili dettate dall’ambiente. Terzo: perché chiunque entri in campo, sia pure per un’unica gara o un unico quarto d’ora, non vorrà certo «mollare» davanti a un pubblico di circa due miliardi di persone.

Che ne sarà infatti di quel povero spagnolo che si è mangiato un gol davanti alla porta brasiliana spalancata? Poteva significare il rilancio delle cosiddette «furie» di Kubala, invece è ormai un uomo marchiato a vita nell’ultimo villaggio dell’Andalusia, verrà ricordato per generazioni come il pelotero che fece strage di se stesso e della «suerte». Non bisogna attendersi cortesie da parte di nessuno, né dagli uomini né dal cielo. «Dopotutto, voi italiani siete venuti qui un secolo fu, prima come militari e solo più tardi come contadini», mi ricorda uno spagnolo di Baires, che ha studiato la storia e sa benissimo delle varie «legioni» in cui battagliarono, nell’Ottocento, gli emigrati veneti o piemontesi o abruzzesi. Alzo le mani, per significargli che la spedizione azzurra di Bearzot non è certo qui per jggiedire il «Mundial» con la spada e la carabina. Semmai zappettiamo i prati, come hanno dovuto fare Gentile e Cabrini su e giù per le ignobili zolle di Mar del Plata.

«Vorrei che finisse in pareggio una finale tra voi e argentini», continua l’altro, che deve essere un tipo un po’ tocco, visto che si definisce totalmente ignaro di football (ma abbassando la voce, forse in Argentina è peccato grave). Sono costretto a dirgli: se ci fosse davvero quella finale, la si dovrebbe comunque ripetere. Il pareggio in un «Mundial» non può esistere, all’ultima prova. «Cosa?» — si stupisce il professore di storia — «ma che vicenda assurda. Che mostruosità. Che ingiustizia. Un pareggio non basta? Un pareggio è fuorilegge? Ma allora è come sposarsi: un’idiozia».