Giovanni Arpino: Cronache Argentine

11 giugno 1978: Sagra di tensioni

Che cos’è un argentino? E’ un uomo che guadagna dieci, assicura di incassare venti e spende quaranta. Questo il giudizio che gli stessi abitanti di Baires danno di se stessi. Sono miti, sottomessi, non ridono, ma coltivano profonde ironie. Negli ultimi anni i disegnatori satirici sudamericani hanno superato i confini dei rispettivi Paesi. Uno di loro, appunto l’argentino Calio, sia disegnando «strips» ingegnosi sul più noto quotidiano di Baires, «Clarin», dove una sorta di papero-uccello è il personaggio protagonista di rapidissime avventure al «Mundial»: il tratto di Calio ricorda quello del francese Copi, ma in modo più rapido ed essenziale. Al papero-uccello nulla va bene, però con garbo, con astuti «dribbling» dialettici. Si può ridere; ma bisognerebbe anche pensare, suggerisce l’autore.

Vorrei raccontarvi alcune storielle argentine. Possono servire per conoscere il Paese soprattutto nel giorno in cui gli azzurri, giocano a cavallo di sabato e domenica e per motivi di fusi orari i nostri «servizi» risultano maledettamente sfalsati. La satira – sia blanda sia feroce – è sempre uno specchio di tradizioni ed umori dei popoli, bisogna scrutarla nei visceri per afferrare il segreto di chi la esprime. Eccovi dunque due storie che riguardano l’ironia portata dagli argentini verso gli spagnoli, un po’ padri e un po’ patrigni, visti come esemplari umani ingombranti e scarsi di sale.

Prima storia: c’è un’astronave che viaggia nello spazio, nella cabina di comando siedono un capitano, spagnolo e uno scimmione davanti al cruscotto ingombro di strumenti delicatissimi. Si accende un segnale e dalla Terra parte un invito allo scimmione: «Proseguire su rotta stabilita, correggendola di sette gradi». La scimmia schiaccia bottoni, preme un pulsante, da Terra rispondono «okay». Poi si accende un secondo segnale che avvisa la scimmia: «Controllare il deflettore di destra, inserire transistor d’emergenza nel quadro del pannello danneggiato, spostare leva del carrello centrale». La scimmia esegue. Finalmente si accende il segnale anche davanti al capitano spagnolo, per trasmettere: «Servire banana alla scimmia».

Non è finita con questi poveri «gallegos», ovverossia spagnoli. Infatti ecco la seconda tra le tante storielle. Come riesce uno spagnolo ad avvitare una lampadina? Semplice: sale su un tavolo, si aggrappa alla lampadina, mentre quattro amici fanno ruotare il tavolo. Sugli italiani, invece, poco o niente. Non offriamo né spazi né lati deboli. A meno che non riesca a catturare quel giornalista nordico (mi dicono sia finlandese) che è un collezionista di modi di dire popolari. Ne ha sparpagliati diversi, ma solo sui romeni, e mi assicurano che ne sappia su russi, canadesi, afganistani, tutti godibili, tutti autentici contrassegni per i popoli che li hanno espressi. Su un romeno si può dire di tutto. Ad esempio: se sei nella tua stanza d’albergo e devi uscire un attimo, pretendi dall’amico romeno che canti, batta le mani e compia saltelli. Oppure: se entri in un albergo attraverso una porta girevole, e dietro hai un romeno, puoi star sicuro che il primo piede posato nella «hall» sarà il suo.

Ma ne è arrivata anche una stupenda e davvero «storica» dall’Italia. Non è una storiella, è un’ osservazione che mi viene trasmessa da amici appena sbarcati. Mi fa uno, dall’alto della sua religione: il mondo è davvero cambiato, il mondo non sta più seguendo la sua antica piega. Pensa: gli ebrei fanno la guerra e i tedeschi fanno i soldi. Non so se vi siete divertiti. Raccontar «agudezas» di questo genere è sempre stata la consolazione dei dannati. E noi dannati siamo, all’inseguimento di una sfera, di uomini che braccano la sfera, di altri uomini che cercano di nascondere quella stessa sfera. Il pallone come simbolo di giochi solari è ormai un emblema degli affanni del globo, è il feticcio che si odia, si ama, si difende, si attacca. Per fortuna Bobby e Pablito non debbono saper queste cose, anche se noi non possiamo nascondercele.

Vorrei lasciare in pace, per una volta il «vecio» Bearzot, inseguito trentasei ore di seguito dai maniaci (professionali, quindi giustificati) della formazione azzurra. Mi tiene compagnia, in questi giorni, un giovane milanese, Claudio Ferrari, addetto all’istituto italiano di cultura a Baires. E’ molto solerte, molto gentile, molto simpatico. Confida impressioni che vengono immediatamente distorte o amputate o ridotte a brandelli dagli arpioni dei giornalisti che vivono solo per il proprio tornaconto polemico. Parliamo degli italiani d’Argentina, Ferrari ed io, e le storie sono straordinarie, sia per quanto riguarda il linguaggio (il famoso «cocotiche», cioè il gergo che storpia italiano e spagnolo, ma con impuntature che sanno ora di «gongorismo» ora di gargarismo idiomatico) sia per quel che riguarda le persone.

Perché a Baires tu puoi incontrare un tizio che si chiama Gennaro Angelino. Italiano, lo credi. E invece no. Suo bisnonno, lui si. Ma poi vennero i nonni, una norvegese e un marinaio irlandese, quindi i padri, un’olandese e un italiano, che anche lui porta il nome di Angelino ma è figlio di un tale di Trieste e di una tale di Toronto. Riappare dunque un incrocio che rende valido il cognome ma quadruplica i cromosomi esotici. Fatto sta che Gennaro Angelino, dalle fattezze italiane però ambigue, a malapena riconosce la parola «pizzerellas» che compare sui vari locali di Baires e dice «mannaggì» ma ignorandone il significato, lo dice come se fosse un sospiro.

Non so se mi capiterà di visitare i mattatoi della megalopoli argentina. Il tempo concesso da un «Mundial» di calcio è limitatissimo e in ogni caso traviato dagli avvenimenti: quando hai un’ora libera, sei praticamente stremato dalla fatica e dal bisogno di sonno. Ho parlato però con chi li conosce bene. Sono un allucinante teatro. Migliaia di bestie vengono «malate» ogni giorno secondo un sistema antico ed orrendo. In Argentina vivono venticinque milioni di creature umane e circa settanta di bovi, manzi, vacche. Naturalmente questi «sanno» di dover morire. Quando li avviano in certi corridoi all’aperto, al primo colpo stramazzano. E il colpo gli viene inferto da «operai» che usano una sorta di piccone. Stanno seduti su un muricciolo e vibrano il piccone. Dovrebbero colpire la nuca dell’animale, ma quasi mai vi riescono. Ad ogni modo la bestia si abbatte e, mentre sta morendo dissanguata, già sono all’opera squartatori e sbudellatoli. E’ un inferno, la cui truculenza, la cui arcaicità rituale rivelano la nostra natura. Intendiamoci: io sono un carnivoro, quindi non mi commuovo molto a questi racconti, anche se chiedo scusa ai sensibili ed a tutti coloro che provano, legittimo disgusto per simili vicende. Ho visto una volta duellare due «uccisori» al mattatoio di Torino: si combattevano a colpi di trippa. E la sfida aveva un suo senso michelangiolesco, mi crediate o no.

A questo punto, il lettore troppo gracile o schizzinoso mi abbandoni subito. Vorrei raccontare il mio rapido pasto odierno (prima di una partita bisogna- sempre tenersi su). E’ stato un pranzo scelto secondo ordine filologico: prima una «patta», che non è quello che voi pensate, ma un frutto verdognolo, più grosso d’uno zucchino, che si ricopre di una salsa rosata, e si mangia con un cucchiaino. E’ tenerissimo, anche se per un piemontese da «bagne caude» risulta troppo delicato e quindi vittima del suo stesso nome, Poi ho affrontato un piatto di minuscoli budelli di vacca annodati insieme, 1 «binatorillos». Beh, è chiaro che dentro è rimasto qualcosa di ben ruminato, ma queste vacche masticano erbe purissime, no? E dopotutto ho speso solo poche lire, il luogo era umido e tetro, ma il fascino di certe città va inseguito proprio in determinati antri, dove uomini dal volto disperato divorano un piatto, non guardano nessuno, anche mentre masticano cercano di dimenticare le ragioni per cui gli capita di vivere su questa terra.

Ho cominciato questo articolo raccontandovi storielle, ma in verità non ho mai visto un «Mundiai» così intriso di strane malinconie. La famosa e quadriennale festa del «più bel gioco del mondo» è ormai un festival dell’incompiuto, una sagra delle tensioni, un mixed-grill dell’esasperazione agonistica. Per fortuna il clan azzurro ha saputo reagire, in almeno due partite, con un minimo di. insospettata allegria. Persino i tedeschi, quattro anni fa, riuscivano a sfoderare risate, anche se eruttanti da boccali di birra ripetuti e triplicati. Qui il sorriso è sottile, gentile, lontano, ambiguo. Mi dice un «porteno» cioè un abitante di Baires: «Per farci ridere non ci basta il solletico, per farci piangere non ci basta il disastro». Non lo invidio.