Giovanni Arpino: Cronache Argentine

12 giugno 1978: Adesso è meglio non fidarsi

Luis Cesare Menotti è un grande attore. Se perderà il posto di commissario argentino, troverà certamente lavoro ad Hollywood, dove ignorano che nei suoi lunghi viaggi in Europa, durante la preparazione del «Mundial», il suddetto Luis Cesar mai ha visto Causio, che ha fatto impazzire le retrovie e il centrocampo biancocelesti al «River Plate». Forse Luis Cesar Menotti sa di non possedere una squadra degna del titolo finale, ma non può dirlo. Nello stesso giorno di Argentina-Italia i quotidiani di Baires erano fitti di fotografìe che ritraevano il tecnico biancocelcste al fianco di generali e ammiragli. Il dovere di essere campioni, in casa e per la prima volta nella storia, è pesante, anche per le spalle di Luis Cesar, un disinvolto «manager» che vedremmo correre nei corridoi di qualche impresa con la valigetta al fianco.

Sembra il fratello fortunato di Bearzot. Ma il «vecio» gli ha strappato tutta la «suerte». Gli argentini continuano a festeggiare, moderando le illusioni, ma al nome di Bearzot annuiscono, serissimi. Persino loro sanno che il nostro non è un commissario qualsiasi, un chiacchierone che cerca lodi e alibi. Niente è apparso più stridente di una caricatura che ritrae il «vecio» mentre arrotola una forchettata di spaghetti: se il «vecio» fosse così, gli argentini ci avrebbero ingoiati in un solo boccone. Adesso ve lo voglio proprio dire, a costo di commettere una spudoratezza: un mese e mezzo fa un club italiano della massima serie ha offerto a Bearzot la panchina, con un contratto di ottanta milioni per due anni. Bearzot non ne accenna neppure ai «federali», perché ritiene che solo parlarne equivarrebbe a condizionare il suo rapporto di lavoro, che sta per essere rinnovato. E così continua a mettere in tasca lo stipendio inferiore a quello di un allenatore di serie D. Siamo, come vedete, nei territori puri dell’onestà, del rispetto umano, di coloro che credono nel proprio lavoro e lo interpretano come una missione.

Sta diventando una trama oscura, questo «Mundial». Io non mi fido di tedeschi, olandesi, peruviani, polacchi: è tutta gente che ha speso poco, talora pochissimo, che si è «allenata» facendo i punti necessari. Certo sono invecchiati, spumeggiano anche bile come i cavalli che hanno corso troppo, se non oggi certamente ieri e ieri l’altro. Ma sanno aspettarti, torearti, gli basta una zampata, gli basta un morso per poi speculare sul vantaggio. E tuttavia i «piani» bisogna stenderli, bisogna organizzarli. Gli impegni premono, mercoledì la «banda Bearzot» già torna in campo. Come ci si sente felici e tranquilli quando si va allo stadio godendo di un vantaggio e senza problemi per la Nazionale: questo ci dicevamo tutti quanti, sabato notte, dirigendoci al «River Plate». E ricordavamo gli «stress», gli stranguglioni, i magoni e le torture interne quando ci avviavamo a Toluca (Messico) od a Stoccarda (Germania).

Ecco il primo e vero «miracolo» offerto da questa Nazionale. Anche se fosse l’unico e l’ultimo, è già molto. Poi, naturalmente, mentre Benetti corre e affronta tutti, come Maciste all’inferno, si soffre: perché anche quel pallone non va perso, perché anche quella mossa deve creare uno spazio utile, perché tu devi appoggiare il compagno, o Antognoni, e tu devi uscire a «chiudere» o Scirea (molto migliorato, anche in lui stanno entrando gli spiriti del combattimento: giunga la lode quando è necessaria). Dietro a me, nella tribuna stampa del «River», che è un’autentica corolla da fantascienza, c’erano radio e telecronisti di lingua spagnola. Enfatici come sempre, attendono solo il momento del gol per gridarlo e ripeterlo e dilatarlo con venticinquemila «O». Sono caduti in preda alla più nera disperazione. Già non gli andava bene l’«empate», cioè il pareggio, figuriamoci quando Bobby infila il suo gol, nello stile del duellante messicano che ti pianta il coltello nel ventre e dice: «Conservamelo».

Sono andati in barca, eruttando sillabe forsennate, anche se non perdevano mai — va detto — un certo equilibrio critico, una certa misura di giudizio. Gigi Riva era accanto a me, con la cuffia da radiocronista. Ad un certo punto, durante l’intervallo, un girotondo di ragazzini piccolissimi, in tenuta biancorossa, comincia a palleggiare a centrocampo. Saranno una dozzina o più, ciascuno con un pallone. Lo fanno battere sul ginocchio, sul collo del piede, sulla punta, sulla sommità del cranio, secondo esercizi singoli perfettamente sincronizzati. Il pubblico si spella le mani, godendo. Mi fa Gigi Riva: «Adesso scendo giù, ne compero quattro e li porto a Cagliari, così torniamo in serie A». Rido e rispondo: «Oh, sono divertenti palleggiatori, perché hanno un pallone a testa. Io preferisco Benetti, che quell’unico pallone deve andarlo a prendere e ci riesce». Gigi annuisce, triste, con un velo appena di malinconia: «Sì. E’ la lotta che conta. Ci vuol ben altro, in campo».

Anche quei ragazzini testimoniano del «ritardo» a cui invano i vari Menotti cercano di porre riparo. Il calcio sudamericano è ancora narcisista, gli stessi biancocelesti argentini spumeggiano furibondi ai limiti dell’arca altrui, passano palla solo quando è già «marcia» oppure «chiusa» da reticolati di tibie, dove il signor Gentile se la gode ad applicare nuovi chiavistelli. L’Ortiz argentino è una specie di mini-Sivori. anche lui con i calzerotti arrotolati sulle caviglie: piroetta frenetico, dribbla anche l’ombra del proprio stinco, crea pericoli per poi vanificarli da solo. Menotti lo riporterà alla scuola serale della linearità e dell’efficienza, ma Ortiz, «eroe di quartiere», accetterà? Pensiamo al domani, che sarà alemanno e poi chissà cosa: il «Mundial» non concede un attimo di pausa, è praticamente impossibile riflettere tra gli ingorghi di gare che si accavallano.

Vorrei potervi raccontare qualcosa degli argentini (calciatori a parte), ma è quasi disperante, l’argomento sportivo è una montagna da rosicchiare pietra dopo pietra. E tuttavia vi anticipo un discorsetto, fattomi da un dirigente d’azienda, un italiano che vive tra i Paesi sudamericani da oltre dieci anni. Mi dice: il più fesso tra gli argentini fa tre lavori, persino i bambini di dieci anni conoscono le variazioni della moneta rispetto al dollaro, perché qui «si pensa in dollari», data l’inflazione galoppante. Aggiunge: l’arte di arrangiarsi argentina non ha nulla a che vedere con quella meridionale nostrana, è un indaffararsi da formica senza sosta, v’è l’usciere che di notte fa anche il tassista e il tipografo, v’è il tipografo che nei giorni festivi fa i traslochi, v’è il conducente che vende mobili e nelle ore di riposo serve in trattoria, v’è il professore che si occupa anche di medicinali, v’è il bibliotecario che dipinge cartoline. Migliaia di piccoli lavori terziari riescono a far quadrare il bilancio degli argentini, in un paese dove un mazzetto di famiglie è padrone di tutte le «estancias» e di settanta milioni di bovini. Mentre l’Argentina dorme, la vacca partorisce, e sui giornali appaiono inserzioni economiche per operai specializzati che offrono centomila lire mensili di stipendio, appetibilissime perché il guadagno medio non supera le settantamila. «Come posso rivolgermi a lei? In castigliano, in argentino, in italiano, in francese?», mi dice un vecchio signore che incontro sui gradini del centro stampa. Ve ne sono sempre, stazionano con curiosità di pensionati. E comincia: «Vorrei avere un’idea di cosa pensa di noi l’Europa. Sono stato in Europa, nel Trenta. Se ne dicono tante, qui, sull’Europa, ma vorrei sentir qualcosa da lei, che ha aspetto di gentiluomo». Gli rispondo che anche l’Europa è triste. Oh sì, c’è qualche angolo di Parigi dove il riso non è ancora un belletto deformante e recitante, ma troppi luoghi europei grondano truculcnza e malinconia. Parigi perduta Il vecchio annuisce, è straordinariamente pallido, le guance sembrano ricavate da una massa di borotalco. Poi fa: «Ricordo la Milano dei Navigli, si dice così?, e Venezia naturalmente, e Firenze. Parigi l’ho perduta. Non mi trovavo bene e sono scappato via, così l’ho perduta. Che colpa commisi, allora». Amori?, interrogo cautamente. «Amori — sorride lui distogliendo appena gli occhi —; c’era un ristorante con molto verde, e lei mangiava. E mentre mangiava e io la guardavo, mi accorsi che mi stava dimenticando. L’i, davanti al bicchiere. Mi dimenticava mentre c’ero. Per questo fuggii e persi Parigi». Cerco di insistere per un caffè. Rifiuta. Vuole una descrizione dettagliata della gara del «River» (non si nasconde: confessa che non c’è andato per via dei gradini dello stadio). Ma questo discorso sembra riguardarlo assai poco, benché insista per conoscere i dettagli. «Quel Bettega. Sembra un medico — osserva dopo un poco — solo lui poteva segnare il gol vincente. L’ho capito dai giornali qualche giorno prima, vedendo una sua fotografia. Mi sono detto: questo medico ci opererà al cuore. Sa, noi argentini abbiamo un certo destino contrario. Siamo pacifici, mai allegri. Qualcuno arriva sempre per punire la nostra mitezza, per oltraggiare la nostra mansuetudine. Di solito questo qualcuno ha un viso dolce. Il medico Bettega, ad esempio, io lo sapevo, guardandolo nelle fotografìe. L’ho detto anche a un mio nipote: ecco chi ci punirà, questo volto classico. Del resto, Dio non manda gli angeli per infliggere castighi?».