Giovanni Arpino: Cronache Argentine

13 giugno 1978: Hanno smontato il patibolo ma si fa presto a rimontarlo

Sono tutti allegri e più che mai «su di giri», come si dice popolarmente, anche se con qualche zoppìa, polsi doloranti (Bettega, per cadute professionali), una mano fasciata (Causio), lividure sparse qua e là. Sono tutti soddisfatti, ed è sacrosanto, anche se non si lasciano andare a dichiarazioni illusorie. L’aria dell’Hindu Club è serena e seria. Questo strano ospizio dei poveri vecchi incastonato in un parco all’inglese ha portato bene al clan azzurro. Brividi di ottimismo corrono nel verde e nei lampi degli occhi, ma subito vengono seppelliti con pudore. Mi dice Bearzot, con un po’ di ironia e un po’ di consueta amarezza verso l’umanità e verso la mondanità: «Forse stanno smontando il patibolo che mi avevano dedicato in Italia». Forse si, gli rispondo, ma attento: siamo stati noi ad inventare versi che suonano «Tre volte nella polvere, tre volte sull’altar», quindi sei costretto a vincere, partite e sfide dialettiche, concorsi magistrali e «quiz» televisivi, la Milano-Sanremo in monopattino e il derby di trotto, una quaterna al totocalcio e la gara alla bocciofìla. Se non fai un favoloso «en plein» su tutti questi diversi tavoli, il patibolo verrà frettolosamente ricostruito, mio caro «vecio».

L’Italia del dolce far niente, della disaffezione, della tifoseria seduta vuole l’Apollo invincibile o l’agnello sacrificale, è la nostra condanna collettiva. Se io sostengo che abbiamo già vinto un mirabile e insperato «mundialito», vengo preso a calci anche dai parenti più stretti ed ignari di pelota. Lui annuisce, un po’ distratto, un po’ addolorato. Sente i nuovi impegni e sente ronzare come mosche cocchiere i giudizi di certi critici. V’è stato un tipo, prima della partita vittoriosa con l’Argentina, che ha suggerito a Bearzot, malgrado le prove eccezionali su Francia e Ungheria, di far giocare la squadra «in maniera più intelligente». E va bene. Memori degli antichi catenacci, manderemo in campo Bettega con un vocabolario di tre chili legato alla caviglia, per impedirgli di andare in gol.

Siamo già alla vigilia del primo turno del girone finale. L’ossessione che crea il sovrapporsi delle partite ha qualcosa di orrendo. E’ una condanna fisica e metafìsica. Mentre devi commentare la precedente partita sei costretto a riservare un paio di polpastrelli per battere a macchina la presentazione della seguente. E’ una giostra infernale, indubbiamente carica di fascino, ma che ti corrode nell’interno e ti fa desiderare «polpastrelli da panchina», polpastrelli supplenti, capaci di esprimere da soli nuove idee e nuovi concetti. Un giornale brasiliano riporta brani di un mio articolo dedicato ai gialloverdi e lo definisce il più feroce di quelli apparsi su mille quotidiani in venti lingue. Onoratissimo. Cosa dovevo fare, porgere la schiena come è accaduto agli austriaci a Mar del Plata?

Ho sempre ammirato il grandioso Brasile, dai tempi di Djalma Santos all’ultimo Pelé, ma assistendo alla partita che ha permesso agli uomini di Coutinho di afferrare con le unghie il girone finale, godevo molto a sentir ìe espressioni di un amico e collega, il veneziano Giorgio Lago, che è di tifo brasilero purissimo e invincibile. Al vedere alcune mosse dei vari Toninho, il giornalista italiano non riusciva a trattenere urla del tipo: «Vieni avanti, cretinho», e via caricando. Chi è il più furbo in Argentina? Chi riesce a trovare un creditore, persona o ente disposto a mollargli quattrini, data l’inflazione. Cosi dice il «pueblo», ma la pacifica gente di Buenos Aires si diverte ugualmente, con una sua disciplina ignota sia ai mediterranei sia agli altri sudamericani. Domenica sera, davanti al cinema che proietta il film «La maschera di ferro», c’era una coda di circa ottocento metri. Tutti a due a due, ordinatissimi, comprese coppiette di fidanzatini abbracciati, signori che leggono il giornale, bambini e nonne. I teatri danno certi spettacoli a partire dall’una di notte, in modo da consentire agli spettatori di far cena alle quattro del mattino.

Da venerdì sera alla domenica, Baires è una galassia senza fine di gente che passeggia, mangia, riempie le zone pedonali dove i cinema, i ristoranti, i negozi di musica, i teatri sono a migliaia. Per un italiano dei nostri tempi è spettacolo straordinario: purtroppo non ce lo possiamo permettere se non a briciole. L’alba ci coglie, per i maledetti fusi orari, già chini su carta e macchina per scrivere, col telefono del giornale che vomita ordini, disposizioni, stabilisce i servizi e quasi li vorrebbe per subito, per ieri. E’ arrivata anche la pitonessa. Figuriamoci se poteva mancare. E’ peruviana, si chiama «madama Patricia» e studia i raggi solari. Da Lima, la capitale «Inca», ha decretato che la forza del sole farà vincere il titolo mondiale a Teofilo Cubillas, «bomber» di Calderón, il baffuto, occhialuto, stortignaccolo allenatore del Perù. A questo punto bisogna rispondere con i nostri parapsicologi, con «brujos» brasiliani, con stregoni argentini e manovratori della psiche tedeschi. II «mundial» va a sedersi davanti alla sfera di cristallo o sul divano dello psicanalista? Ma allora è facile che vinca l’austriaco, figlio di Freud.

Ho incontrato un tifoso italiano, di quelli che appartengono alla razza incallita però scientifica. Sa tutto, ha sempre fatto le sue vacanze annuali seguendo o un «mundial» o un’olimpiade. Riesce a entrare anche nei «ritiri», dove stanno al riparo calciatori e atleti. Ha parlato con i vari Beckenbauer, Pelé, luantorena, insomma è un «dottò» che tratta i giornalisti da pari a pari, come è giusto. Ecco il dialogo, calmo ma qua e là attraversato dalle tipiche angosce tifose che ci caratterizzano per machiavellismo e problematica innata. «Dovevamo cedere le armi all’Argentina», comincia lui: «A quest’ora saremmo a Rosario in un girone più facile». Gli rispondo che è storia vecchia, intorno alla quale vanno inacidendosi a furia di inutili «se» c ancor più superflui «ma» torme di giornalisti. Gli aggiungo che la «facilità di Rosario» sembrava tale, in teoria, prima del turno d’inizio, ma che oggi è molto discutibile. Risponde lui: «Sarà, ma secondo me l’Olanda l’ha fatto apposta a perdere con la Scozia degli ubriaconi per non doversi misurare con l’Argentina. Gli olandesi sono furbi commercianti, ed i tedeschi sono buoni strateghi: per questo hanno pareggiato con la Tunisia. Anche Schoen non voleva andare a Rosario».

Gli dico che, in via del tutto ipotetica, potrebbe anche aver ragione: ma in un «mundial» è più difficile «lasciar vincere» in un certo modo che non rischiare di vincere, se uno ha le forze. Questi giochetti sottili li ha inventati la critica italiana (la più esperta del mondo, in certi casi) per smanie logorroiche e per incallita disposizione alla sottigliezza e alla congiura diplomatiche. Lui scuote la testa e fa: «Dovevamo perdere con l’Argentina. Doveva mettere in squadra le cosiddette riserve, il nostro Bearzot». Gli oppongo che non è facile cambiar volto ad una squadra vincente, che bisogna rispettare certi meccanismi, che un giocatore va sostituito solo se ha una gamba in disordine, e mai per altre ragioni, soprattutto in un torneo così rapido, così ossessivo, così ripetitivo com’è quello di un «mundial». Inoltre, cosa avrebbero detto in Italia di un Bearzot che punisce i vincitori di Francia e Ungheria e li chiude in albergo impedendogli di vincere per la terza volta? Ci avrebbero aspettato all’aeroporto con un’ambulanza. Destinazione: manicomio.

Ma lui non desiste: «Io vedo l’Italia in tutte le partite. Le altre gare le consumo al cinema, dove le trasmettono su schermo gigante. In due giorni mi vedo tutti gli incontri. Noi abbiamo speso molto. Gli azzurri hanno vinto in modo magnifico, persino alternando la tattica però non conosciamo le riserve di forma. La rigenerazione quanto durerà?». Gli rispondo che questo è il giusto interrogativo, al quale neppure il professor Vecchie! può dare, oggi come oggi, una risposta esauriente (anche perché, grazie ad alcuni accordi con i «federali», Vecchiet non può e non vuole far commenti di sorta: il Club Italia cova i suoi segreti scientifici con gelosia). Vedremo sul campo, con Germania e Olanda, come andrà a finire. Ripeto anche a lei, signor tifoso laureato: il «mundialito» che la nostra critica ci negava irridendo, è già nelle mani di Bearzot. Il resto è mistero, fisiologico e pedatorio. Ai vari Gentile, Benetti, Bettega e Paolino Rossi la risposta nelle tre gare che li attendono. Per conto mio ho sempre detto, scritto, predicato, che questa Italia può «cadere» (e tocco tremila ferri da cavallo) tra la quarta e la quinta battaglia. Siccome la quarta corrisponde alla Germania, sposto la data: non cadremo con i «deutsch», se la tradizione vorrà rispettare se stessa.

L’amico tentenna, sorride, mi fa: «Va bene. Però io adesso sono agli sgoccioli. Credevo di fare un viaggio breve, e invece devo centellinare i pesos, se l’avventura prosegue». Magnifico, gli rispondo: vede che anche lei appartiene a quella specie di italiani — la più numerosa — che credeva venissimo qui per far brutta figura e ripartir subito? Invece no. La «banda Bearzot» ha resistito e senza inutili illusioni, mio caro, tiri la cinghia, mangi panini e speri di arrivare fino in fondo, pelato vivo e contento. Ma non inflazioniamoci con vanità, sogni, incubi, sbandieramenti e conseguenti cadute dal letto. Nel «mundial» della pedata realistica abbiamo fatto tanto, non sarebbe intelligente credere nell’irrazionale. Cerchiamo d’essere gente di fede, e basta. Non stacchiamoci da terra. Solo gli asini volano.