Giovanni Arpino: Cronache Argentine

14 giugno 1978: Comunque non sarà una Corea

Ci sono stati due giorni di clima quasi mite, soleggiato, poi è venuta la nebbia e l’«Hindu Club» ha i colori e le sfumature della piana del Tanaro, della Brianza. Arrivano le «panzer-divisionen» del generale Schoen, un commissario che confida, con molta lealtà, di voler difendere il titolo conquistato nel ’74 e poi approdare con la pace dei sensi e i conforti della religione al più che giusto pensionamento. Pochi giorni fa proclamavo — un po’ enfaticamente, lo confesso: forse mi sono lasciato prendere la mano dal parlar reboante di questi luoghi — che Enzo Bearzot mi ricordava un generale o un politico del Risorgimento alle prese con la sua Crimea. Ebbene, il paragone può continuare, se gli orecchi degli storici e dei pudichi non si scandalizzano. Da oggi i programmi e i piani del nostro «vecio», mazziniano e garibaldino a un tempo, riguardano l’impero austro-ungarico e la potenza olandese. Qui o si fa la nuova Italia della pelota o ci si ferma sul Ticino (senza alcuna allusione alle tante componenti piemontarde della squadra azzurra).

L’attuale Schoen non è un kaiser, anche l’allenatore austriaco dal gutturale nome di Senekowitz possiede scarsi seppur temibili cecchini, e Bearzot, nei panni di un «furlan» irredento, può finire come Cesare Battisti, oppure firmerà un telegramma simile al famoso «firmato Diaz». Se il «vecio» sovverte i pronostici e non perde con teutoni e viennesi, vedremo neonati che durante la cerimonia del battesimo godranno del nome «Club Italia». Sergenti e democrazia Ho tirato il paradosso un po’ per le lunghe, ma la realtà lo imponeva. Ci ritroviamo con Vogts, che non nutre alcuna simpatia per noialtri, ci ritroviamo con gli austriaci: questi ultimi portano nomi come Koncilia (è portiere, forse è anche vigile), come Prohaska (è il loro Benetti), come Pezzey (sembra un Beckenbauer quasi vero, malgrado certe pigrizie). Ricordano nei volti e nelle sillabe certi personaggi dei grandi romanzi di Joseph Roth: sono fedelissimi sergenti a cui i figli danno del «voi», calzano stivali sempre lucidi, sognano l’imperatore con il ciglio inumidito, bevono vini secchi e si lavano i guanti bianchi da soli, o nel lavandino di casa o di caserma.

La porzione del girone finale che ci riguarda è profondamente europea e democratica: saranno quindi vendette, botte, crudeltà mentali e di stinchi. Relegati tra Rosario e Mendoza, i sudamericani tutti, dal Brasile all’Argentina al Perù, dovranno vedersela con la meno democratica Polonia, i cui polpacci sono stimolati anche dai telegrammi del partito, e tra nazioni che dall’Atlantico al Pacifico cercano con infinito dolore un loro assetto moderno. La «crema» del calcio europeo si appresta dunque ad un confronto con la «scuola» sudamericana, che inevitabilmente si misureranno nelle finalissime per il primo, secondo, terzo posto. Ci siamo anche noi, grazie all’animo del «vecio» e alle prodezze dei vari Bettega, Benetti, Gentile, Rossi, Cabrini. Ci siamo a dispetto di coloro che ancora oggi vorrebbero dar consigli al tecnico azzurro, anche se questi stessi consigli muoiono tra le labbra e terminano in un «do minore» insensato.

E’ chiaro: si può perdere. Davanti a tedeschi ed olandesi e a questi austriaci che hanno ritrovato misura e spiriti combattivi, nessun pronostico stilato alla vigilia può contar molto. Possiamo perdere, anche se un venticello tradizionale ci sta nelle vele, soprattutto con la Germania. Io non ho mai creduto ai «ricorsi storici» in football. In caso contrario avrei dovuto dar perdenti gli azzurri di fronte all’Ungheria, che non superavamo da un’infinità di anni. Non credo neppure nelle disamine storico-critiche, perché una gara come questa al River Plate ha motivazioni diverse, stimoli che possono nascere solo tra l’erba di Buenos Aires. So però che i tedeschi ci temono, e quindi tenteranno di attaccare velocissimi per metterci in difficoltà, so che tutti attendiamo — ancora, ma è possibile? — che l’arcangelo Antognoni «capisca» cosa significa un «Mundial». Era tra i più attesi, si becca dei solenni «quattro» nelle pagelle sudamericane, che sono tra le più longanime dell’universo.

Siamo a Buenos Aires, siamo al «River Plate», perbacco, non a Poggibonsi e allo stadio della parrocchia. Quindi non basta attender palla e giocarla di fino quando ne vieni in possesso. E’ necessario far da sponda al compagno che ha due uomini tra stomaco e glutei, è urgente soccorrerlo e defilarsi per ricevere il passaggio di disimpegno, è indispensabile affrontare l’avversario che avanza. Starsene lì in attesa di qualche puntatina pregevole ma anche accademica, o di un calcio di punizione, è troppo poco. Anche il «vecio» si attende la rinascita del nostro più chiacchierato «piede buono». Che accada una volta: finalmente giocheremo in undici. E sia chiaro: dall’inizio del «Mundial» ho criticato Antognoni molto blandamente, al massimo con un aggettivo, oggi però lo aspetto al varco.

Già una volta fui «appiccato» con un cartello a Firenze, per determinati giudizi. Spero che il tifoso toscano si sia reso conto che il «settebellezze» perugino non può non inventare se stesso in una competizione di questo calibro, mentre intorno a lui Gentile fa lo stopper, Bettega fa il terzino e il «goleador», Rossi spoletta come un auto-scooter e Causio deve inventare «dribbling» tra due avversari. Mi attendo l’«esplosione» dell’angiolo fiorentino, oggi o mai più. Se risolve le sue personali incognite, anche Schoen andrà a farsi benedire. Non finisco mai di toccare amuleti. Tutti gli argentini che incontro sfoderano l’intero bagaglio di parole italiane per complimentarsi, per augurarci «suerie», «felicidad», e del resto i «portenos», cioè gli abitanti di Baires, ci assomigliano molto: alla domenica, non v’è famiglia che non «butti giù la pasta», si tratti di vermicelli, ravioli, maccheroni. E’ la pasta il segnale del riposo, della pace casalinga. In attesa di giudizio.

Mi dice un tassista: «Parli bene di noi. Lo so persino io, ignorante, che in Europa non pensate bene di Argentina e politica e del popolo che siamo, ma il mondo è tremendo, il mondo è pieno di gente che pretende cose che non sa. Il mondo è ladro. La pace è avara. Parli bene di noi come popolo, di noi come uomini». Riassumo in questa dichiarazione — assolutamente veritiera — molti stati d’animo, molti discorsi sbocconcellati, molte sfumature. La «fame» del giudizio europeo è importante per ogni argentino, perché ogni argentino possiede legami, parenti, ricordi che hanno a che fare con Italia e Danimarca, con Irlanda e Alsazia. L’autista che mi parla ha un viso meridionale, con venature indie, con un sorriso composto. Non pretende, suggerisce, non invoca, non elemosina, ma sta attento alle reazioni. E’ lui — tra noi due — il primo a dire che il «Mundial» è un’occasione, non un fine.

Ma torniamo a capitan Zoff e alla sua bella compagnia. Le nebbie, le proteine della bistecca divina, gli stimoli che scaturiscono da tre vittorie sono un’esperienza ed una dote incorporata che contano. Stiamo tutti lì, intorno al Club Italia, come professori chiamati ad un consulto. Il paziente sdraiato sul lettino non è un moribondo, tutt’altro, forse non è neppure un convalescente, ma certo merita riguardi e attenzioni. In quindici giorni ha dovuto superare i pronostici sfavorevoli, il morbillo, la dissenteria, e anche vincere tre partite. Eravamo nel girone più nobile e più difficile del «Mundial». Ora ci capita il turno finale ancora più duro e solenne. Non dobbiamo temere, pronosticai alla partenza dall’Italia: non sarà Corea. Il pronostico di oggi suona: si andrà avanti con dignità. Il «vecio» che ha fatto «tre su tre» cercherà certo di tradurre in pratica questa sentenza, che sembra un po’ generica ma è anche l’unica ammessa. Lasciamo il disegno pre-tattico della partita con la Germania ai maniaci incalliti che vedono solo gli schemi e mai la rabbia interna o gli intercambiabili valori di questo e quell’uomo.

Abbiamo ritrovato Gentile stopper (non è un’invenzione, perché fu mirabile già contro gli inglesi nella partita che ci valse la qualificazione a Roma); abbiamo visto un Bettega che ha veramente le meningi di un Di Stefano degli Anni Settanta (la definizione è degli argentini, non nostra); abbiamo un Romeo che sgobba come due camion impegnati in un trasloco da record. Ci si deve fidare, checché ne dicano gli accalappiacani della critica. Vorrei che la partita di oggi con la Germania fosse dedicata, in senso vittorioso e consolatorio vero, agli emigrati che spasmodicamente la seguiranno a Duesseldorf, a Sindelfingen, a Stoccarda, a Ludwigsburg, a Mannheim, cioè in quei cantoni tedeschi dove camerieri, metallurgici, pizzaioli, tecnici, cuochi quasi morirono di dolore quattro anni fa. Se lo meriterebbero davvero. Non so come finirà, non voglio neppur pensarci: di (rome al giudizio del mondo pallonaro — più che di fronte a noi stessi, sempre maligni e pretenziosi — i vari Causio e Cabrini hanno già agguantato il massimo. Ma in questo fenomenico «girone europeo» dobbiamo ancora dir la nostra. Sarà il penultimo o ultimo acuto, può darsi, ma la speranza non vuol davvero morire. Comunque vada, o amici, siate grati alla «banda Bearzot». Ha dimostrato che una piccola pattuglia italiana, scornata in anticipo dalla critica come Colombo che voleva quelle famose tre Caravelle, è riuscita, a modo suo, a scoprire l’America. Se non torneremo con ori, gioielli, scalpi di avversari, tesori nascosti, sappiate che in ogni caso questa spedizione al «Mundial» ha disegnato la mappa del futuro calcio italiano. Di qui si può solo andare avanti, con serietà e consapevolezza dei limiti. E ora, Germania che fosti tenebrosa cornice del nostro azzurro: vieni avanti. Abbiamo questa forza: non temiamo neppure di perdere.