Giovanni Arpino: Cronache Argentine

16 giugno 1978: Una diabolica incompiuta

Vorrei che si potesse ripetere quella partita con la Germania. Tra le nebbie del «River» o sotto l’uragano che sta scatenandosi nei cieli di Baires in questo momento. Sono convinto che Roberto Bettega se la giocherebbe a qualsiasi latitudine, anche tra i pinguini. Mi dice, nottetempo, Enzo Bearzot, ad uno di quei telefoni argentini che fanno disperare, talmente risultano rugginosi e lontani: «Certo, ci è mancata la fortuna. Poteva e doveva essere un due a zero. Ma è persino più importante l’immagine che questa nostra squadra dona a tutti. E’ un’Italia che non finisce di impressionare, di dimostrare autorità e gioco. Cercheremo di ripeterci fino in fondo, naturalmente, sperando che la “malasuerte” guardi da un’altra parte. Hai visto l’Argentina, che fortuna? Due tiri, due gol. Ma parliamo di noi, pensiamo al nostro dovere e tiriamo avanti».

E’ quasi commosso. Nella sua raucedine di «dopo-partita». E termina dicendo una cosa che non posso tacere. Questa: «Sarai contento. Ti stiamo dando soddisfazioni, no? Avrai materiale buono per scrivere con allegria, no? Sono contento per te, per quei pochi che ci hanno aiutato, che si sono opposti all’opera di distruzione che s’era organizzata intorno a questo Club Italia». Ma che rabbia. Ci hanno rubato la caramella che si stava succhiando con tanta attenzione. Sì, ci siamo lasciati prendere la mano da un rigurgito passionale, e non al novantesimo minuto, ma più tardi, e nella notte, e ancora oggi. Bruno Perucca masticava parolacce, Bruno Bernardi sembrava il «mostro di Duesseldorf» nella grinta, il decano Giglio Panza ebbe un’uscita da vecchio saggio piemontese. Urlò: «Concittadini torinesi, abbiamo umiliato quei bianchi. E se questa umiliazione costa un punto, pazienza, ne valeva la pena». _

Il «Mundial» continua e nel «Mundial» ci siamo. Ora bisogna far calcoli di probabilità, sperare che l’Austria sia un boccone non indigeribile per noi e invece ostico al «catenaccio» di Vogts e Maier. E poi c’è l’Olanda, implacabile nelle conclusioni, grazie ai suoi vecchi volponi professionisti, ma che non incanta certo in fase di manovra. E poi c’è, cari amici, il signor Antognoni. Mi dicono due giornalisti argentini, molto equilibrati ed esperti: «Ma ve l’ha ordinato il medico di giocare in dieci?». Giro la frase, pari pari, a Bearzot, che sogghigna. So che in questo momento mezza Italia pallonara, o forse l’Italia intera, sta «processando» il giocatore che ha ereditato la difficile maglia di Rivera, la più ambigua in nazionale. So che tutti stanno ridisegnando una formazione, per regalarla al «vecio» secondo i canoni della critica italiana, che non guarda mai a quanto è accaduto ma è vittima di tentazioni profetizzanti.

Tutti abbiamo sperato nel «settebellezze» perugino. Bearzot era convinto che dal famoso «piede buono» uscissero un paio di rantellate verso Maier. E invece no. Antognoni non si offre al disimpegno del compagno, sembra avulso dal gioco, non protegge, non commette neppure un fallo (segno di gagliardia: durante la gara con i «deutsch» ne sono stati operati 23 da parte italiana e 19 da parte dei bianchi). A questo punto, come giudicarlo? Secondo le teorie degli scacchi Antognoni sembra la pedina destinata al «sacrificio semplificatore» o sacrificio preventivo. Ma in realtà è — lo dicono ancora gli scacchi — il «sacrificio sfortunato». La sberla a rete non gli viene, i compagni lo cercano e lui non capisce. «Di salute sta benissimo — spiega Bearzot —; gli parlerò a lungo, in questi giorni». Conoscendo il «vecio», so cosa sta accadendo: molte parole affettuose per il ragazzo, perché non si deprima bensì si ricarichi, ma dopo le parole un più che possibile «via» a Zac, che anche i compagni desiderano per la puntualità negli schemi. La Nazionale prima di tutto, anche se Bearzot, con un puntiglio che lo onora, sente come un dovere la tutela del «patrimonio» affidatogli dalle società italiane.

Dei tedeschi non vorrei proprio parlare: hanno fatto rimpiangere il Padova di Nereo Rocco, così storicizzato e chiacchierato negli annali del nostro calcio da non costituire più un esempio, ma una sorta di storiella pallonara. Spero che gli emigrati italiani a Sindelfìnge, a Mannheim, a Stoccarda, se la godano, oggi, e girino a testa alta, dopo essersi mangiati unghie e gomiti l’altro ieri. Non posso lamentarmi degli argentini, naturalmente. Hanno festeggiato la sconfitta subita ad opera dell’Italia, non potevano certo sottrarsi ad un «triunfo» pubblico e urlante e strombettante dopo aver fatto fuori i polacchi così imbolsiti (mi sono apparsi le caricature degli splendidi giocatori visti nel ’74: Lato è solo più una trottola spelacchiata, Szarmach, implacabile e rognoso «puntero», sembra un contrabbandiere ormai «ripassato» dalla finanza, Kasperczack è diventato di pietra ma con piedoni di ricotta, e via dileggiando).

Buenos Aires, dopo ogni passo dei biancocelesti locali in avanti, impazzisce e non lascia dormire né i sordi né i ghiri. «Avenidas» e piazze tumultuano fino alle ore piccole, indifferenti al freddo, all’umidità, ai lampi dei temporali. La gente fa «corrida» con se stessa, si ammucchia toreando pullman e auto e monumenti. Per chi ha una finestra che dà direttamente sullo «spettacolo» è roba da spararsi: è il mio caso, e per fortuna sono disarmato. Ha vinto anche il Brasile, scardinando un Perù che doveva essere «peligroso» secondo l’esimio e insopportabile H. H. ed invece si è rivelato ingenuo in difesa come il Pescara di Cadè. Naturalmente i gialloverdi, avendo scavalcato e poi messo in solaio le teorie tattiche del loro Coutinho, hanno subito ripreso un certo tono, e si impegnano proprio per dimostrare che quel «capitano da panchina» merita il pensionamento. Il «Mundial» brasilero è appena cominciato, sarà lo scontro con l’Argentina, domenica prossima, a decidere. Se non voleranno tibie, bisognerà gridare al miracolo: non per nulla la commissione arbitrale ha tirato fuori dalla cassaforte il più celebre «fischietto», l’ungherese Palotai, affidandogli il calvario di tanta partita.

Ma io voglio tornare a Bettega, che se avesse segnato il suo primo gol, dopo uno slalom da «classico del calcio», oggi si vedrebbe incoronato come un santo popolare. Bobby ha compiuto movimenti di gioco con la soavità del miglior Dominguin nell’arena. Al momento della stoccata trova tre traverse ungheresi, un tacco volante tedesco, un ammasso di corpi alemanni sulla riga di porta. Se vuole, vado io per lui a Lourdes, testimoniando comprensione e affetto. Non è possibile inventare, eseguire e concludere uno spartito impeccabile e poi ritrovarsi davanti una diabolica «incompiuta», tre e altre tre volte. Mi hanno raccontato i fotografi degli insulti che Bettega raccoglieva da parte dei giocatori argentini, durante la «notturna» che ci valse il primo posto nel girone iniziale. Sono i soliti insulti che tutti i giocatori professionisti si sparano l’un l’altro, ansimando. «La pula di tu madre», fischiavano tra i denti e spruzzando sudori i vari Passarella e Tarantini e Ortiz. E lui, curvando nello slalom, arrivando prima su un pallone alto per proteggere Zoff, rispondeva per le rime: non è che le «varianti» a questo vocabolario ci siano sconosciute. Oggi, chissà le amare parole che Bettega rivolge a se stesso, al caso, ai misteri balistici che in pochi centimetri vogliono punirci secondo i loro vizi crudeli.

E tuttavia: stiamo allegri, non è un invito, è quasi un dovere, soprattutto quando c’è ancora gente che si diverte a inventar sciocchezze micidiali. Pensate: un tizio — di recente aureolato con pretese sociologiche — scrive su un «quotidiano-chic» della capitale un suo articolo da «quiz». Secondo lui, Bearzot avrebbe «tradito» il patto concluso a Parigi con Menotti, battendo al «River» questo Luis Cesar che mi sembra la controfigura di Gary Cooper malandato. Ebbene: a Parigi, nel giorno dell’«amichevole» Brasile-Francia che tanto illuse Hidalgo, io c’ero, con Bearzot. Abitavamo nello stesso albergo, dopo la gara attendemmo invano Menotti in un ristorante. L’argentino non potè arrivare per un improvviso diluvio e mancanza di taxi. Ma il tizio dello «chic» e del «quiz» non lo sa, e allora produce calunnia storica. Siamo alle solite. La cricca critica tante ne fa e ne consuma che ormai aizza pure gli ebdomadari. Gli inviati e i fotoreporter dei settimanali si occupano infatti delle nostre beghe, ci fotografano a colori mentre gridiamo, scriviamo, telefoniamo in tribuna, «montano» casi anche divertenti.

Viene un tale e mi fa: «La critica di calcio italiano ha sbagliato tutto, nelle funeste previsioni di questo “Mundial”. Tranne tu, che sei considerato un “padrino azzurro”. Che ne dici?». Come sarebbe: che ne dico. Ne «dico» tutti i giorni, da mesi. E gli altri corrano a rimestare le loro inacidite polente. Ma sì, correggete pure le vittorie e anche i pareggi, spostate l’alfiere e levate la torre, affrettatevi a dare nuovi consigli al «vecio», dimenticate le accuse di «cadaverismo» che avete cinguettato fino a ieri. A noi basta la sostanza, il gioco, basta persino — maledizione — questo zero a zero che ha sbatacchiato gli alemanni nella fossa della tremarella. Domani, al «Mundial», è ancora un altro giorno. Come a Broadway Gioca l’Argentina e il cineoperatore è sommerso da un’ondata di cartaccia.