Giovanni Arpino: Cronache Argentine

18 giugno 1978: Veleni e polemiche (a tutti i costi)

E’ la giornata di Italia-Austria, partita infida che solo una prestazione azzurra all’altezza delle precedenti potrà risolvere. La vigilia è stata lunga, talora infiorata di episodi che portano amarezza: a dispetto del popolo tifoso, che ormai crede in questa Nazionale e si diverte e sogna anche l’impossibile, a dispetto dello stesso Club Italia, che è concentrato, sereno, fervido e offre un esempio unico di solidarietà comunitaria, le polemiche continuano. Un tale trova il presidente Farina a tarda ora, come mi raccontano, e il baffuto «Giussy» è reso ilare da qualche bicchiere: parla di Rossi, naturalmente. Subito le sue «idee tecniche» vengono dilatate dal resocontista privo di altri appigli polemici. Uscite su un quotidiano milanese, queste solennissime cretinate smuovono mari e monti, il Club Italia e Bearzot sono subissati di telefonate transoceaniche, intervengono le famiglie, lo stesso Rossi si scusa, dice «non mettetemi in cattiva luce con i miei compagni, per piacere», e via discorrendo.

E’ un episodio perfettamente risibile, se non fosse che gli scandalisti di professione, malgrado le vittorie azzurre, malgrado gli elogi di tutta la stampa mondiale, malgrado gli stessi lettori italiani, denunciano sintomi di rabbia e di insofferenza imperdonabili. Non si è abituati né a vincere né a capire. Allevati nel clima della rissa, gli autolesionisti della critica sostengono — sono le loro esatte parole — che «non si sa cosa scrivere», che «purtroppo» l’Italia va avanti. Questo fatale «purtroppo» è stato sbattuto in faccia a Franco Carraro, che allibisce e con ragione. C’è gente che aspetta solo una caduta, sperabilmente un tonfo, per poter dar la stura ai veleni riposti. C’è altra gente che seguita a disegnare su lavagne immaginarie un’altra Nazionale, e ripete che il «vecio», pur vincendo, ha sbagliato tutto. Confesso che mi vergogno molto. Personaggi come il presidente Farina non hanno colpe, se non di ingenuità: ma dopo aver parlato, bisognerebbe sottoporli alla prova del palloncino, come fanno nel Nord Europa con i guidatori che trincano un bicchiere di troppo. E agli altri, che li incastrano con le loro interviste, a tutti coloro che denigrano, correggono, artefanno la Nazionale vincente, bisognerebbe imporgli la prova del guanto di paraffina, dopodiché vietargli l’uso della biro e della portatile.

Eccovi ora la cronaca di questa vigilia. Parto all’alba per l’«Hindu Club» e quando siamo alle viste del «ritiro azzurro» sento un odore strano. E’ un odore antico, che conosco bene, mi torna alla memoria e nelle narici dopo quarant’anni. E’ l’odore delle caserme, di sudori rappresi, cuoio vecchio, panni militari. Infatti, dietro il muraglione e una siepe, improvvisamente appare la truppa. E’ lei la fonte di quell’odore, simile agli olezzi che mi avvolgevano da ragazzino, quando mio padre ufficiale mi portava a studiare e far compiti in caserma, a Piacenza. La truppa sta svolgendo le prove per il «giorno della bandiera», uno dei tanti appuntamenti che costellano il calendario militare argentino. I soldati sono giovanissimi (la leva li chiama a diciotto anni), hanno volti olivastri contadini, divise color verde opaco, buone scarpe, armi più pesanti delle gambe. Sotto gli elmetti, sorrisi, sussurri. Siamo costretti a passarli in rassegna.

E’ come un film di Alberto Sordi. Gli ufficiali tengono la spada sguainata, è una lunga spada che tocca quasi terra, hanno sguardi assenti e severi. L’ultimo della lunghissima fila che fa quadrato intorno alle bandiere ancora incappucciate, mormora in un filo di voce: «Di che Paese sei?». Rispondo: «Italia». E lui: «Forza Italia. Hai una sigaretta?». Gliela faccio scivolare tra la mano e il mitra. Dentro l’«Hindu» le iene interroganti stanno assediando come al solito Bearzot, che risponde, pacato, ogni tanto con uno scatto di insofferenza. Perché le domande sono sempre quelle, e perché le insinuazioni esasperano. Parlo con Zolf e Facchetti: sì, brividi di speranze serpeggiano, bisogna battere l’Austria e si vedrà. Romeo Benetti non sa ancora darsi pace del pareggio coi «deutsch». Gli dico: «Anche noi adesso proviamo le rabbie che una volta tacevano impazzire gli stranieri, quando la Nazionale azzurra catenacciara per qualità di uomini e di schemi, strappava identici risultati». Risponde il realistico Romeo: «Certo, però non me ne importa un cavolo. Non eravamo noi quei giocatori. Il nostro calcio è questo, e il calcio è sempre “un presente ” mai il passato».

Nel pomeriggio mi reco all’albergo Sheraton per render omaggio al «granduca» Artemio Franchi. E’ assediato da inviati, carte, conti (presiede anche la commissione finanziaria del «Mundial», una tra le più laboriose e rognose). Bisogna parlare della Cina e dei futuri «mondiali», che potrebbero diventar elefantiaci passando da sedici a ventiquattro squadre. Franchi è un amabilissimo conversatore, e un sapiente di questi «giochi». Le accuse di furbizia Io lusingano. Chiacchieriamo al ventesimo piano del grattacielo, che è sorvegliatissimo per «securidad» da agenti in borghese. «La questione cinese è la vera palla al piede di questo “Mundial” — esordisce Franchi —. Come si risolverà? Non è facile, per motivi procedurali. Tutti sono d’accordo, in linea di principio, ma le “patrie” del calcio, cioè l’Europa e il Sudamerica, che costituiscono il novanta per cento della forza viva pallonaro, sono costrette a difendersi. I quarantatre Paesi che esprimono calcio vero, se accettassero, attraverso una votazione semplice, la Cina, introdurrebbero un “principio” grazie al quale, in altre votazioni future, verrebbero sommersi dai centocinquanta Paesi che fanno parte della Fifa. Ed una maggioranza di tre quarti finora non ha espresso il voto favorevole necessario. Inoltre Taiwan è molto abile nel procacciarsi alleati, per contrastare il passo ai cinesi».

Gli chiedo se sarà presidente della Fifa nel 1982, come dicono tutti e come in molti si attendevano già quest’anno. Franchi sorride, malizioso ma esplicito. «Diciamo che ho dato una robusta mano ad Havelange, nelle ultime eiezioni. Poteva non uscire, ho trovato una formula che è stata definita ” una solución fiorentina “, cioè machiavellica, sofistica. Non mi sono affatto offeso: ” fiorentino ” è un aggettivo che mi spetta di diritto in tutti i sensi, cominciando dalla nascita. Io presidente? Non credo proprio. Per tenere quella poltrona bisogna essere o miliardari o pensionati. Ho perso le speranze di diventare miliardario e non ho ancora l’età per la pensione. Havelange ha compiuto un ” tour ” di 243 giorni in visita a tutti i Paesi, per il voto. In un anno. Come potrei, io?». Infatti si dice che il brasiliano abbia versato dal suo copioso portafogli qualche centinaio di milioni per il giro elettorale. Sospira Franchi: «Non parliamo di cifre: sono tutte là, nel mio cassetto segreto», e indica il tavolo da lavoro. Poi continua: «Diciamo che per sopravvivere bisogna, ogni tanto, cambiar cavallo.

Non so cosa accadrà tra quattro anni. So che il buon Havelange mi mette nei guai tutti i giorni, indicandomi come il suo successore: di qui grane, inviati, colloqui, richieste senza fine, siano malesi o americane o cinesi. Questi cinesi, poi: sono venuti con la loro delegazione nutritissima. Hanno tenuto discorsi di sette ore. Bisogna che si adeguino un pochino, no? Forse andrò in Cina, in autunno. E’ importante. Non possiamo ignorare un continente, anche se il football tradizionale deve in qualche modo cautelarsi. Lo stesso progetto di ingrandire il “mondial ” per fortuna sta perdendo fascino. Anche gli spagnoli, che dovranno organizzare il prossimo torneo, i rendono conto che nascerebbero problemi insolubili. Non basterebbero più “rose” di ventidue uomini, i calciatori professionisti rischierebbero di estenuarsi in un calendario mostruoso. Questa formula “a sedici” è l’unica possibile. In ogni caso, anche se capitasse il peggio, Europa e Sudamerica non perderebbero, in percentuale, perché aumenterebbero le squadre partecipanti delle nazioni-guida».

Si torna alla Nazionale, consolazione e speranza di tutti. Artemio Franchi è chiarissimo: Sono andato a trovare i ragazzi e Bearzot, ieri. Abbiamo chiacchierato a lungo. Tutti ricordiamo le diatribe messicane o germaniche nel ’70 e nel ’74. Per tacere delle precedenti, dal Cile al giorno della Corea (è il mio quinto mondiale, questo). Mai abbiamo avuto un gruppo d’uomini così unito, così convinto e pronto al ” tutti per uno, uno per tutti”. Bearzot ha compiuto un lavoro di prim’ordine, quasi insperato. So che un elogio federale può contar relativamente di fronte all’opinione pubblica, ma è la verità, per fortuna suffragata da risultati di grande prestigio. La gente ci ammira e ci rispetta e ci ama: da quanto non accadeva? Oggi è diverso. Da quanto tempo si parlava di noi come di individui isterici, magari talentuosi ma fragili di nervi e apportatori di scandali? Oggi è diverso, i meriti del ” vecio ” sono grandissimi. Sono d’accordo con lei su un punto: che Bearzot ha un torto, di dar troppo retta agli strilli sia di un grande giornale sia dell’ “Eco di Abbiategrasso “. Io gli consiglio sempre di ignorarli nella giusta misura. Lei invece si diverte, vero? E’ evidente: è tra i rarissimi che ha avuto ragione». Grazie, «granduca». Spero di divertirmi ancora oggi, al «River». E’ indispensabile. Anche se una quarta vittoria italiana o un forzuto pareggio non placherà le iene, siano analfabete siano plurilaureate. Azzurri di Bearzot, «adelante», e non curatevi di loro.