Giovanni Arpino: Cronache Argentine

19 giugno 1978: I campionati dell'ipertensione

Forse siamo tutti ipertesi. Forse ha ragione la pubblicità argentina, che ad ogni angolo di strada invita a farsi misurare la pressione: sovente, nella zona pedonale di Baires, si vedono uomini e donne che offrono il braccio a un infermiere, a un medico, presso un apposito baracchino tipo cabina telefonica e attendono il responso. Il «mese della ipertensione arteriale» coincide con il «Mundial» e potrebbe non essere un caso. Dice la pubblicità, tetramente: «En el mundo hay 800 millones de hipertensos, 400 mìllones de ellos lo ignorati». Forse è un ammonimento da appendere anche nei vari «ritiri» delle squadre: giunti a pochi passi dalla fine, non solo gli stinchi ma le arterie rischiano di saltare in aria.

Enzo Bearzot mi ricorda ormai il leggendario Manolete, la massima «figura» della corrida spagnola. Via via più scavato, più sofferente, più richiesto, più invitato al rischio, più solitario, Manolete si fece incornare perché da lui si pretendevano cose folli, che combattesse non a cinque centimetri dal toro ma quasi cinque centimetri «dentro» il vello del toro. Fu stoicamente pronto ad offrirsi al corno: morì perché non era stata ancora inventata la penicillina. Anch’io ignoro il medicamento adatto a lenire gli umori del «Vedo». Forse è troppo sensibile, forse reagisce con eccessiva irruenza e ingenuità e calore umano agli attacchi. Un altro, al suo posto, riderebbe. Zio Ferruccio era un impermeabile assolutamente restio a lasciar passare una sola goccia di pioggia nemica. Il buon Enzo no. Ho capito perché mangia solo dolci: la carne lo nausea, da troppi mesi si rode il fegato.

La sua purezza di «monaco della pelota» gli vieta di diventar refrattario alle critiche altrui, in modo quasi commovente. Vorrebbe drizzare le zampe dei cani, introdurre realismo nelle genti, insomma si abbandona a tutte quelle disperate operazioni che consumano un uomo. Ma questo è il mondo del calcio, che grazie alle «agudezas» italiane diventa una giungla. Anch’io avrei qualcosina da ridire ai vari amici intellettuali (da Compagnone a Manganelli) che si sono sentiti spinti ad interloquire, travolti o stravolti dai casi del «Mundial». Ma me ne guardo bene: se la Nazionale è «piatto unico» e di tutti, anche loro hanno il diritto di sottilizzare, di sentirsi dentro oppure ai margini, di portar ipotetici mattoni o colpi di piccone alla casa comune.

E’ giorno di partite decisive, traumatizzanti, importantissime, e naturalmente, a parte il commento notturno sull’incontro tra azzurri e austriaci, mi tocca questo intervento in fuorigioco. E’ un’occasione per meditare, se non proprio per trarre bilanci. Baires ha ritrovato il sole, l’erba del «River Piate» ha potuto asciugarsi, gli abitanti festeggiano il fine settimana come sempre mangiando, andando nei parchi a giocare, i bambini con gli aquiloni, gli adulti tentati dalle barche sul lago. Mi impressiona molto la curiosità, mai timida ma ferma, degli abitanti di questa metropoli senza fine. Domandano, interrogano, vogliono sapere cosa si pensa dell’Argentina in Europa. Lo pretendono in maniera molto diretta, con un candore provinciale. Pensate un po’ se un parigino, un londinese, un milanese si sognerebbe mai di domandar certe cose. Nemmeno i turchi di Istanbul. I «portenos», sì. Lo fanno con trepidazione e per affetto vero: amano l’idea che hanno dell’Europa, se non proprio i paesi europei che considerano rissosi e via via più estranei, relegati in una dimensione preistorica. “Nuevagiorga”

Ieri, in trattoria, mi si è appiccicato un tizio che è vissuto anni a New York (molto bella la pronuncia che suona «nuevagiorga») e ha conosciuto Italia, Francia, Germania. Mi ha ripetuto per dieci volte: «Noi siamo un paese del futuro. L’Argentina ha tesori di petrolio mai toccati, ha tutto il gas naturale che le serve, ha territori vergini immensi, ha le migliori carni, le migliori frutta. Il vino viene comperato dai francesi che lo annacquano, lo trattano col solfito, gli appioppano un’etichetta pomposa e lo rivendono diecimila volte più caro. Voi siete lontani, siete troppo antichi». Tutto vero. Però, qui, lo stesso pranzo che stiamo consumando costava ieri mille e oggi seimila, domani ottomila, dopo il «Mundial» è prevista una nuova ondata inflazionistica. E l’altro, scuotendo la testa: «Noi abbiamo profumo di naturalità. In America hanno solo profumo di dollari, in Europa c’è stanchezza. Qui faremo il paradiso». Auguri sinceri.

E vengo a raccontarvi un secondo incontro. Il personaggio in questione è brasiliano, si chiama Milton Jose De Oliveira, è giornalista del quotidiano «O Estado de S. Paulo», avrà un quarantacinque anni, e bracca gentilmente i colleghi italiani rivolgendogli sempre una sola domanda. Milton Jose ha cinque fratelli. Tutti hanno sposato ragazze di paesi diversi. La moglie di Jose è tedesca, un’altra è inglese, una terza cognata è portoghese e così via. Siccome sono carichi di figli hanno deciso, quando si radunano, che la lingua comune sia l’inglese: finirebbero per non capirsi più, se parlassero in idiomi disparati. Il nonno di Milton Jose c dei suoi fratelli era un italiano della Garfagnana, morì (Jose possiede i documenti) a centoventi anni e prima di chiudere gli occhi disse ai nipoti: «Ricordatevi. Ogni volta che dite la verità, piantate un pioppo». Da allora, Jose e i suoi fratelli cercano un italiano che gli spieghi cosa significhi letteralmente e metaforicamente quella frase. Sì, il significato lontano, arcaico, contadino, è percettibile, ma Jose vorrebbe conoscere l’origine, a quale zona della Garfagnana appartiene, insomma, l’albero da cui spunta quella fogliolino di sapienza.

Andiamo avanti, un «Mundial» gronda storie e conoscenza da ogni sua piega. Ho scoperto, per esempio, che una certa «rolata» una sorta di polpettone, viene chiamata «Pio Nono». Nessuno sa dirmi l’origine di questo ardimentoso battesimo culinario, si ordina «Pio Nono», Io si mangia e non esiste l’esperto che ti illumini il cerebro anziché lo stomaco. Passata questa domenica, restano tre partite per quei «peloteri» che avanzeranno fino alle finali del «Mundial» e quattro per chi dovrà raccontare le imprese di primi, secondi, terzi, quarti. Poi calerà il sipario su una manifestazione che ha impegnato tutti allo spasimo, e diremo addio a questa città clangorosa, malinconica eppure strepitosa. Interrogandoci tra di noi, scopro che abbiamo opinioni diversissime. C’è chi giudica ipocrita il modo di vivere argentino, c’è chi lo trova splendidamente naturale, semplice. C’è chi si è divertito, c’è chi sogna di tornare a casa subito e farebbe giocare quelle famose partite in un unico pomeriggio, fino alla morte per asfissia sul campo. Io mi accontento di guardare i volti antichi degli argentini.

Si parla troppo sovente dei legami, ancestrali o recenti, che questo paese ha con Spagna e Italia, le sue «prima y segunda marna», in verità mi sembra di percepire solo cosa «manca» di vero spagnolo e di vero italiano ad un popolo che ci assomiglia ma è profondamente diverso e ha dovuto mediare, dentro di sé, negli anni, una storia che non ci riguarda, che è sol¬ tanto sua. Non esiste, ad esempio, l’argentino che sia artigiano pari ad uno spagnolo o nostrano. L’argento non lo sanno lavorare con la fantasia messicana. La gente è nata spingendo mandrie, per distese immense, e in questo mito «vaquero», bellissimo, è cresciuta. La borghesia è inesistente, tolti gli uomini di bottega e di studio: il proletariato che la smania industrializzatrice di Perón ha convogliato a Baires non mostra i connotati visibili nelle nostre città. Ha veramente un volto che possiamo intuire ma non decifrare. La stessa gioventù, malgrado gli atteggiamenti comuni da Los Angeles a Taranto, sembra più quieta, più mite. In qualche luogo del cuore sento di amare questa Argentina, ma è un luogo lontano.

Baires non si abbarbica addosso come Città del Messico, cerca invece di avvicinarsi con una carezza, pudicamente. Tutto qui va taciuto, la vocazione e il silenzio, così come la vocazione di certi personaggi di Borges consisteva nel ricopiare assiduamente i capolavori altrui, con esercizio maniacale rifacendo «in sé» Dante e Cervantes. San Martin Ma terminiamo in allegria, sebbene un po’ sfrontata. L’eroe argentino è il generale San Martin, un guerriero di ascendenze spagnole e francesi che «liberò» il paese oltre centocinquant’anni fa. San Martin è un insieme di Garibaldi, Cavour, Giulio Cesare. Lo si trova sulle piazze di ogni contrada, dà il nome a mille strade, è un riferimento toponomastico e mitico. Stanchi di trovarlo dappertutto, noi blasfemi che osiamo «parlar male di Garibaldi», abbiamo rifatto la sua storia, sperando che non arrivi ad orecchio argentino.

La nostra versione, elaborata con il «clan emiliano» capeggiato da Giulio Cesare Turrini, è la seguente: San Martin, dopo essere stato in Europa a studiare «da liberatore», tornò in Argentina ed effettivamente la liberò. Tenacissimo, non smise di applicarsi, infatti i testi assicurano che liberò pure il Cile e il Perù, sconcertandoli. Voleva proseguire, naturalmente, si ritirò a Bologna, dove aprì una pasticceria che porta infatti il suo nome ed è tuttora cara ai ghiotti cittadini di quel bel luogo. Incerte sono invece le notizie che riguardano l’aiutante del «Liberatore», una specie di Nino Bixio, certo Solferin. Pare che anche lui, deluso ma incapace di infornare bignole, sia emigrato in quei tempi a Milano, dove comprò una strada e fondò un giornale che da allora, secondo fonti imprecisate, si chiamerebbe «Corrierinho».