Giovanni Arpino: Cronache Argentine

21 giugno 1978: I corvi aspettano con molte speranze

Sono tutti lì appollaiati sul ramo. Da buoni corvi aspettano il loro cadaverico pasto. Per cinque volte la «fatina azzurra» non si è lasciata dissanguare, ha respinto le insidie, ha addirittura vinto l’orco nemico, e i corvi appollaiati, a digiuno, non la perdonano. Ma stavolta accarezzano buone speranze: la mannaia olandese staccherà la testa a questa povera, cocciuta fatina e finalmente i loro becchi potranno frugare nei visceri moribondi. Non sto esagerando, amici. Qui, tra professori di tattiche, menagramo, gente frustrata (ma da frustate) è diffìcile emettere, in un ultimo fiato, il grido di «Forza azzurri». Qui corvi, jene, sciacalli, serpenti e oche starnazzanti fanno concerti incredibili. Abituati a vivere di puro scandalismo, affezionati a nuotare nel brodo delle polemiche vere o «montate», questi cari animaletti notturni rimpiangono le belle risse d’una volta, sognano i tempi in cui si riusciva a mettere Tizio contro Caio, mentre zio Ferruccio taceva contrito.

E’ diventata dura, per jene e corvi e scarafaggi e pidocchi che erano soliti camminare nell’ombra o dentro i peli della nazionale. Oggi fa scandalo l’assenza di scandalo. Dice il capitano Coutinho, comandante del battaglione brasiliano, che certi giornalisti suoi compaesani dovrebbero essere privati del passaporto. Ma Coutinho non è certo un democratico. Noi sì, quindi tolleriamo tutto. Al povero «vecio» debbono solo più infilargli un microfono tra le tonsille, tanto per gradire. Lui, buono, disponibile, intenderebbe parlare di calcio, con tutti e sempre, ma jene e corvi no: cercano gli umori segreti, cercano la faida, si disperano di non trovarla. Verseranno veleno se l’Olanda finalmente gli darà ragione. I professori di teoretica calcistica, con tanto di pipa e cinto erniario, sosterranno che Benetti non sa più correre, che Bettega era da mettere a riposo, E chissà che scandalo se neanche l’Olanda riuscirà a batterci.

Provo nausea, ed in maniera irrimediabile, non voglio inflazionare il problema, non vorrei far giornalismo sulle spalle dello stesso giornalismo, ma questa errante comunità italiana che ha lasciato la penisola per seguire il «mundial» è un’accolita di masochisti forsennati. Accetto di andare in manicomio anch’io, purché ci portino tutti quanti. Gli argentini fanno i nazionalisti, ma non gli sono da meno brasiliani o tedeschi o olandesi, i quali non fìngono di battersi per denaro, ma al momento degli inni nazionali li vedi smuover le labbra in mute sillabe propiziatorie. I peruviani, meschinelli, ascoltano le note del loro Paese con una mano sul cuore. Persino Io zingaro Sgherro Szarmach, polacco, che sembra un bandito uscito da un melodramma ottocentesco, canta sotto i baffoni biondastri. Zoff chiude la commozione serrando le labbra.

E le jene, dalla tribuna, sogghignano, a stento sollevando il grasso didietro dallo scranno gratuito. Poi, appena Bobby esita — perché sta male — in un «pase de dribbling», eccoli a stenterellare: «Oh, Bettega, ma va a casa», e per sovrammercato fanno cadere l’accento di Bettega sulla seconda «e». Ma andate alla Guyana e provate, se non altro, a scrivere le vostre memorie da «Papillon» della bassa. Per fortuna incontro il «granduca» Artemio Franchi che con sottilissima ironia dice: «Procediamo secondo i piani non prestabiliti». E a chi sostiene che il «mundial» è crudele perché potremmo tornarcene a casa imbattuti e non finalisti, aggiunge: «Ma sarebbe peggio un torneo ad eliminazione diretta. Nessuno lo accetterebbe più, con gli interessi che sono in gioco».

Non vorrei che Enzo Bearzot, il quale ha sempre stimato moltissimo gli olandesi, fino a ritenerli i più probabili vincitori di questo «mundial», avesse trasmesso ai suoi pupilli azzurri identica reverenza. Si sa che un calciatore va pungolato, a costo di esagerarne i meriti e le capacità. Ma già mi vergogno di questo dubbio. Il «vecio» ordinerà ai suoi di morire sul campo, di ridurre a un orto impraticabile questo «River» prima di mollare le vele davanti ai tulipani. Fu proprio lui che un giorno, per rispondere ad una mia sollecitazione affinché si calmasse, affinché guardasse al gioco con maggior distacco, mi fece: «Morirei volentieri in una finale del “mundial”. Morirei felice in panchina, sul tre a zero che stiamo infliggendo ai brasiliani». E’ da credere, anche se tocco ferro. Ma ogni sera, quando mi metto alla ricerca di una trattoria dove allungar le gambe affaticate, vedo in certe vetrine di ristoranti di Baires i capretti crocifissi. Cuociono in circolo, attorno alle enormi braci di un fuoco che i cucinieri alimentano di continuo. Squartati e appesi a una croce di ferro, mi ricordano il buon Enzo quando è attorniato, vivisezionato, assediato da una torma di taccuini, di microfoni, biro, nastri, macchine televisive. Anche lui viene «girato» a fuoco lento.

E mai che si parli dei meriti, delle quattro vittorie o del pareggio, mai che gli venga richiesta la ricostruzione di una bella fase di gioco. Sempre, invece, scatarrano interrogativi infidi. Ma perché non si dà un turno di riposo a Benetti? Perché Bettega ha avuto mal di stomaco? Perché Paolo Rossi sta solo laggiù tra due sergentoni che lo marcano a un passo di distanza? Come mai Graziani ha sbagliato il gol, era deconcentrato, era rabbioso, era troppo rabbioso, era una rabbia che gli è venuta dall’esclusione, era una rabbia che gli veniva dietro fin dall’Italia, era una rabbia che ha ereditato da suo nonno? Cari miei, c’è da impazzire. Bearzot diventa sempre più indio, le rughe incise, un lampo negli occhi che per fortuna riesce a frenare la lingua già pronta alla risposta salace.

Sette giorni così all’«Hindu Clubs» o in qualsiasi altro «ritiro» metterebbero in salamoia anche i nervi di Kissinger, che pure sapeva tener testa a politologi e ministri di ogni Paese. Per la stampa italiana, tra l’altro, non contano affatto i pareri altrui. Due sono i «commissari tecnici» dimissionari, innumerevoli quelli contestati dai loro stessi giocatori (da Happel a Schoen a Coutinho, per far tre nomi celeberrimi), lo stesso Luis Cesar Menotti, benché goda di protezioni al massimo livello governativo e sia «coccolato» dalla stampa argentina in blocco, quasi fosse un neonato, minaccia di dimettersi alla fine di questo «mundial». L’unico clan dove non si sono verificati attriti, comizi spontanei, litigi, secessioni palesi o occulte, è quello azzurro: un fatto eccezionale Ma anche questa novità, così umana, dà immenso fastidio a jene e corvi e salamandre della crìtica, i cui appetiti polemici non sanno dove piantare i denti.

E questo gli impedisce di raggiungere una piccola ma importantissima verità: il «mundial» in corso non ha presentato i supercampioni, le «stars» di nome Pelè o Beckenbauer o Rivelino. Annovera certo stelle di prima grandezza, da Bettega a Majer, da Kempes a Pezzey, da Zoff a Ardiles, da Rossi a Bonieck, ma si tratta di uomini che rifuggono da atteggiamenti divistici e non vogliono apparire come «leaders». La piccola verità è un’altra: questo «mundial» appartiene, nel bene e nel male, agli strateghi da panchina, siano bravi, siano mediocri. Il gioco esasperato delle tattiche finirà certo per mordersi la coda (la Tunisia, giocando calcio elementare, coi terzini che fanno i terzini e le ali che fanno le ali, ha combinato sconquassi imprevisti), ma oggi è la «carta» da misurare. E in questo gioco, tra queste «carte», Enzo Bearzot, che non è un mago, che è uno studioso di calcio, ha saputo dir la sua facendo leccare le labbra ai buongustai inglesi e francesi, peruviani e ungheresi.

La critica italiana, invece, neghittosamente si tiene ai suoi «annali» e del parere altrui se ne infischia. Altro che profeta in patria. Non lo sei neppure quando ti riveriscono oltre confine. La critica nostrana ha una sola preoccupazione: quella di dir tutto e poi il contrario di tutto, ma in maniera tale da poter aggiungere: io l’avevo previsto. Vedrete che il signor Caio, dopo averne scritte di tutti i colori su Bettega stanco, Rossi mal impiegato, Benetti sotto tono e Causio impazzito, lascerà un pertugio per evitare frane: in quel pertugio farà passare una frasetta, grazie alla quale non solo l’Italia ma anche l’Olanda perde, aggi al «River». Siamo i nipotini degenerati di Machiavelli, ma con l’assenza della sua purezza linguistica, naturalmente.

Tiriamo avanti. Oggi è «il giorno della bandiera», una delle tante festività argentine di gusto militare. Se metti il naso fuori dalla porta, subito incontri ragazze con un paniere pieno di spilli e di coccarde biancocelesti da infilzare al bavero. Bisogna stare attenti, o a furia di spilli diventi un fachiro. E’ anche giorno, sempre per via della bandiera, di sfilate, di cavalli impennacchiati, di elmi e soldati con grossi armamenti ma essendo festa, la gente, dopo aver applaudito i vari alzabandiera, corre a casa a mangiar tortelloni e ravioli, magari uniti a polipi affettati. Sottobanco, senza parere, tutto aumenta: le sigarette, il tassì, il «souvenir», ad un «mundial» che precipita verso la conclusione fa da sostegno la bramosia spicciola degli ultimi affari. Una vignetta del disegnatore satirico Caloi sul quotidiano Clarin la dice lunga, e soavemente, su questo fenomeno. Il protagonista, un papero-uccello, si domanda: «Ma allora il mundial finisce, ma allora questa allegria morirà, e intanto mi dicono che passeranno cento anni prima che ritorni. Come fare? Corro a prenotarmi per la reincarnazione». Siamo d’accodo con lui.