Giovanni Arpino: Cronache Argentine

22 giugno 1978: Anche Freud in corteo con bandiera e tromba

Trepidano anche generali ed ammiragli. Il trascinante «Mundial», giunto alla stretta finale, crea nodi di attesa e di angoscia. I ministri visitano i «ritiri», il Presidente della Repubblica ha deposto la divisa e le gestualità di rigida accademia per farsi vedere in abito grigio negli stadi e fremere in attesa di un gol di Kempes. Il popolo di Baires ha molto apprezzato questo «impegno» e seguita ad ammassarsi nelle strade ripetendo le quattro sillabe che compongono la parola Argentina. Dopo questa parola, dovrebbe venire una canzone, ma i ragazzi, le giovanette, gli «ex-descamisados» solitamente la dimenticano. La ripetizione del nome è più che sufficiente, e sembra un avviso al mondo, un avviso scandito e corale che significa: ci siamo anche noi, siamo qui, guardateci, amateci, riconosceteci.

E’ arrivato Kissinger, appaiono un po’ dovunque i vecchi draghi della pelota: con tanti assi antichi che parlano al microfono, che scrivono sui quotidiani, che dettano commenti, che concedono interviste, si potrebbe formare una nazionale interplanetaria. Pensate alla sola prima linea: annovererebbe uomini come Pelè, Di Stefano, Bobby Charlton, Gigi Riva, Netzer. Noi italiani — intendo la critica, escludo la «banda Bearzot», sempre seria e fedele a se stessa — siamo i più fervidi di inventiva. Sabato scorso i calciatori azzurri respingono i tentativi di colloquio con i giornalisti, pretendono ventiquattr’ore di tregua. Ma domenica, su vari giornali, sono uscite pagine stracolme di interviste, al Sud e al Nord. Vedrete: intervisteranno anche Kissinger, che gira con un battaglione di scorta (per avvicinarlo ti cambiano anche la penna, potrebbe essere esplosiva, altrettanto accadde in Germania quattro anni fa) e non accetta colloquio. Non importa: il «vecchio Henry» risponderà a mille domande di un cronista che non esce dalla sala-stampa ma sa come «colorire» la sua giornata. Non pretendo affatto di far la morale agli altri, ma io — come molti, per fortuna — appartengo alla razza scrittoria di coloro che credono solo a quello che vedono, che prestano orecchio solo a quello che sentono direttamente. Scusa, quindi, o lettore, se non ti obbligo a voli stratosferici, ma ti trattengo con i piedi inchiodati a terra.

E’ tornato nuovamente il sole, la temperatura è di poco superiore allo zero, chi deve giocare non può non dirsi soddisfatto. Ma nel «Mundial» che si contrae nelle mosse conclusive il tempo non è quello reale, è un altro. Durante il campionato, viviamo tutti secondo le scadenze regolamentari, compresi i «mercoledì di Coppa». Qui, la partita di ieri sembra lontanissima, quella da giocare domani non arriva mai. L’incontro Italia-Francia pare si sia consumato un anno fa, non ai primi di giugno: è una sensazione che proviamo in molti, da Zoff al sottoscritto. Perché viviamo in una sospensione temporale, secondo un’orbita completamente al di fuori delle normali abitudini. Il presente è enorme, lunghissimo, non si conclude, il futuro ritarda, il passato rimpicciolisce come l’omino Charlot che nei film muti via via scompare nel buco luminoso dello schermo, un buco che diventa un microbo, una testa di spillo. Intanto il «Mundial» macina gente e argomenti: l’unico viso pacioso e felice è quello del vecchio Baroti, allenatore ungherese. Finalmente ha perso, si è tolto il magone, può veder partite in pace. Molti, avendo ormai capitolato, godono dello stesso equilibrio: dal Calderon peruviano al Rocha messicano, che avendo evitato il massacro in patria si trasferirà in Spagna per «meditare». Anche il sollievo fornito da una sconfitta rida dimensioni umane ad individui sull’orlo della clinica psichiatrica.

Oggi le «avenidas» sono bellissime perché deserte. Il cosiddetto «giorno della bandiera» ha fatto sparire gli ingorghi mostruosi, i torrenti di corpi che si intrecciano nella zona pedonale. Baires sembra più che mai un pianeta senza fine, disegnato e costruito da un gigante in voglia di giocare: ma ovunque, nelle camere da letto, nelle cucine, nei bagni, nei sottoscala, nei negozi, negli ascensori, attendono dieci milioni di bandiere, stendardi, fazzoletti biancocelesti, pronti a fiorire appena l’Argentina avrà la sicurezza di approdare alla «finalissima» di Baires. E così non si dormirà fino all’alba di lunedì, se non a pezzi e bocconi come accade in treno. Nessuno osa prevedere cosa potrebbe succedere se la squadra di Menotti non vincesse il «Mundial». Jorge Luis Borges seguita a ripetere che il nazionalismo è il difetto principale di questo Paese. Ma è anche, in una certa misura, una ricerca ed una difesa dell’identità, altrimenti costretta a disperdersi per mille polverose radici di mille diversi passati, o italiani o spagnoli o danesi o greci. L’argentino così duramente condannato da Borges — che non si trattiene dal definirlo un primate, cioè una scimmia — è come l’uomo che finalmente è riuscito a possedere una casa propria, dopo tante coabitazioni, tanti affitti pagati, tanti sfratti e traslochi: è quindi disposto a considerarla un tesoro inimitabile e a parole la ritrae come la culla dell’universo.

Fu qui, agli inizi degli Anni Quaranta, che un certo signor Aristotele Onassis, talmente furbo da farsi fare subito il passaporto argentino, raggranellò il suo primo milione, commerciando in tabacchi e in pasticceria. A Mar del Piata v’è ancora il primo grattacielo del suo impero, dove si amministrano industrie dolciarie. Fu qui che Onassis scoprì le sue triplici Americhe e fondò la sua rozza Atene. Mi dice un giovane argentino, di pelo biondo e baffi radi: «Se c’è un furbo sulla terra, prima o poi passa da queste parti e scopre qualcosa di utile, anzi di fondamentale alla sua furbizia. Noi, naturalmente, lo applaudiamo, perché siamo come la buona terra tutta felice di svenarsi pur di nutrire l’albero. Adesso però stiamo facendoci furbi». Già. Il governo militare sta infatti trattando con Cina e Russia, con Giappone e Stati Uniti. La Cina va prendendo piede e tra un attimo scavalcherà anche gli interessi sovietici. Una ventata di spregiudicatezza rosica le fondamenta di idealismi puramente verbali e arcaici. Il desiderio di conquistare, a breve o lungo termine, una funzione di paese-pilota in Sudamerica, spinge a considerare ad esempio il generale cileno Pinochet come un piccolo omino. In una vignetta è stato ridicolizzato così: se viene a discutere di quel famoso piano intorno al quale non ci mettiamo d’accordo da anni, stavolta 10 sottoporremo all’esame antidoping.

Ma torniamo al «Mundial», che è ormai diventato un affare di interesse globale, o forse un altare dove è opportuno e godibile sacrificar vittime, bruciare incensi, rivolgere preghiere. Sulla pelle d’un battaglione di ragazzetti si consuma il rito, che è ormai una autentica guerra mimata, dalla quale si ritraggono denari, prestigio, credibilità. Le partite costituiscono solo il momento estremo, l’atto finalistico di un cerimoniale complesso, che coinvolge il turismo (anche e soprattutto quello futuro) e l’autorità di un governo, le funzioni della polizia, l’assetto civile delle metropoli, l’agibilità dei trasporti, l’efficienza di tremila uffici. Il «grado moderno» di un paese è ormai misurato a seconda di come sa organizzare un’Olimpiade o un «Mundial». Se non vi riesce, ecco le valanghe critiche che hanno sconvolto il Canada, ecco le preoccupazioni dei russi per Mosca ’80 e degli spagnoli per il football dell’ ’82. Forse ansimano di più gli organizzatori nei loro uffici dalle grandi vetrate dell’albergo Sheraton che non i «punteros» sull’erba dei campi.

Un solo esempio: per terminare i lavori della Commissione finanziaria da lui presieduta, Artemio Franchi «granduca» dovrà tornare in Argentina almeno tre volte, dopo la finale, quando tutti ormai avranno inscatolato il «Mundial» tra i ricordi lieti o amari, invernali o estivi. Oggi, mercoledì 21 giugno, l’Argentina si ferma. Durante la partita tra biancocelesti e peruviani (i quali assicurano di voler far spettacolo, di voler competere onestamente, di voler tener alto l’onore «Inca»: e chi ne ha mai dubitato?) Buenos Aires sarà vuota come una necropoli. Meglio ignorare i camerieri, rinunciare ai tassisti, rimandare i viaggi da e per l’aeroporto. E’ assolutamente indispensabile provvedersi di sigarette e fiammiferi, non allontanarsi troppo dagli alberghi a meno che uno non abbia la forza di camminare come Zatopek o Franco Arese. Meglio non suonare alla farmacia di servizio, è sconsigliabile attendere che il portiere ti restituisca o ti ritiri la chiave. Non si può pretendere nulla, dal medico dentista al barman, finché «el partido» non sarà finito.

E’ urgente organizzarsi: mangiar prima, come le galline (la gara è alle 19,15, ora italiana) oppure piazzarsi davanti a un video ma a due passi dal ristorante dove dovrai chiuderti dopo. E che sia un ristorante defilato rispetto alle grandi «avenidas» e alle piazze, o affetterai il bisteccone e brandelli di bandiere che sventolano. Dolore viscerale Ho già visto una mezza dozzina di partite nei caffè con gli argentini. E’ una cerimonia religiosa, punteggiata da ringhi di dolore. Nessuno sbraita. Quando un’azione è fallita dal mini-Sivori di nome Ortiz dribblomane matto, che fa un gol ogni tre anni (è la statistica, non una battuta mia) allora il dolore viscerale digrigna, ma con una competenza e con una accettazione della realtà pallonata momentanea che il nostro tifoso ignorerà ancora per due secoli. Poi, è il «triunfo» stradale, che riesce a liberarsi persino quando l’Argentina perde: è accaduto dopo l’uno a zero rifilatole dagli azzurri. Signori miei, qui Freud avrebbe solo due soluzioni: o riscrivere totalmente le sue pagine di psicanalisi o correre intorno all’obelisco dell’Avenida 9 De Tulio con una bandiera e una tromba.