Giovanni Arpino: Cronache Argentine

23 giugno 1978: E' già bottino (ma bisogna capirlo)

Finalmente arriva la nausea. Dopo trentasei partite e novantacinque gol andati a segno (mancano solo quelli di sabato prossimo e della domenica conclusiva) accusiamo tutti quanti una forma di sazietà, una «sindrome di appagamento». A qualcuno, se il «Mundial» durasse ancora dieci giorni, salterebbero le cervella. In questo preciso momento, Baires impazza nel suo tumultuoso carnevale. Vedo vecchine con la bandiera di plastica fluttuante, vedo bambini piccolissimi issati sui cofani delle auto che procedono tra nubi di fumi pestilenziali eruttati dagli scappamenti. Vedo anziani signori che si drappeggiano dentro uno stendardo, nonne con la tromba, spose incinte che camminano gridando «Argentina». Le quattro, eterne sillabe del Paese formano uragani piazzaioli. Se un «ufo» stesse studiando adesso questo scampolo d’umanità, subito se ne ripartirebbe per avvertire «i superiori» che il globo terracqueo è meglio lasciarlo perdere.

So di ripetermi, ma avrei preferito un pareggio con l’Olanda anziché una platonica finale per il terzo e quarto posto. Lasceremmo il «Mundial» imbattuti, e la cosa sarebbe da marcare con una pietra bianca nella storia della pelota nostrana. Invece ci toccherà incrociare le tibie illividite con i brasiler: di Coutinho, inutili vincitori della debosciata Polonia. Su nessun giornale del mondo uscirà l’articolo ideale, cioè questo: la cronaca esatta, minuto secondo per minuto secondo, degli epiteti, delle maledizioni, degli insulti, delle accuse che nel «ritiro» brasilero hanno certamete affumicato i muri mentre i gialloverdi Dirceu e Rivelino e Roberto seguivano la «goleada» inflitta dagli argentini ai peruviani, una «goleada» che non vogliamo neppur definire: la macroscopica arrendevolezza degli «sparring-partners» di razza «inca» può dar adito a ogni sorta di giudizio. Peccato che Kempes e Luque non abbiano segnato dodici gol, lasciandone poi un tredicesimo — da conquistare su «penalty» a porta vuota — a quella povera animula francese dell’arbitro Wurtz, una facciona talmente bischera che vieta a tutti noi pensieri riguardanti la corruzione o la sottomissione.

Ha vinto il «pueblo», che infatti strombetta, tambureggia e deborda da ogni «avenida» di Baires sillabando «Argentina campeon». Gli olandesi, per una notte, non esistono. Si materializzeranno soltanto domenica pomeriggio: come animali da sacrificio o come il bestione-totem che divorerà l’ingenuità «gaucha»? In queste ore la popolazione di Baires e di ogni altra città festeggia la raggiunta finalissima. Poi vorrà che Kempes stermini i vari Hann, ma questa è un’altra faccenda: la protervia e la potenza professionali dei tulipani li spingerà a vendere a carissimo prezzo la loro pelle color del latte. Anche per fare un dispettuccio all’ex-sovrano Giovannino Cruyff, che li comandò a bacchetta e arrivò solo secondo nel ’74. Non intendo recriminare sulla partita tra l’«arancia meccanica» e gli azzurri, che in poco più di mezz’ora hanno speso con estrema eleganza e con un’inattesa «souplesse» la loro residua benzina.

Tre palloni-gol non vanno certo regalati neppure alla neo-promossa Nocerina, che sale dalla serie «C» alla serie «B». Paolino Rossi, Causio e Benetti vi sono riusciti, ma non li condanniamo: è un destino. Gigi Riva digrignava dietro di me, in tribuna: quando giocava lui, la Nazionale costruiva il topolino d’un pallone gol ogni centottanta minuti, e il «bomber» doveva sbatterlo dentro ad ogni costo. Oggi ne costruisce almeno cinque-ad ogni gara, ma la perfezione conclusiva rimane ardua, se Bobby non è al massimo di sé, se Paolino denuncia affaticamento dopo settanta o settantacinque partite stagionali.

Mi fanno orrore — da un punto di vista professionale ed umano — coloro che sottilmente godono per questa sconfitta, stendendo liriche di ipocrisia sulle possibilità nostrane gettate al vento. Tornano vecchi discorsi, di palese ignobiltà. C’è gente che anche dopo la vittoria sull’Austria ha rimpianto (ha finto di rimpiangere) Novellino, un ottimo ragazzo che nel Club Italia d’oggi viene «in terza ruota» dopo Causio e Claudio Sala. C’è gente dalla macroscopica faccia tosta che rimpiange il mancato viaggio in Argentina di Carrera «libero», come se Scirea non avesse raggiunto proprio al «Mundial» una maturità internazionale mai più scalfibile. Si tratta sempre degli stessi coccodrilli, che danzano col fazzoletto in mano su Olanda-Italia e guardano la pagliuzza nell’occhio altrui, dimenticando le travi che li acciecano.

La Nazionale ha recitato una parte nobile. Fossi Bearzot, schiererei per la partita di sabato gli uomini rimasti in panchina o in tribuna. Una platonica finale per il terzo-quarto posto può trovare nei protagonisti di sei lunghe e fulgide battaglie animi scaricati, oltreché muscoli infiacchiti. Accadde allo stesso Brasile del ’74, che fu «toreato» appunto dai polacchi. Entrino i «granatieri», dunque, e si tolgano la voglia di misurarsi con i vari Toninho. Non è un suggerimento tecnico, ma un’impressione, molto personale ed emotiva. Siamo arrivati al «quia». Non possiamo però ignorare alcuni protagonisti divertenti. Prendi ad esempio il centravanti austriaco Krankl, o amico: è venuto al «Mundial» sostenendo che doveva e voleva «mettersi in vetrina e sul mercato». Ci riesce alla perfezione facendo secchi in dribling quattro uomini della stessa lingua, però tedeschi, e manda a casa Schoen e i suoi ex-campioni con tre «pere» in saccoccia e le solite lamentele sull’assenza di un Beckenbauer (come se noi rimpiangessimo Rivera).

C’è poi il signor Deyna polacco, un regista della razza «fioca» che ben conosciamo: sbaglia rigori, passaggi, tiri in porta, ma è inamovibile anche per il signor Gmoch dal muso che sembra uno scarpone alpino (ma sfondato). Questo Deyna imbroccò un tiro, nella sua vita: contro di noi a Stoccarda quattro anni fa. Da allora comanda e sbaglia. C’è poi il «piccolo caso» Bellugi, che ha fatto scatenare gli avvoltoi alla ricerca di scandali, perché il forte stopper è stato rimesso in piedi con iniezioni. Ma chi riporta la frase di Bellugi? Fu lui a dire: «Voglio giocare, non me ne frega niente di sbregarmi la gamba per un mese o due mesi. Ho tutta l’estate per guarire». Su questa faccenda e su iniezioni curative e toniche che vengono usate da tutti i medici del calcio, si cerca di zappettare nuove polemiche.

Abbiamo perso con l’Olanda, ma si. Abbiamo perso con gente che sforna squadre di altissimo livello da almeno sei o sette anni. Abbiamo giocato con uomini affaticati, certamente. Enzo Bearzot studiava questo «affievolirsi» da almeno una decina di giorni. Ma se cambi squadra cambi schemi, se inverti posizioni snaturi la manovra, se sostituisci troppe pedine rischi di mandare in barca il «collettivo», privato della sua memoria acquisita. Ma sì, bisognava portare Novellino. Bisognava portare anche mia nonna, il cui futuro sposo sbarcò proprio in Argentina oltre cento anni fa (e non vi fece denaro: dev’essere un destino di famiglia). Ho scritto per giorni e giorni: non vinceremo questo «Mundial». Ho ripetuto a destra e a manca: cadremo tra la quarta e la quinta partita. Appena capitò la Germania nella quarta, mi corressi dicendo: cadremo alla sesta. Così è stato e l’aver avuto ragione — malgrado i sogni volontaristici e coscienti — non mi consola, però dimostra realismo.

Dice una canzone argentina: «Me gusta la sopa – se la galina es gorda (cioè grassa) – Me gusta mas la sirvienta – si la padrona es sorda». Abbiamo avuto la gallina grassa, e non la «sirvienta», ma chi fa dramma stia lontano da noi, o lo riceveremo con pallonate alla Haan. Comunque finisca tra azzurri e brasileri il bilancio dell’avventura argentina è già un tesoro: ha fornito spettacolo, ridestato entusiasmi, smentito gli untori, cacciato i profeti del malaugurio, ha dimostrato la concretezza e la futuribilità della nostra pedata, ha sottolineato che un lavoro onesto può ancora trovare sbocchi. Sta dunque allegro, o tifoso italiano, e ricorda che solo quattro anni fa, dopo Stoccarda, eravamo tutti dei fantasmi, tu, noi critici, i «punteros» azzurri. Il precedente «mondiale» ci aveva cancellato dalla scena. Oggi la storia ha mosso altre ruote, dipende solo da noi impedire a uccellacci notturni e professori seduti di intralciarle coi loro bastoni.

Mi sia consentito un salto da palo in frasca, ma l’aneddoto è talmente bello (e naturalmente autentico) che non posso ritardarlo. Riguarda Sergio Segre, politologo comunista, considerato anzi il «Ministro degli Esteri occulto» in via delle Botteghe Oscure, un uomo molto preparato e simpatico. Anni ed anni fa giocò anche lui una partita. Volendo indossare da sempre la maglia della sua adorata Juventus, cosa fece? Respinto da ogni squadretta per manifesta incapacità, scopre che v’è un torneo per sordomuti, e che un certo «undici» avrà proprio i colori bianconeri. Detto e fatto, riesce a farsi infilare in squadra, a gesti. Ma al primo calcione che riceve sul campo gli scappa un tale urlacio blasfemo che l’arbitro, allibito, ferma il gioco e lo espelle, per manifesta infedeltà al «cartellino».

Torniamo al nostro «Mundial» che felicemente va ad agonizzare. L’Olanda, se non viene ubriacata da dosi eccessive di «argentinidad», potrà diventar campione. Se lo meritava già a Monaco. Ed inoltre i veri ricchi sono gli unici a non rimetterci mai. Se invece perderà il confronto, si tulipani i mangeranno i gomiti molto più di noi, e senza anestesia. In questo caso per quel che ci riguarda, e dati i festeggiamenti babelici di Baires, noi poveri riprenderemo a dormire mercoledì venturo.