Giovanni Arpino: Cronache Argentine

24 giugno 1978: A sbucciar l'arancia

Se non vinci, sei solo. Questa è l’aria che tira all’«Hindu Club», dove si aggirano pochi giornalisti a caccia di una battuta, dove non compaiono torme di fotoreporter, critici stranieri, ciurme televisive. Avessimo battuto l’Olanda, qui sarebbe il caos, magari arriverebbe il sorridente Kissinger, incuriosito e scortato. E’ il destino di chi fa sport, lo ha conosciuto Cassius Clay e lo ha conosciuto Eddy Merckx, figuriamoci se non capita alla «banda Bearzot» anche se questa stessa squadra è tra le prime «grandi» del mondo. Ma ti hanno spremuto come un limone, e adesso ti lasciano lì, mezzo rinsecchito sul piattino, con due noccioli di oliva e il bicchiere dell’aperitivo ormai vuoto. Avanti un altro.

Dicono gli argentini che domenica «andranno a sbucciare un’arancia» e pensano allegramente agli olandesi, che a loro volta temono di essere «impacchettati» da chissà quale arbitraggio. Noi rispettiamo molto la volontà dei biancocelesti, il pepe rabbioso che mettono in ogni incontro, la tensione agonistica che li anima, e più di ogni altra cosa ci commuove il tripudio popolare, anche se ci leva il sonno. Ma in qualsiasi angolo del globo, questa stessa squadra argentina non avrebbe superato il turno iniziale: doveva pareggiare con la Francia, è stata favorita con l’Ungheria, ha regolarmente perduto contro gli azzurri, ha pareggiato con il Brasile, ha rischiato l’osso del collo con una Polonia più che mai «cicala» in fatto di gol regalati, ha maramaldeggiato su un Perù che gli stessi idoli «Incas» condannano alla vergogna. E tuttavia l’Argentina è finalista. Può darsi che sbucci davvero quella «arancia» olandese, anche se la partita sarà aspra. Giocassero a San Siro o ad Hong Kong non scommetterei un «peso» sui biancocelesti.

Qui, è un’altra storia, un altro clima, un altro mistero balistico e pallonistico. Qui il «Mundial» si è rivelato una incredibile faccenda, che rafforza il governo e risveglia un popolo, facendolo rifluire in massa verso una meta, una «ragione vitale». Davanti a simili vicende, anche l’incallita sapienza tulipana potrebbe smarrirsi: il football vive perché ingiusto, attrae perché ingiusto, come sostengono alcuni teoreti del mondo pelotero. Baires festeggia clamorosamente da mercoledì sera. Non si dà requie, non risparmia il fiato, non molla un istante di strombettare e creare nuovi ingorghi. Il tassista ti dice che rinunzia volentieri alla corsa, non ha il coraggio di fendere masse così compatte. Poi sfodera una sua bandierina, chiude il tassametro e ti molla lì, sui due piedi.

Nei meandri dell’albergo Sheraton la discussione per scegliere gli arbitri di oggi e domani è durata ore: forse non sono bastate le bilance del farmacista, ci è voluta una mediazione del segretario dell’Onu. Anche gli italiani d’Argentina si sono fatti argentini: a Baires sono un milione e mezzo ancora con passaporto italiano. Dicono che l’Italia è la madre ma l’Argentina è la moglie. Si apprestano a seguir le vicende finali del «Mundial» con una commozione senza pari. In queste ultime ore il titolo è reincarnazione e atto di fede nell’eternità. Per chi ricorda le notti folli del Messico nel 1970 non esistono più termini di paragone: in Messico fu carnevale e fenomenica caciara, non un rituale che diventa religioso, con una vena di fanatismo dolce ma invincibile.

Avrei tanto voluto non andare al «River», questo sabato. Avrei tanto voluto guardare la finale tra terzi e quarti con un occhio solo, abbandonato in qualche caffè. Invece mi tocca trasportare le ossa ancora una volta sugli scranni e seguire trepidando gli azzurri racimolati da Enzo Bearzot. E’ un destino gramo. Se battiamo i brasiliani tutti diranno che abbiamo perduto chissà quale occasione precedente. Se veniamo battuti, temo che l’immagine del lungo film trasmesso dalla «banda Bearzot» si deteriori nella memoria sempre labile e insoddisfatta dei tifosi. Ma il dovere comanda, e bisogna obbedire: per piacere, professor Bettega, inventa un paio di slalom, serviranno persino a quei falsi profeti che ti dicono esangue, che ti vogliono barellato.

L’Olanda mi ha levato una gigantesca soddisfazione personale. Mi ero ripromesso, al novantesimo minuto della lotta tra tulipani e azzurri, di alzarmi in piedi, affrontare la metà delle tribù critica ostile e cinica e speranzosa nel disastro e urlarle in faccia: «Scribi e farisei, fuori dal tempio», o forse avrei usato termini meno casti e più incisivi. Mi sarebbe bastato un pareggio, grazie al quale saremmo stati eliminati ma invitti. Invece il signor Haan infila quel missile a triplice direzione (ha cambiato traiettoria pur andando a duecento all’ora) nel «sette» di Zoff, e mi sono rimangiato ogni parola. Racconto questa faccenduola proprio per onestà. L’avrei taciuta, in caso contrario e se avessi avuto il dono di sfogarmi. Quindi mi confesso e abbozzo, anche se vorrei — un paio di volte al giorno — dimettermi non dalla professione, ma dall’obbligo di recitare la parte dell’essere umano.

Ormai la stanchezza comincia a creare guasti nel giudizio, frantumando gli argini dell’obbiettività, gli argentini danno eccessiva importanza a una certa Ornella Vanoni cantante che a Baires elogiava questo Paese ma appena è tornata in Italia ha sparlato dei costumi e della vita «porteria». Te lo rinfacciano le persone più disparate (qui tutti leggono i giornali). Ed ogni volta è certo un esemplare impeccabile della nostra «intellighentia». Ma il malinconico, laborioso argentino ne soffre ugualmente, non vuol persuadersi e se ne va, voltandoti le spalle per soffocare educatamente il dispetto. Gli onesti, tra noi, non parlano più delle traverse colpite da Bettega contro l’Ungheria, dei gol che non abbiamo segnato alla Germania, delle occasioni sprecate in area olandese. Non parlano nemmeno più dei falli di Rep, che è entrato in campo con chiarissima licenza di infierire sugli arti altrui.

Ciò che è stato è stato, in un «Mundial» i bocconi dolci costituiscono solo un rimedio ideale per disintossicare il palato e lo stomaco che hanno subito amari pasti. E intanto Benetti brontola: «Se quella cartellata che hanno inflitto a me, piegandomi in due, l’avessero rifilata a qualcun altro, costui sarebbe all’ospedale». Non dimenticheremo l’arbitro Martinez, spagnolo, di un’eleganza da bullo delle «ramblas». Ogni «fischietto» non può non possedere una certa dose di sadismo. La dose di Martinez è rara: infligge un’ammonizione a Romeo (e poi a Tardelli, i due già «colpevoli») pochi minuti dopo la botta tremenda subita dal giocatore azzurro, per un fallo non certo omicida, e tutti noi vediamo il nostro «panzer» smarrirsi. In quel momento preciso, a te gagliardo ed elogiatissimo combattente della possibile finale nel «Mundial» hanno levato la patente. Tu, in ogni caso, non ci sarai. Al binocolo ho visto gli occhi di Romeo farsi liquidi, smarriti.

E tiriamo un velo (o non tiriamolo affatto) sulle «giacchette» che con astuzia infernale colpiscono sul «tavolo diverso», non direttamente: in funzione biancoceleste? Potrebbe risultare una calunnia, e allora come non detto. Va bene così? Torniamo pure al «River», vediamocela con questi brasiliani un po’ folli un po’ assatanati e sempre presuntuosissimi (Nelinho, ad esempio, assicura che non esiste al mondo un giocatore che valga il suo dito mignolo, lo dice a ogni pie sospinto). Torniamo al «River» dove, dopo deboli coretti d’incoraggiamento e qualche applauso rituale, sentiremo ululare invece le quattro sillabe di «Argentina».

Proprio così. Mentre tu stai giocando, sputando fiele perché hai al fianco un avversario che ti preme e ti sgomita, mentre la milza ti pesa e la palla maledetta fila davanti a te, mentre ti proteggi col braccio, ma schermandolo perché l’arbitro non lo giudichi falloso, mentre cerchi di difenderti deviando la coscia in modo da mantenere la corsa ma sbilanciare un poco — se Iddio vuole — il nemico, le immense curve colorate del «River» ignorano il tuo sforzo segreto, la tua lotta per il pallone, il tiro, i soldi, la conservazione dello stinco. Ecco infatti quelle curve che si perdono nel coro «argentino» anche se tu che corri sei Bettega e l’altro che ti contrasta è Rep. Da quelle curve seguitano ad invocare un sogno, per ora incompiuto. Se tu sei Scirea e appoggi il pallone all’indietro per Zoff o altrettanto fa il nero Amaral per il portiere brasilero Leao, esplodono immediati concerti di fischi. Questo disimpegno è accettato solo quando lo compie Passarella per il portiere argentino Fillol.

Anche questa è febbre da «Mundial», stravolgimento del giudizio che fino a pochi giorni fa distingueva, per equilibrio, gli sportivissimi «portenos». Oggi il feticcio del titolo ha allungato la sua ombra ovunque, e altera atteggiamenti, riserve mentali, raziocinio. C’è stata una luna gelida nel cielo di stamane, prima dell’alba. Era sottile come una sfoglia, una sacra particola che nessuno avrebbe meritato per comunicarsi. Poi è tornata la pioggia e Baires, come sempre nei giorni più invernali, mostra il suo volto rugginoso. Sulle «avenidas» marciscono cinque centimetri di cartacce, gettate dalle finestre durante le celebrazioni popolari. Sono pagine di quaderni scolastici, di fogli protocollo d’ufficio, rotoli igienici, fazzoletti usati, coriandoli irregolari nati da un miliardo di lacerti scovati nei cassetti, negli armadi, nei bagni, nelle cucine. E’ come se un incredibile mostro avesse vomitato i suoi budelli color fantasma. Con tentazioni conventuali, andiamo al «River».