Giovanni Arpino: Cronache Argentine

25 giugno 1978: Tra nostalgia e argentinidad

«Guarda come sono conciato — mi dice Enzo Bearzot apparendo in giacca blu —. Mi hanno travestito da capitano di marina. Sarà perché debbo affondare con la nave». Ma ride verde, non ha ancora digerito — forse non ci riuscirà mai — la partita con i «tulipani». E’ quasi sera, siamo andati a trovarlo Accatino, Perucca ed io, non in delegazione ufficiale de «La Stampa», ma per salutare l’amico che ormai deve far le valigie. All’Hindu Club si sgombera, nella stanza c’è Gigi Riva che allinea palloni «Tango» per i nipotini, ne ha una serie infinita, e ci sono i vecchi Mumo Orsi e Luisito Monti, in visita per nostalgia. Non si dà pace, Bearzot. Rifà, dentro e fuori di sé, quella partita che ci costò l’ammissione alla finale.

E’ la prima volta in vita mia che lo sento criticare un arbitro, il bullo e cinico e ingiusto Martinez spagnolo. Quando Zoff viene colpito al volto (e un portiere è intoccabile, soprattutto quando è già a terra col pallone), quando a Benetti per poco perforano la milza, quando Zaccarelli viene trapanato al ginocchio mentre la palla è altrove, quando Bettega subisce un «trattamento» da tortura in cinque o sei occasioni e in ogni parte del corpo, quel «seiior» Martinez è sempre rimasto a guardare. Lo ha riconosciuto e sostenuto anche Trapattoni. Gli azzurri svolgono un «tema», per mezz’ora in attacco, che risulta il migliore del Mundial. Poi comincia la rissa, la colpa nostra è solo di non aver «ingrigliato» altre due peruzze. Comincia la caccia all’uomo, i «tulipani» sono giganteschi e assuefatti, riescono a superare ogni loro precedente.

«Ce volevo io, ce spacavo due o tre genocchias», digrignava Luisito Monti dalla sua faccia tutta rughe arrossate, che mi ricorda l’Augusto Manzo del pallone elastico. Già, per il vecchio «eroe oriundo» delle nostre aree negli Anni Trenta, anche il leggendario Sindelar, centravanti-cartavelina dell’Austria, una «figura» stampatasi nei tempi, non poteva fare molto. Luisito «soffiava» un suo sospiro a labbra appena dischiuse, e Sindelar pigliava regolarmente il largo. «Un Mundial vuole hombres. Chi è più fuerte porta via pallone a chi è più debole. Claro?» ripete Monti. E Orsi: «In un Mundial, però, quando si ha l’oportunidad di una palla-gol, due uomini soli in area, non si deve sbagliare, Anche questo è claro», fa, e pensiamo tutti all’attimo in cui Causio si fa soffiare la palla dall’ultimo olandese rimasto. «Vieni a spaccare me, avrei detto — brontola ancora Monti —. Vieni aqui a spaccare me, muchacho».

E Bearzot che rimugina: perché in squadra abbiamo appena un tre-quattro uomini adatti al combattimento puro, gli altri sono nati «solo» per giocare, non sono «signorine» ma pensano prima al gioco, poi ad allungare i bulloni. Anche se Zac, poco dopo, mentre stiamo uscendo, ci mormorerà: «Se capita un’altra volta, mi porto un mitra». Un’altra volta, ma quando? Enzo Bearzot sostiene, ed ha ragione, che questa nostra squadra aveva diritto, per patenti di gioco, alla finalissima. Non l’ha ottenuta. Sappiamo benissimo che in un Mundial non puoi andare oltre un certo traguardo minimo senza protezioni. Diciamo: senza tutela, escludendo ogni altro tipo di parola o atto ambigui. Già il «vecio» si addolora il doppio, e confida: «Il mio è un lavoro disumano, forse impossibile ad una persona sola. Se penso ai preparativi per il campionato d’Europa nell’80, non so che dirmi. Dovremmo allenarci in Scandinavia, volare in Italia per la partita e ripartire subito per la Scandinavia dopo il novantesimo minuto. Saremo assediati da turbe critiche e tifose, ogni lavoro diventerà impossibile. Non viviamo nel “calcio di Stato”, noi»

Non c’è altro da dire, altro da speculare, altro da commentare. La realtà dei fatti è una, nuda e cruda, bisogna solo accettarla. Anche se questa Nazionale formata dai nostri «fratellini» ha tirato fuori dai suoi visceri un piccolo «miracolo all’italiana» che ricorda quelli compiuti dal lavoro e dalla voglia e dall’inventiva al momento del «boom economico», questo dovrebbero capire i tifosi, prima di accanirsi sul pelo nell’uovo, questo solo dovrebbero tener caro nella memoria. Siamo alle ultime battute argentine, un tango che ormai fa stridere le corde della chitarra. E per ascoltare un paio di questi tanghi arcaici rinunciamo, almeno una sera, al sonno indispensabile, dato che si lavora al lume dell’alba, qui, per i fusi orari. Eccoci dunque chiusi in una vecchia stamberga rappezzata, con gli amici, e sul palchetto i suonatori si apprestano a esibirsi. La sala è piena di donne anziane, di uomini incravattati, qualche turista.

Si beve vino o poltiglia di frutta. I suonatori sono d’una vecchiaia eccezionale: panciuti, logori, gli occhi acquosi, uno pare la controfigura di Tanassi, un altro di Fella, un terzo è Cristopher Lee prima che gli spuntino i denti di Dracula. Sviolinano, sgangherano il «bandoneon», cantano con voci catarrose, e il cadente locale (è il «Viejo Almacen», vi si possono fare le prime ore del mattino) sembra il ventre della balena di Pinocchio. Tutti vogliono il bis C’è una nostalgia portata al «triunfo». Tutti sono commossi, applaudono, rimpiangono. Tutti pretendono «bis» che vengono pomposamente concessi, e sul tavolo trovo sparso un cartoncino che elenca i meriti di questo o quell’ interprete. Per una cantante che non resiste ad infilarsi entro un completo di seta rossa attillato benché abbia sessanta primavere, il cartoncino dice: è stata felicitata dalla sua maestra di arte scenica. Per un chitarrista dal muso di Toro Seduto, capo indiano, sostiene: il parroco del suo paese sempre lo elogiò per la bravura e la disposizione cristiana.

Scoppierei in singhiozzi. Bruno Perucca, per non ridere, nasconde la testa sotto la tovaglia. Ma forse la colpa è nostra. In un Paese che va dal Tropico del Capricorno all’Oceano Antartico e che ha una storia cosi breve, «tenersi ai rami» di un passato è indispensabile medicina. Qui nasce una «Argentinidad» quasi commovente, patetica, che è di per se stessa Medioevo e Rinascimento e Risorgimento e fedeltà ai miti delle città d’una volta, delle «Pampas», della vita rurale, del pionierismo. Lo ritroverò, questo omaggio al mito, ad una esposizione agraria, tipica di Baires. I tori allineati sembrano locomotive, le mucche faitrici hanno le proporzioni di un autobus. Lustri e pettinati come spose. E le madri accompagnano i bambini a guardare questa ricchezza, questa imponenza.

Tutti restano immobili e silenziosi davanti all’immensa mucca, ai fianchi del toro mostruoso, con quell’atteggiamento che hanno i contadini delle Langhe quando rimirano l’uva matura — se ne stanno lì ad osservarla senza spostare il piede, muti — con la reverenza che il bonzo rivolge alla ciotola del riso, con la religiosità dell’agricoltore che accarezza il grano maturo: perché in lui vede la vita da mangiare e che restituirà vita nuova. Poi arriva Heriberto Herrera, con la sua faccia da indio occhialuto e il passo militare. Offre al alcuni amici un concertino tenuto da un complesso paraguagio. Allora assistiamo, bevendo troppo, al miracolo del tango, della polka «campesina». Lo compirà un ragazzo, di nome Angel Garcia, che «tocca» la chitarra come un mago. Ha un volto buono e ilare, ridesta i suoni della foresta paraguagia, i canti degli uccelli, i vuoti su cui si muove la luna di Tucuman. Lo credo un dilettante, abbiamo tutti desiderio di abbracciarlo per simile bravura e lui risponde, quieto: «Devo andare a Montecarlo, mi ha invitato un italiano sulla sua nave per una festa».

Siamo alle solite: il tipico milanardo esentasse con panfilo lo ha catturato per rallegrare gli amici con i gorgheggi pizzicati che sanno di «guarany», di cespugli foschi, di stridi tra le foglie. Viaggio pagato, qualche milioncino in tasca, e Angel arriverà chissà dove, dopo Montecarlo. L’ultimo atto sta per sollevare il sipario, il «River» attende l’ondata del tifo biancoceleste, per fortuna le curve non possono avvolgere i portieri tra i pali in rotoli di carta igienica, com’è accaduto altrove. C’è la pista dell’ atletica a proteggerli. Andiamo a vedere se gli olandesi sono già stati messi in condizione di far da torelli davanti alla «muleta» e se gli argentini di Menotti hanno le virtù così eccezionali e irresistibili dimostrate durante l’incontro con quel grandissimo, invincibile Perù. Andiamo a vedere come se la cava Gonella, scelto dalla commissione, come al solito spaccatasi in due, che non ha voluto Klein perché ebreo e un arbitro russo perché è russo. Guardate dove va a finire la saggezza dei reggitori d’un Mundial. Andiamo al «River» per quello che in una corrida si chiama il «lercio de la muerte». Né biancocelesti né olandesi sanno chi dovrà cedere, piegando i ginocchi sotto i colpi della «suerte» e i fischi del signor Gonella (chissà Michelotti come se lo studierà). Il cielo è grigio, Baires lascia trapelare tensioni dalle crepe dell’attesa. L’aria è da mille e una notte, anche se qui i «muezzin» portano la divisa.