Giovanni Arpino: Cronache Argentine

30 maggio 1978: Per adorare il Dio Pallone

Raccatto le mie quattro ossa, vi incollo sopra i pochi polpastrelli utili, il «mundial» è categorico, non ammette diserzioni. Dopo trentun ore di volo o di ossessive soste aeroportuali, dopo dodicimila chilometri di viaggio, ecco Baires colorata da un autunno dolcissimo, che diventa fresco al calar del sole. La gente scruta con curiosità la strana fauna umana approdata in questa metropoli senza confini per adorare il «dio pallone». Centinaia di bambini giocano nei prati dando vita agli aquiloni. Saluti, abbracci, auguri speranzosi fra vecchie volpi che ormai sanno tutto della «pelota», vista in Messico, in Germania e in mille altri angoli del globo. Tornano discorsi che mostrano anch’essi le rughe. Se Rivelino stesse bene, ad esempio, visto che lamenta dolori al piede sinistro. Se i tedeschi avessero ancora Beckenbauer, se gli olandesi potessero schierare Cruijff, se le nostre nonne fossero state delle suffragette e così via. Anche il calcio ha una sua filosofia alta ed una bassa: la prima la interpreta come spettacolo sociologico la seconda cura la mossa tecnica, gli scambi di pedine. Ma nessun Platone e nessun Pitagora passeggiano fra queste lande.

Raduno nella mia cuccia argentina le ossa dolenti (ma basta una dormita per tirarsi su, mica mi lamento) e subito m’investe il coro della tradizione italiana. Riguarda Enzo Bearzot e gli azzurri. Dicono le voci del coro, e contemporaneamente, una addosso all’altra, una confusa nell’altra: gli azzurri sono morti; gli azzurri sono cadaveri squisiti; gli azzurri hanno terribile fila; gli azzurri non ce la faranno. Gli azzurri, invece, ce la faranno: noi ottimisti pensiamo che durino fino alla quarta o quinta partita, noi realisti pensiamo che anche l’ultima gara di allenamento contro il Deportivo non conti granché (c’era gente che non voleva rischiare, altra che non voleva picchiare, solo il pubblico pretendeva corrida: ma chi, in un «mundial» nutrito di cinismi, pensa davvero al pubblico? Non scherziamo).

Onesto Tarzan Bearzot è rauco, ha avuto un po’ di febbre per il fresco traditore della sera. Gli regalo cioccolatini torinesi, che si rallegri. E’ concentrato e attento. Ha tenuto in piedi la sua ciurma dando prova di conoscenza e di rispetto per ogni componente. Se cambierà — con Cabrini, ma non è una sorpresa, e con Graziani sostituito da Rossi — ciò dipende da una ennesima valutazione di uomini e momenti. Pare che lo stesso «Tarzan» Graziani, con grande onestà, e pur denotando progressi, abbia detto: «Sarebbe meglio non contare troppo su di me, almeno in questo inizio». E’ una frase — se vera — di tale rarità che andrebbe incorniciata e gigantografata: altro che i «divetti» smunti di lontane stagioni, che strillavano alla buona forma e poi inciampavano nei propri bulloni.

Ho avuto un lungo e serrato colloquio con gli amici del nostro stesso giornale, qui a Baires. Accatino, Caroli, Bernardi, Coscia, Perucca, invocati a consulto, sentono palpitare minuscole speranze, o forse soltanto fiutano un minimo vento favorevole nelle tre gare del girone. Se ci sbaglieremo, dunque, ci sbaglieremo in massa: anch’io la penso come loro, pur continuando a guardare dove metto i piedi.
Parlare di un’Italia «malata» è d’obbligo, figuriamoci se deve essere escluso da queste «malattie», vere o presunte, proprio il club azzurro che rappresenta i nostri destini pallonari. E’ una storia fatta di «se», e precisamente: se Tardelli non pretende di zappare a tutto campo andando in debito di ossigeno dopo venti minuti; se Bettega riesce a sfruttare in pieno la sua intelligenza tattica e il suo ritrovato momento di vena; se Paolino, malgrado il numero spropositato di gare consumate nell’anno, ha il guizzo rapinoso del gol che gli è proprio.

Come dite? E’ una montagna di «se» da scalare? Giusto, per questo infatti siamo al «mundial». E siamo anche in pochi, solo centosei i giornalisti «inviati» italiani. Faccio un confronto: il giornale brasiliano «Globo», che possiede anche una stazione radiotelevisiva, ha destinato alla «Copa do mundo» centoventi individui, tra tecnici, giornalisti, speaker, fotografi, e riempirà ore di trasmissione oltre alle sei pagine quotidiane sul giornale: roba da uscirne completamente folli. Bastano gli uomini del «Globo» brasileiro per impestar coi loro sigari mezza Baires. I cronisti alla ricerca dei personaggi che «fanno titolo» masticano amaro; certi «personaggi» sono tutti invecchiati, i giovani — soprattutto quelli che giostreranno in brache corte — non possiedono ancora la qualità del fascino.

I brasiliani non vantano divi, lo stesso Rivelino è un campione (terribile anche, per la cattiveria) ma non dice una sola parola capace di colpire, gli altri non mostrano le attrattive, talora in negativo, di chi li ha preceduti nello squadrone gialloverde. Come trovare un Garrincha? Quando la squadra si radunava per il piano tattico della gara, Garrincha veniva lasciato libero di andar nella giungla a salutare una delle diverse mogli indie e i mai ben contati figli. Il suo intelletto veniva valutato zero. Poi lo schieravano all’ala, il Brasile conduceva il gioco, Garrincha si muoveva secondo estri e mosse di iguana, ed era gol, il suo. Oggi c’è molto scientificismo, se non proprio scienza. I sudamericani hanno appreso le nostre lezioni europee, e noi certo non abbiamo assimilato le loro doti. Ma il «mundial» spera in ogni caso — questo è il traguardo — di spezzare gli apparenti equilibri e dar la stura al vino buono: che quattro anni fa risultò di bottiglia olandese e polacca, anche se vinsero i «marpioni» di Franz Beckenbauer.

Buenos Aires strombetta, tossisce dagli autobus che sembrano le scatole dell’auto-scooter ingigantite, per via dei musi variopinti. Buenos Aires vede la gente ballare fino alle cinque del mattino, se è festa o vigilia di festa: nei locali si danno gomito ferocemente per uno «shake» e poi si ricompongono per il rito religioso del tango (ma esiste anche un teatro dove gli attori recitano continuamente il tango come danza comica: è cosa ritenuta blasfema e tollerata solo perché nella mentalità spagnola anche la corrida può subire sfregio, ed esiste appunto la corrida comica, quasi sempre condotta da nani all’apparenza giocosi ed invece turpi, cattivissimi). La prima guardia che incontro ride. Sbilancia l’arma che gli pende a tracolla e mi chiede un distintivo azzurro. Domani, «e io qui l’aspetto, domani», seguita a ridere la guardia. Le addette al centro-stampa sono gentili ma inflessibili, se uno non ha con sé una qualche carta da presentare, ma anche tristi.

Perché Baires non è certo una città lieta: ricorda la Madrid di trent’anni fa, ha brividi europei in angoli imprevisti e traffico caotico che può essere messicano o napoletano, tra sterrati e baracche, grattacieli e vicoli bui. Azzardosi cultori della critica sudamericana hanno paragonato Antognoni a Cruijff, la qual cosa risulta oscena agli orecchi di chi ancora possiede pudore. Ma la critica di questa gente è assai diversa dalla nostra: esalta, elogia, tuona per ogni individuo, per poi denigrare, abbattere e disintegrare la squadra. E’ un concetto tenorile, che nel mondo di lingua e di caratteri spagnoli dura da secoli e che si riflette con precisione in football, alla faccia di ogni valutazione realistica.

Per adesso sono riuscito a cavarmela. Possedevo una minuscola chiave discorsiva, adatta a far fronte alle domande. Se mi vien chiesto: come giudica Rossi? o Antognoni? o Tardelli? o Vogts? o Deyna? Io prontamente rispondo: non è Gardel. Il che fa aprire larghi sorrisi negli argentini di turno. Mi spiego: Gardel non è certo un pedatore. Fu, tra gli Anni Trenta e Quaranta, il più straordinario interprete canoro del tango. Morì in un incidente quando stava per trasferirsi verso allori hollywoodiani. E’ l’argentino mai morto, che costituisce un punto di riferimento dialettico e globale, che anche oggi, quando si fanno statistiche, risulta la figura più celebre del paese, a distanza di due generazioni. Vi sono circoli, riti, cineteche, feste che riguardano sempre e solo Gardel. Per designare il valore diverso, minore, talora trascurabile e comunque non paragonabile d’una cosa è obbligatorio dire: «Non è Gardel». Puoi essere anche un nume, ma non Gardel. Anche questo «mundial» non è Gardel. Vedremo di giorno in giorno se sarà in grado di attenuare il giudizio. I giochi della «suerte» sono ancora nascosti nel mazzo delle carte. Chi blufferà per primo?