Giovanni Arpino: Cronache Argentine

3 giugno 1978: Mela e bistecca stando in tribuna

Forse ci vorrebbe Federico Fellini. Ogni continente ha la sua Rimini e quindi il suo «vitellonismo», naturalmente secondo proporzioni diverse. Mar del Plata centuplica quelle caratteristiche che Fellini scavò nella provincia e negi inverni di mare. Infatti la città argentina è piaciuta subito agli italiani, «inviati» o turisti. Vi si adagiano come in un gran ventre affettuoso, subiscono il ventaccio ma gradiscono le passeggiate, il clima da « far niente », le trattorie dove, mischiato al riso, il polipo a fettine sembra il braccio di un gigante da fumetti. Qui Buenos Aires pare lontanissima, un luogo frenetico di cui gli stessi marplatcnsi chiedono notizie con curiosità. Naturalmente tutti ti interrogano a proposito dell’Argentina. Ti piace? Cosa ti piace di più? Io, invariabilmente, rispondo: la cucina. Non sono un vitellone (purtroppo. E so benissimo come il «vitellonismo» consoli e riempia chi lo coltiva spontaneamente, anche se fa ridere gli altri) e non sono neanche un mangione. Ma mi scappello davanti alle bistecche, faccio profondi inchini alle mele, il cui profumo ignoravo ormai da trent’anni.

Ieri ho informato Enzo Bearzot di un dolce che alla sua inappetenza cronica e alla sua golosità zuccherina è indispensabile: si chiama «panqueque», è una specie di frittata di mela coperta di zucchero caramellato. Assaggiatolo, Bruno Perucca ha avuto le lacrime agli occhi. Il dottor Fini si è precipitato nella cucina degli azzurri per farlo preparare. Non vorrei venir travisato, queste sono le consolazioni (magari più morbide) che hanno sempre avuto gli uomini in trincea. Al di là di bistecca e mela, bisogna star con gli orecchi dritti, viaggiare come spolette, inseguire notizie e anche l’ombra degli avvenimenti. La sosta a tavola è concessa solo una volta al giorno, si procede a caffè e panini, e cioè un caffè di tipo ferroviario e bocconi di pane con qualche lacerto salsiccesco.

Ma sono ben altre le cose che — per un attimo — incantano: le «caracoles», cioè le conchiglie. Tra le più belle del pianeta, siano del Nord siano dell’Atlantico, oppure certe piccole scoperte che ti rivelano, attraverso strane fessure, la verità del Paese. Ad esempio: mi dicono alcuni esperti che nelle pianure verso la Patagonia vi sono lepri che hanno le zampe posteriori piccole come quelle anteriori. Nei secoli la specie è degenerata, quindi la lepre corre come il cane e viene fucilata in modi persin troppo facili. Il calcio tuttavia urla, tempesta, pretende spazio. La cerimonia dell’inaugurazione ha avuto aspetti anche patetici, con quei ritmi ginnastici compiuti da centinaia di ragazzi. Ma guai a criticarla: tutti ne sono orgogliosissimi, e vista la partita tra campioni tedeschi e marpioni polacchi il discorso degli argentini si sposta su quella cerimonia, giudicando il football assai «malo». Ma no. E’ solo calcio mediocre e cinico, come prevedevamo (qualche lettore se lo ricorderà di certo) in vista del «mundial».

Il «tempo giocato» è il minimo, se non c’è ferita si tende subito al «nullo» per evitare sfregi reciproci, soprattutto in un girone privilegiato qual’è quelo dei tedeschi e dei polacchi, che non intendono certo correre rischi e passeranno il turno in pantofole. Io ho goduto solo due secondi di calcio vero: una serpentina di Lubanski, purtroppo non capita al volo dal compagno che poi ricevette l’«assist». E naturalmente ho ammirato il vecchio scimmione Maier, portiere I teutonico, che non ha perso un filo del suo genio e della sua capacità acrobatica o di posizione. Sarà calcio di squisiti e orrendi equilibri, al «mundial». Lo sappiamo. Suonano nelle trombe solo i vecchiardi che debbono lustrare le loro glorie passate (vere o presunte) e che si ergono a giudici per sfruttare il palcoscenico.

Sto parlando di tre bei tipi, cioè Herrera, Di Stefano, Lorenzo. Scrivono su un giornale argentino certe banalità che se uno di noi le mettesse in carta verrebbe licenziato di brutto. Ma loro, dall’alto dell’arteriosclerosi critica, non si curano di certe ragioni, gli basta batter la grancassa, pestar acqua nel mortaio. Il povero Di Stefano è diventato un armadio a tre porte, Lorenzo squittisce come un uccellacelo notturno, ed H.H. si spreca in illusionismi parolai. Gli manca solo il cono con le stelle ricamate in testa, come ai maghi dei baracconi. Ma il pubblico argentino tutto manda giù purché sia calcio. Quindi anche H.H. può far mostra di sé, levarsi gli occhiali, ridere, farsi fotografare con il piede su un pallone. Che tristezza. E che desolazione: perché l’unico attacco dell’ex mago è stato portato al Club Italia. Di tutti lui parla con toni roboanti, dal Perù all’Iran, però si riserva veleni per il pallone italico, che gli procurò gloria e denaro (troppo).

Le sue critiche a Bearzot sono da querela, lo ha riconosciuto persino Omar Sivori, che odia H.H. Di tutto cuore (a proposito di Sivori: è grigio e quasi austero, ormai. Abbiamo viaggiato con lui in aereo venendo da Baires, tutti sanno la paura tremenda che coglie Omar quando è in volo. Per consolarsi in qualche modo, con tipica «agudeza» contadina. Ad un tratto ha esclamato: «Ma ora che me frega, aereo mica è mio se precipita»). E’ bellissimo il modo in cui giornalisti italiani e abitanti argentini di ogni condizione entrano in colloquio: improvvisamente ciascuno scopre lontani modi dialettali, dal triestino al piemontese e parole entrate nel gergo comune. Sugli spalti degli stadi il grido «spaccagli la gamba» è urlato da argentini che non conoscono più la lingua originaria italiana, però hanno mantenuto incuore l’invocazione, come la parola «nonna» o il saluto «ciao» . Epiteti volgarissimi diventati quasi affettuosi vengono recuperati da chi conosce il friulano o il veronese.

La pagina di un giornale, scritta in italiano, ha un aspetto maccheronico straordinario. Sembra di leggere o, anzi, di assistere, a una conversazione tra i De Rege, Macario, Nino Taranto e Goldoni tutti frullati e versati nella scodella. La spiegazione è semplice. I padri e i nonni e i bisnonni degli attuali otto milioni d’argentini con sangue italiano, sono sbarcati qui privi di tutto, anche di una lingua «madre» , e possedevano solo i singoli dialetti, che hanno fatto crogiuolo e ora gettano germogli antichi, corrotti dall’uso ma verdi e belli e godibili (uno scrittore come il nostro caro e scomparso Carlo Emilio Gadda se la godette davvero per i modi gergali argentini: chissà che il suo accanito, ossessivo polilinguismo nom sia nato almeno dall’esempio di questa matrice naturale).

Torniamo alla pelota, beneamata o meno. Via via che passano i giorni gli argentini si sentono sempre più sicuri di poter mettere le mani sul titolo mondiale, mai raggiunto nella loro lunga storia di giocatori maestri, ma obbligati a emigrare per far soldi. I brasiliani brontolano e giudicano difficile l’impresa. Lo sforzo del Brasile (cinquanta milioni di dollari per «mostrare» il campionato a sé e al mondo, solo dal punto di vista telegiornalistico) è arduo. Secondo me gli argentini vogliono batterli marchiandoli anche con vergogna, cioè raggiungendo il massimo della soddisfazione e della vittoria. C’è una frangia critica brasiliana che dice: solo un «loco» , un matto, può fare il commissario tecnico da noi. E gli argentini sorridono, malignamente: se Coutinho è sconfitto, come farà a rientrare attraverso la dogana del suo Paese? Il meglio della verità è nascosto. Come le radici che reggono l’albero. Dice il verso d’un sonetto argentino.

A poco a poco scopriremo le radici di questo «mundial» , ma ci vuole tempo, contraddizioni ed equilibri si annullano l’uno nell’altro, le strategie sono ancora coperte, il coltello è piantato sotto il tavolo e talora — con la partita tra tedeschi e polacchi — mon viene estratto. Il duellante sa quando deve osare alla disperata. La situazione è tipica, qui direbbero che è una «situacion tanguera» , cioè classica, sul filo del rasoio, un aquilone che si regge tra bave di vento quasi impercettibili. Mi fanno pena certi inglesi, doveristicamente impegnati a narrare i casi altrui. Esclusi per la seconda volta dal massimo torneo di calcio, si sentono dei maestri privi di cattedra: la contestazione che li ha buttati fuori dall’aula fu legittima, le colpe dei «leoni» sono state colossali, però ci toccherà anche vedere Tunisia e Iran, ahimé, data la dilatazione ecumenica del «halun».

I giornalisti inglesi vanno dappertutto, interrogano tutti, annotano ogni dichiarazione e ogni opinione, dicono «thank you» a pie sospinto, ma con sguardi verdognoli. Bisogna capirli, dobbiamo capirli soprattutto noi, che li abbiamo eliminati senza tante cerimonie. Ah, che tristezza, ponderando bene il significato di un «mundial»! Senza i «bianchi» manca una fetta di gloria e un esempio di classicità. Oggi, se fossero presenti, godrebbero sicuramente dei favori del pronostico. Ma il loro generale che li condusse a perdizione, Don Revie, si nutre di petrodollari: dovrebbero levargli la cittadinanza. Mi dice un inglese: «Una volta perdevamo solo le battaglie, mai le guerre. Il mondo va proprio alla rovescia. Cercate di fare un pochino di strada almeno voi, per consolarci». Parliamo davanti a una carta del pianeta. Non so perché, ma tutti i Paesi hanno una forma geografica che ricorda la geometria. Solo il nostro stivale no. E’ così lontano, così buffo, così piccino. Sembra il legno da cui Geppetto deve ancora estrarre il futuro Pinocchio.