Giovanni Arpino: Cronache Argentine

4 giugno 1978: La Banda è più matura

Negli ultimi dieci minuti, non ce la faceva più. Masticava sigarette sotto la tettoia che ricopriva la panchina. Avesse obbedito al suo impulso, sarebbe corso via. Perché anche Bearzot è un uomo, anche il «vecio» può subire uno sgambetto nervoso. In quegli ultimi dieci minuti, mentre Bettega ribatteva un pallone di testa, mentre Causio rovesciava un altro pallone verso la metà campo, mentre Gentile ruggiva come un leone e Paolo Rossi, stremato, faticava a rialzarsi dopo una caduta, il commissario si sentiva invecchiare. Anche lui. Temeva una cosa sola, non il pareggio, non un colpo di scalogna a trenta secondi dalla fine dopo quello che aveva ferito gli azzurri a trenta secondi dall’inizio: temeva che il «modello» di squadra disegnatasi ottimamente si disintegrasse e pagasse domani, dopodomani, la delusione. Perché le fatiche le cancelli e le dimentichi solo vincendo.

Non sono andato ad abbracciare Bearzot, alla sera. Non abbiamo bisogno neppure di guardarci, tra di noi. L’ho lasciato gustare la vittoria e magari commentarla con i suoi ex-nemici. Mi sembra giusto, no? Avremo tempo per ricordare i particolari di questo esordio argentino, di quel dannato Six che fugge come un’antilope, crossa, beffa Gentile Bellugi Scirea, serve Lacombe ed è gol. L’Italia perde dopo quaranta secondi, e tutti naturalmente credono sia disfatta perenne. Io ho detto solo una cosa a Bruno Bernardi, che mangiava la matita accanto a me: «Qui termina la sfortuna di Enzo». E Bernardi ha risposto: «Meglio quel gol subito che alla mezz’ora». Tifosi e masticatori di calcio, eliminate almeno, in virtù di questa prestazione azzurra, un luogo comune: quello che in calcio viene definito il «colpo a freddo», grazie al quale una squadra non solo non reagisce nei successivi ottantanove minuti ma si crea un alibi. Gli azzurri hanno vanificato una banalità molto usata nel gergo sportivo, ed anche questo è un dono da tener presente.

Gli argentini impazzano, i brasiliani hanno musi lunghi come sempre, i messicani come faranno a tornare a casa? Dovranno radersi la testa troppo crinita, dovranno chiedere asilo politico presso qualche tribù india: perdere con la Tunisia è stata la loro incredibile Corea. Diceva la gente: «A quest’ora Bourghiba sta dettando telegrammi e a Città del Messico qualche tifoso si butta dal balcone». Non riusciamo neanche più a mangiare. La famosa bistecca, dati gli orari, è sempre al di là di una partita, di una manifestazione che divide la città, di uno sbarramento spontaneo e festeggiante. C’è chi si è messo in testa che il mostruoso bisteccone ingrassi. Sarebbe troppo proteinico. Speriamo di vendicarci domani, giornata di mezzo riposo. Mi leverò il cappello un’altra volta, davanti al chilo di carne che mi sbattono nel piatto, gridando: a noi due (se ti raccomandi caldamente per aver solo un filetto, vieni guardato male, come se sputassi sul pane fresco, e giudicato un «enfermo»).

Dove sono i nemici di Bearzot? Chiusi negli alberghi, a dettar elogi e frasi commoventi. In calcio puoi sempre contare sulla scarsa memoria del buon tifoso. Ma naturalmente tutti «correranno a correggere la vittoria», come ho anticipato nei giorni scorsi e come ho detto al «vecio». C’è chi fa solo la prova del nove, in critica pallonara, e mai l’operazione che dovrebbe precederla. Ma lasciamo perdere questi salami nostrani ed arcaici, godiamoci il momento senza lanciar urla selvagge verso l’avvenire, perché realisti fummo e realisti restiamo. Il clan si diverte. Bellugi stila «menù» comici: ad esempio insalata in salsa peperonace e «avocad» Grassi Azado. Forse troverà qualcosa anche per Lacombe, il centravanti francese che rispetto al nostro stopper è un nano però l’ha gabbato di testa alla perfezione.

E’ un clan che rispettiamo molto. Ricordate le «Chinagliate» del ’74? Ebbene, gli stessi sobillatori sono sempre qui, girano caninamente per strappare a questo o quel giocatore una frasetta incauta, da inchiodare con titoli a nove colonne. Ma gli stessi giocatori hanno deposto ogni acrimonia, semmai la possedevano, e gli avvoltoi rimangono a becco asciutto. E’ una dimostrazione di maturità anche questa, da parte della «banda azzurra» solitamente preda di velenose polemiche e di scandali tanto veementi quanto stupidi. Vogliamo portare un solo esempio: uno dei massimi quotidiani italiani, alcuni giorni fa, ha pubblicato che Bearzot avrebbe promesso una notte amorosa come premio ai calciatori. Giungono telefonate indignate dall’Italia, Bearzot resta stupefatto. Ma come si fa a non conoscerlo? A parte la sua virile pudicizia, a parte il suo senso del decoro e della rispettabilità, come puoi — tu che scrivi e tu che leggi — ritenere un gruppo di uomini d’oggi, tra i venti e i trent’anni, simile ad un branco di istupiditi stalloni? Come puoi immaginare di spingerli verso la femmina che attende nei boschi? Sono «fumettate» degradanti, che costituiscono insulto massimo per gente seria, per professionisti del calibro di Zoff o Bettega o Rossi. Ci sarebbe da ridere, ma anche da prendere in mano una ramazza e dargliela in testa, a certa gente.

Toh, chi si vede. La fidanzatina di Paolo Rossi, che ha un viso gentile e timido, quasi si nasconde. Vive lontana dal ritiro azzurro, ogni tanto la si vede con il presidente Farina, che ha il baffo felice e sprizza gioia da tutti i pori. Sta dimenticando il «debito». Saluta con effusione e partecipazione amici e conoscenti, può darsi che domani venga riconosciuto come un genio della finanza, chissà. Mi diverto infinitamente a fare l’umile. La pioggia degli elogi scroscia molto più forte dei temporali mattutini che squassano l’Atlantico e tracciano in cielo disegni leonardeschi. A chi vede l’Italia campione o almeno seconda, dico: ma no, grazie, non è possibile, la nostra riserva di benzina durerà fino alla quarta o quinta partita. E poi, l’Ungheria, che ha preso questa botta orrenda, avrà denti da vampiro, può rivalersi solo su di noi, Rossi e Bettega permettendo.

Ma intanto mi rivedo nella memoria i volti degli azzurri esaminati attraverso il cannocchiale prima della partita: pallidi, cerei, gli occhi fissi, durissima la grinta di Cabrini, l’unico con un’espressione ironica e serena è proprio il «Paulin» Rossi. L’inno francese dura i minuti giusti, quello italiano vien troncato prima delle note che corrispondono nel coro alla parola «vittoria», qualcuno tocca amuleti e fa corna, sembra un avvertimento. E ancora vedo gli ultimi uomini, undici, che sgobbano sul campo di Mar del Piata. No, non sono giocatori. Mentre noi barbelliamo dal freddo e urliamo agli stenografi che sadicamente ci raccontano anche della bella estate italiana, quegli undici trapiantano erba. Il campo è uno sfacelo di zolle zappettate dai piedi di Six e di Benetti. Portando carriuole a ritmo continuo, gli undici giardinieri operano innesti, praticamente inceronano la «pelouse». Roba da Barnard e clinica chirurgica. E sento ancora negli orecchi un giudizio di Enzo Bearzot che dice: «L’animo di un giocatore lo vedi soprattutto negli allenamenti. Perché è qui che devi fare cose sgradevoli, mica quel che ti piace. Se sei sinistro devi adoperare il destro, se sei debole di erapa devi perfezionare l’elevazione, e così via.

Ad esempio: se la palla esce dal campo, un giocatore voglioso corre subito a prenderla, quel piccolo sforzo in più non lo compie certo a pagamento. E’ in queste minuzie che vedi l’uomo, che noti il carattere, la disposizione, la grinta interna». Sembrano cose da nulla, ma il calcio, soprattutto quello aristocratico del «Mundial», poggia proprio su queste annotazioni oscure, su questa base sommersa dell’iceberg. Il resto è «soltanto» partita, cioè la conseguenza, cioè la cima dell’iceberg, sulla quale è facile lanciar fulmini o giudizi immotivati e privi di conoscenza. «Adieu, monsieur Hidalgo», con sinceri complimenti per la carica che la sua squadra possiede e che ci ha onorato, consentendoci una battaglia da antica Crimea. «Adieu» e grazie: ho molti amici in Francia che giuravano sui «coqs» e che da oggi mi debbono decine di «Pernod». Rischierò l’etilismo, ma di certo non ne rifiuterò uno solo.