Giovanni Arpino: Cronache Argentine

5 giugno 1978: Un Bearzot inconsolabile per la vittoria

Le voci sono rauche per i venti oceanici e gli urli spesi nei telefoni con l’Italia. In certe ore non bastano sciarponi e cuffie, il freddo diventa tagliente e subito dopo un sole luminoso muta i contorni del cielo, solitamente percorso da nuvole color sabbia, color carbone, color cenere. I nuvoloni nerissimi, che risucchiano gli spazi e chiudono l’orizzonte, si chiamano «chaparrones» e riescono perfino a divertirci per la violenza fulminea, per le scariche. Il bollettino meteorologico di Mar del Plata non potrebbe mai essere letto da uno di quei puntigliosi mezzibusti televisivi che ben conosciamo: qui oi vuole un fantasista, un acrobata delle intemperie, un trapezista dell’infinita varietà climatica. Non intendo certo evitare argomenti calcistici. Fatto sta che il clima danneggia, appesantisce, delude e deprime i superbi brasiliani, riducendoli a una frittata gialloverde assai gradita al palato svedese.

Ma che dire del signor Clive Thomas giudice del confronto tra gli uomini di Coutinho e quelli di Ericson? E’ un arbitro giovane, gallese, puntigliosissimo, abbastanza noto per la sua bravura internazionale. E’ un addetto commerciale, ma secondo i brasiliani deve covare un «Landra» nel suo animo. Con perfidia e sadismo, al novantesimo minuto, lascia che un giocatore sposti tre volte la palla per il corner che costituisce l’ultimo pericolo nei riguardi della Svezia. L’uomo tira, fa compiere una straordinaria parabola rientrante al pallone, mentre questo sta per essere colto al volo e messo in rete, il signor Thomas fischia la fine. Non gol annullato — come certo saprete dalla trasmissione televisiva — ma gol non valido, oltre il tempo massimo. Se non è fiscalismo, se non è rigidità prussiana questa, suggelliamo la bocca per sempre. Il coro di «hijo de puta» scatenato subito dopo dai tifosi brasileri, beffati e furenti, non è possibile descriverlo.

E così la sottile goduria argentina, che si era già espressa in urla di «Forza Svecia», inimmaginabile a un oceano e due mari di distanza. Vedere nelle peste il Brasile, è per ogni argentino un vellicamento senza l’uguale. Povero Brasile. Manda in giro Pelè che ormai recita la parte del proprio monumento, naturalmente guadagnando soldi per la ditta — le lettere del nome che contrassegna il «rey» devono essere diventate una sigla, sotto la quale si nascondono chissà quanti «trust». Ma la sua faccia buona sa ancora guardarsi intorno stupita, rassegnata, gentile. Tante altre facce, invece, appaiono straordinariamente cattive in questo «Mundial». Ho notato grinte di zingari, di indios, di meticci, di girovaghi, di ultracriniti, di gitani orgogliosi o paurosi, di mezzisangue che mostrano i segni e i simboli di mille incroci. Rivelino, se non vince, diventa una specie di sbuffante randagio crudele fino al coltello. Kempes fa l’imperatore se appena imbrocca un passaggio. E tutti, quando cadono, sanno mostrar ghigni orrendi di finto dolore, perché sono consapevoli che in quell’attimo le telecamere li inquadrano in primo piano. La furbizia del superprofessionista sportivo è un’altra forma — ancorché vitale — di difesa e di «reclame».

E in campo? Volano sputi, insulti, epiteti di ogni sorta in infiniti dialetti. Un Larsson svedese grugnisce contro un Edinho che lo ripaga a calci e parolacce: per fortuna non godono di interprete. Finirebbero a duello subito. Altrettanto accade tra tunisini e messicani, tra austriaci e spagnoli, tra olandesi e iraniani, all’insegna di un agonismo che non è fatto solo di muscoli e ossa e fiato ma di vocabolari blasfemi e di turpitudini che coinvolgono madri e nonne. Piove ogni quarto d’ora, negli autobus ci si assiepa senza trovare il respiro, Baires è lontanissima, un altro mondo. Sui mezzi pubblici è sconsigliato il viaggio a donne incinte e alle persone con le caviglie fragili. Ogni duecento metri le strade sono interrotte da cunette che sprofondano a triangolo, per moderare la velocità (in Messico usano chiodi grossi come meloni, e subisci sobbalzi da trapanazione cranica). Qui, invece, rischi la fuoriuscita dell’ernia, o una distorsione dei legamenti. I giornali bombardano di immagini e notizie e commenti e vanità pallonare. Tutti copiano tutti gli altri, in una sarabanda che non finisce mai. Pochi hanno il pudore e la fedeltà di credere ai propri occhi. Chi vi racconterà, o amici, di certe bottegucce che ci sono a Mar del Plata?

Di una, almeno di una, vorrei farvi cenno. E’ un piccolo, pulitissimo quadrato, dove la proprietaria vende gomitoli di lana, carta da lettera, detersivi e «golositas», cioè caramelle e cioccolata (il termine «golositas» è davvero seducente, non vi pare?) sul fondo della botteguccia, tre grosse sedie da barbiere, con relativa mensola che allinea pennelli, saponi, rasoi, forbici, pettini. Ma il barbiere non c’è, arriva qui dentro dopo le cinque di sera, è occupato in un altro lavoro, e rade e taglia solo per integrar la giornata. Chi ha pazienza, aspetta, mangia una «golosità», scrive una lettera, legge un giornale di sei mesi fa e chiacchiera con la vecchia padrona, che è molto gentile e allegra.

Torniamo a noi. Le notizie di pura euforia che giungono dall’Italia commuovono ma preoccupano. Enzo Bearzot fu mandato a quel paese (eufemismo) solo poche settimane fa, all’Olimpico di Roma, per la prova degli azzurri contro la Jugoslavia, un’«amichevole» forzata dagli impegni federali. Oggi gli stessi tifosi pretendono da Causio, insultato a sangue quasi come Bearzot, che vinca il «Mundial». Chi vi parla, oggi, amici, della solitudine di Enzo, del nostro «vecio»? Perché la sua qualità o forse il suo vizio d’uomo è questo: che sa resistere alle fatiche, sa sopportare le sconfitte, ma è inconsolabile quando vince. Ho detto e ripeto: inconsolabile. Tanto da farsene un problema personale, tanto da dubitare dell’uomo come creatura ospitata da questo nostro strano pianeta. Lui è schivo, non vuole elogi, semmai riconoscimenti, ma sente intorno a sé le pretese eccessive nate dalla vittoria con la Francia e le critiche vergognose di chi — come ho scritto mille volte — riesce a «correggere il successo», arrampicandosi sui vetri di argomenti diabolici.

L’Ungheria sarà durissima contro di noi, avverte il «vecio», anche se ha perso i due migliori uomini. E’ all’ultima spiaggia, e Baroti dovrà creare un clima folle per stimolare i suoi magiari. Ebbene: se pareggeremo contro questa Ungheria, che è risultato nobile e sufficiente per passare il turno, sentirete cosa diranno di Bearzot. Da genio strategico tornerà ad essere un caporale di giornata. Questo è il metro di giudizio che usiamo troppe volte noialtri, e bisogna ripeterlo fino alla nausea. Ho incontrato Gigi Riva prima di Brasile-Svezia. Anche lui si ricordava dei momenti in cui ha sostenuto questa nazionale. E mi dice che tutti sono accerchiati da problemi, si tratti di Menotti argentino o di Happel austriaco-olandese, o di Coutinho. Le nostre debbono essere giuste e ragionate speranze, mai e poi mai illusioni. Perché i diabolici, oggi, dopo aver tramutato il cammino del «vecio» e di Tardelli e di Graziani e di Causio in un calvario, sono pronti a voltar pagina e pretendere il titolo mondiale. In saccoccia hanno già la rivoltella pronta: dobbiamo, con un colpo alla Mandrake, trasformargliela in pistoletta ad acqua.

Non vinceremo il «Mundial». Siamo qui per onorarlo, per imparare, per misurare determinate forze, comprese quelle fisiche residue. Siamo qui per sfruttare certe occasioni, vista la piega che hanno preso gli avvenimenti, i quali sembrano voler sbeffeggiare i maghi e le cosiddette «grandi» della pelota. Mettere tritolo sotto il didietro del Club Italia è un gioco vile e villano, ma purtroppo tradizionale secondo certa critica nostrana che non rispetta né vivi né morti. Teniamo duro e cerchiamo di stare allegri. L’inconsolabile Bearzot è come Fausto Coppi. Finita una tappa, pensava alle montagne del giorno dopo. Ma siccome è ancora al mondo, non può darsi un attimo di pace. Intorno gli turbinano polemiche rabbiose e insolenti, ma gli prestano fede gli amici e quelli che nel- l’onestà e nelle possibilità di questa nazionale hanno sempre creduto, spendendo le parole adatte e non un lattemiele d’occasione.

Una battutina finale un po’ più allegra? Ma sì. A guardarli bene, troppi protagonisti del «Mundial» mi sembrano uomini-sandwich. Hanno venduto per pubblicità persino la suola delle scarpe bullonate: Rivelino l’ha verde, Kempes l’ha gialla. Per non parlare di strisce (due o tre) lungo la manica e le brache. Per tacere della televisione locale che ti inchioda il gol e te lo ripete all’urlo pubblicitario di una bibita gasata. Di sponsorizzazioni segrete o occulte si prospera. C’erano una volta gli uomini pronti a battersi «sotto tutte le bandiere». Oggi ci sono molti peloteri che rischiano la rotula per una calza. Chiamatelo progresso, se volete.