BARBADILLO – BERGKAMP – BERTONI – BONIEK – BOYE’ – BRADY – BREHME – BRIEGEL – BRONEE
Nome da guerriero, piedi da artista: Geronimo Barbadillo, il miglior giocatore peruviano del campionato italiano, ha sciorinato per anni in provincia i colpi del campione. Rapida la sua carriera: a diciannove anni è già professionista con lo Sport Boys di El Collao, squadra dei portuali di Lima. Figlio del grande Guillermo «Willy», stella dell’Alianza Lima, nel 1976 esordisce nella Nazionale giovanile. Nel 1977, dopo due campionati con il Defensor Lima di Roque Maspoli e uno scudetto, si trasferisce in Messico, al Nuevo Leon. In cinque anni vince quattro titoli di Lega e un campionato, giocando 188 partite e segnando 61 gol. Ciliegina sulla torta, il premio come miglior giocatore del campionato messicano nell’81-82. Con la Nazionale peruviana partecipa al Mundial spagnolo, nel quale affronta l’Italia (poi vittoriosa) di Enzo Bearzot: 1-1. Il Perù torna a casa dopo le tre partite del girone eliminatorio, ma Geronimo ha già in tasca il biglietto per l’Italia, destinazione Avellino.
Poche partite in maglia biancoverde per diventare l’idolo del Partenio. Ala dal dribbling ubriacante e dal tocco felpato, la sua costanza di rendimento ne fa un elemento fondamentale del “miracolo” Avellino, contribuendo in modo decisivo a tre salvezze consecutive della squadra irpina.
Ingaggiato dall’Udinese, si conferma ala destra di gran rendimento. Nel 1986 commenta i Mondiali in Messico per una tivù peruviana e, al ritorno, trova la sgradita sorpresa: nonostante le rassicurazioni ricevute prima di partire, il presidente Mazza e il tecnico De Sisti, all’indomani della Coppa Italia, gli presentano il benservito. L’Udinese, condannata a nove punti di penalizzazione per il Totoscommesse 2, ha infatti deciso di affidarsi a Daniel Bertoni. Risultato: una caduta libera in B. Deluso dal trattamento, Bar-badillo, dopo aver cercato invano una nuova squadra, percepisce fuori rosa lo stipendio dell’ultimo anno di contratto e lascia il grande calcio, dedicandosi con successo agli affari. Apre un ingrosso di casalinghi, un fast-food (il «Jerry O’») e un videobar (il “Bahamas”), poi si riqualifica come dilettante e riprende a giocare nella Sanvitese di San Vito al Tagliamento, in Promozione, dedicandosi anche alle squadre giovanili prima di rientrare a Udine come Osservatore.
Olandese, scuola Ajax, Dennis Bergkamp ha incarnato una delle più grandi delusioni dei tifosi interisti.
Il presidente nerazzurro Pellegrini lo soffia nel febbraio 1993 a una agguerrita concorrenza, pagandolo ventisei miliardi all’Ajax di Amsterdam, dove in sette stagioni ha collezionato 187 presenze e 101 reti in campionato, vincendo una Coppa delle Coppe, una Coppa Uefa, uno scudetto e due Coppe d’Olanda.
Arriva con la fama di nuovo Cruijff (il suo scopritore), accompagnato da Wim Jonk, regista che l’Ajax ha preteso di cedere assieme all’attaccante, ma presto la sua avventura nerazzurra si trasforma in un incubo. Mezzapunta senza fissa dimora di ruolo, patisce la collocazione come centravanti e, a dispetto di un ottimo rendimento in Coppa Uefa (con le sue 8 reti trascina l’Inter alla vittoria finale), il suo ambientamento fallisce. Frenato dal carattere chiuso, non riesce ad amalgamarsi sul piano umano con la squadra e la realtà italiana, finendo col diventare l'”oggetto misterioso” dell’Inter, il fallimento definitivo dell’era Pellegrini.
Nel marzo 1995 è il nuovo presidente Massimo Moratti a ereditare l’olandese “vagante”.
Il tempo di chiudere la stagione, trascinata tra esclusioni, titubanze ed errori incompatibili con la sua classe, poi la cessione in Inghilterra, all’Arsenal, dove finalmente mantiene le promesse di inizio carriera. Sulla sua buccia di banana è scivolato anche Osvaldo Bagnoli, che dopo l’esperienza con Bergkamp ha deciso di chiudere anzitempo la propria brillante carriera di allenatore.
Tante attese, non tutte corrisposte, ma anche tanta classe, da campione del mondo. Daniel Ricardo Bertoni arriva alla Fiorentina nel 1980, come la più forte scommessa dei Pontello per fare grande la Fiorentina. Alle spalle, una carriera già ricchissima, nonostante l’età ancora giovane. Ha dato i primi calci nel Quilmes, per poi passare giovanissimo all’lndependiente. Sei stagioni indimenticabili, con l’esordio in Nazionale e un palmares strepitoso: 3 Coppe Libertadores, 1 Coppa Intercontinentale (a diciotto anni contro la Juventus), due campionati nazionali e soprattutto il titolo mondiale conquistato in patria nel 1978 sotto la guida di Cesar Luis Menotti.
Ala potente e tecnicamente raffinata, possiede un palleggio particolarmente incisivo e pure la stoccata dell’attaccante di razza. Suo uno dei tre gol con cui l’Argentina in finale ha battuto l’Olanda. Dal Sudamerica all’Europa, destinazione Spagna, dove nel Siviglia ha messo a segno 24 reti in 57 partite. Accolto a Firenze come il profeta di una nuova era, dopo una stagione a corrente alternata si segnala tra gli stranieri più continui del torneo, trascinando la Fiorentina al secondo posto dietro la Juventus (tra parecchie contestazioni e rimpianti) nel 1982.
Un terzo posto nell’84 chiude l’era delle illusioni dei Pontello, che depongono le idee di grandezza. Bertoni viene ceduto al Napoli, per facilitare l’ambientamento di Maradona: al primo colpo fa centro, disputando una stagione ad altissimo livello. Meno concreto l’anno dopo, così come sotto tono è la sua chiusura italiana, a Udine col suo estimatore De Sisti, nella stagione “impossibile” dei nove punti di penalizzazione, eredità del Calcioscommesse bis.
Zbigniew Boniek arrivò alla Juventus di Trapattoni subito dopo il Mondiale di Spagna, di cui era stato uno dei giocatori più ammirati (4 reti in 6 partite). Pagato (così fu scritto) il doppio di Michel Platini, arrivato in contemporanea, il polacco dai capelli rossi fece parte della Juve più spettacolare degli ultimi anni, con Paolino Rossi e l’asso francese, senza mai convincere del tutto.
Interno-ala dalle travolgenti progressioni, passava da esibizioni trascinanti, soprattutto nelle serate di coppa, a partite appena sufficienti in campionato e per questo lo specialista Gianni Agnelli gli affibbiò il soprannome di “Bello di notte”.
In tre stagioni bianconere vinse uno scudetto, una Coppa delle Coppe (suo il gol decisivo), una Coppa Italia, un Mundialito Club, una Supercoppa Europea (sua la doppietta contro il Liverpool) e la Coppa dei Campioni nella tragica notte di Bruxelles. Dopo tre stagioni passò alla Roma, sacrificato alla grande rivoluzione bianconera. In giallorosso conquistò una Coppa Italia, ma colse anche la delusione più bruciante, quando si spense il sogno della grande rimonta sulla Juventus nel 1986 e Zibì, beniamino della “Romagica”, pianse a dirotto in mezzo al campo.
Mario Emilio Boyé è stato un giocatore d’immensa classe, un’ala destra dal destro al fulmicotone e dalla potenza fisica dirompente, che all’Italia ha purtroppo concesso solo una toccata e fuga. Capocannoniere in patria nel 1946 con 24 reti, Boyé offrì ai tifosi del Genoa una immediata dimostrazione del suo talento, ma venne presto frenato dalla moglie Elsa, avvezza ai fasti a ritmo di tango della vita mondana di Buenos Aires smarriti nella tranquillità del capoluogo ligure (celebre la sua frase: «en Italia me muero»). Fuggì il 22 gennaio 1950, subito dopo la sconfitta per 3-0 patita a Roma. La signora Boyé si presentò nella hall dell’albergo della squadra con suocera e bagagli al seguito; poco dopo, come venne ricostruito, si diresse all’aeroporto di Ciampino, dove assieme al marito si imbarcò su un quadrimotore per l’Argentina. Misteriosi i motivi.
Si parlò della multa per il Natale trascorso in Argentina invece che nel ritiro di Nervi e della convocazione da parte del presidente in una serata da dedicare al cinema: per la signora Elsa era stato troppo.
Rientrato in Sudamerica, monetizzò la sua classe in Colombia con i Millonaios, poi ancora Argentina con Racing e Huracan per poi chiudere a 34 anni con il Boca Juniors.
Irlandese, carattere di ferro, William Brady è stato il primo straniero della Juventus dopo la riapertura delle frontiere. Regista di grande efficacia, non faticò a prendere in mano le redini del gioco bianconero, portando la squadra di Trapattoni all’exploit di due scudetti consecutivi. Giocatore pratico ed efficace, nemico dei fronzoli eppure dotato di classe superiore, dopo due anni fu sacrificato al “gran colpo” di Gianni Agnelli, l’ingaggio di Michel Platini. Già consapevole di essere al passo d’addio, confermò la propria professionalità trasformando con freddezza lo storico rigore contro il Catanzaro all’ultima giornata che diede lo scudetto ai bianconeri sulla Fiorentina.
Mentre la Juve apriva un nuovo ciclo (senza peraltro più vincere due titoli di seguito), William Brady trovava gloria a Genova, sponda blucerchiata, determinando il salto di qualità voluto dal presidente Paolo Mantovani. Insieme a Trevor Francis formò la coppia britannica della Sampdoria neopromossa, guidata da Ulivieri allo stabile ritorno nella massima serie. L’ottimo rendimento gli valse la chiamata di Ernesto Pellegrini, neo presidente dell’Inter, deciso ad avviare col botto la propria avventura nerazzurra e alla ricerca di una mente capace di armare il formidabile “braccio” ingaggiato in Germania: Karl Heinz Rummenigge.
L’accoppiata funzionò a corrente alternata, specie per i guai fisici del biondo fuoriclasse teutonico, e dopo due anni, in mancanza di successi, Brady venne considerato al capolinea.
Si accasò all’Ascoli, ma non fini la stagione: se ne andò l’11 marzo 1987. dopo aver chiesto la risoluzione del contratto (a salvezza ormai conseguita), per divergenze con i dirigenti. Si accasò al West Ham e ancora per un paio di stagioni rappresentò la bandiera dell’Eire. il pilastro imprescindibile dei verdi di Jack Charlton, dove disputerà ben 79 incontri in 15 anni.
Insieme a Lothar Matthäus ha formato una coppia indistruttibile. Insieme a Giovanni Trapattoni ha fatto la storia dell’ultima Inter vincente. Andreas Brehme, terzino sinistro del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, approdò alla corte di Ernesto Pellegrini nell’ estate del 1988, sull’onda dell’ennesima rivoluzione.
Dopo il fallimento dell’operazione-Scifo, il Trap decise che era ora di dotare la squadra di muscoli e garretti e scelse la via tedesca allo scudetto. L’effetto fu devastante: 26 vittorie, 6 pareggi, 2 sole sconfitte, 67 reti segnate e 19 subite, e 58 punti finali che diedero nel 1989 al club nerazzurro lo scudetto dei record.
Provvisto di un fisico d’acciaio e di piedi particolarmente sensibili per un difensore, Brehme occupò la corsia sinistra da autentico campione: fortissimo nel tackle difensivo, inarrestabile nelle avanzate, chiuse con morbidi cross o taglienti passaggi rasoterra inventati dal suo sinistro da centrocampista. Figlio d’arte (il padre, Bernd, aveva giocato nel Barmbeck Uhlenhorst ed era stato ribattezzato “Eisenfuss”, piede di ferro, per aver segnato col piede sinistro liberato anzitempo dal gesso dopo una frattura), era cresciuto nel Barmbeck, la squadra del rione di Amburgo allenata dal padre, poi era passato al Kaiserslautern e in seguito al Bayern, dove aveva vinto subito lo scudetto, dopo aver bruciato le
tappe in Nazionale, fino a raggiungere la finale dei Mondiali 1986, persa contro l’Argentina. Eppure quando arrivò all’Inter molti storsero la bocca: era consideato uno scarto della Samp, che per prima l’aveva trattato, e soprattutto un giocatore in declino, per via dell’ultima, mediocre stagione nel Bayern. Terzino e laterale ambidestro, fu Trapattoni a collocarlo stabilmente sulla fascia mancina, dove il suo rendimento lievitò a vista d’occhio, al punto da migliorarne di molto il contributo alla stessa Nazionale. Con i nerazzurri vinse anche la Supercoppa italiana e la Coppa Uefa e si presentò al Mondiale in Italia nel 1990 in splendide condizioni: conquistò l’alloro iridato trasformando in finale contro l’Argentina il rigore decisivo. Lasciò l’Inter dopo quattro stagioni e qualche polemica di troppo con la dirigenza, ma soprattutto lasciò dietro di sé un vuoto, nel ruolo specifico, difficile da colmare.
I tifosi italiani lo avevano visto ai Mondiali dell’82: fisico possente, corsa scoordinata, calzettoni abbassati. Approdò da noi due estati dopo, al Verona di Bagnoli, quando tutti avevano negli occhi la magra figura rimediata dai “bianchi” agli Europei di Francia. Un acquisto incauto, fu il giudizio più benevolo: Hans-Peter Briegel, difensore puro in Nazionale, non pareva poter offrire molto di più di una sgraziata prestanza fisica.
Da ragazzino aveva coltivato l’atletica, a diciassette anni si era dedicato al calcio, militando prima nel Rodenbach, poi nel Kaiserslautern: accolto da bordate di fischi, soprannominato per dileggio “il gorilla”, il giovane attaccante si era via via trasformato in difensore con licenza di attaccare.
A Verona, la sua metamorfosi si completò: schierato come mediano, sapeva annullare la mezzapunta avversaria (spietata la sua marcatura su Maradona), avviare la manovra con lunghi lanci e ribaltare il fronte del gioco con poderose progressioni spesso concluse da terrificanti ciabattate in gol. Meraviglioso cocktail di tecnica e forza fisica, il Verona vinse il primo e finora unico scudetto della storia. Poi il giocattolo si ruppe, Briegel portò i suoi muscoli alla Samp, dove vinse sui cingoli una Coppa Italia e fece le valige quando si avviava il gran ciclo di Vialli e Mancini.
Scontroso come un principe, leggero come un ballerino, micidiale come un cecchino. Helge Bronée arrivò a Palermo nel 1950, fortemente voluto dal principe Lanza, presidente rosanero che lo aveva visto giocare nel Nancy. Divenne subito il leader della squadra che, a dispetto di un organico carente, riuscì a salvarsi dalla retrocessione. Sapeva disimpegnarsi in ogni ruolo, cambiando posizione più volte nel corso della stessa partita. Partiva da dietro per estrarre la lama del suo palleggio irresistibile e trovare la porta dalla distanza, poi fulmineamente tornava in difesa a fare il terzino. Era l’uomo-faro della squadra, e lo sapeva bene: non faceva nulla per nascondere il proprio disappunto per una facile occasione da rete fallita da un compagno, o per un passaggio troppo lungo. Era capace di fermarsi a centrocampo e incrociare le braccia per ripicca, intendendo: «Guardate un po’ con quali brocchi mi tocca giocare!».
Poi bastava uno dei suoi lampi di genio per stendere tutti, tifosi e compagni, ai propri piedi. Qualche relazione col gentil sesso un po’ rischiosa per la Sicilia dell’epoca indusse la dirigenza a cederlo alla Roma per un piatto di lenticchie. Lo “zingaro del gioco” (così soprannominato per la mancanza di un ruolo fisso) conquistò anche Roma e approdò in pompa magna alla Juventus, dove però la sua incostanza non gli valse la conferma. Chiuse nel Novara, ancora da campione.