Alessandro Baricco: La Partita lunga 30 anni

“…per la gran parte di noi è una emozione in pigiama e vestaglia, piedi freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel che di più simile c’è a un sogno…”

Quando Schnellinger insaccò, un minuto e quaranta secondi dopo lo scadere del tempo regolamentare, io avevo dodici anni. In una famiglia come la mia ciò significava che ero a letto, a dormire, già da un bel po’. Allo stadio Azteca stavano facendo la storia, e io dormivo. Era giugno, il mese in cui ti spedivano dai nonni, al mare, a farti di biglie e di focaccia. Mi immagino mio nonno, solo, davanti alla tivu, fulminato, come Albertosi, dalla palettata di Schnellinger.

Dovette succedergli qualcosa dentro, in quell’istante: forse il complesso di colpa per avermi negato per sempre quell’emozione; forse, più semplicemente, pensò che era troppo solo per sopportare tutto quello. Insomma: si alzò e venne a svegliarmi. L’unica altra volta in cui qualcuno era venuto a svegliarmi nel pieno della notte per portarmi davanti a un televisore era poi successo che un uomo aveva messo un piede sulla luna.Quindi, quando mi sedetti sul divano, sapevo esattamente che non avrei più dimenticato. Messico, giugno 1970, semifinale dei mondiali, Italia – Germania. Per la mia generazione, quella è LA partita: è per la gran parte di noi è una emozione in pigiama e vestaglia, piedi freddi in cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel che di più simile c’è a un sogno.

Lì per lì, la prima cosa che mi rapì fu una stupidata: c’era in campo Poletti. Poletti era l’unico giocatore del Toro che riuscisse a mettere la maglia della nazionale, giusto ogni tanto, quando qualcuno si faceva male. Giocava maluccio, aveva un nome da impiegato e faceva il terzino, cioè niente di poetico: però era del Toro, e per me era come se scendesse in campo mio padre. Lì, all’Azteca, mio padre era padre entrato per sostituire Rosato (un grandissimo, tra parentesi). Passai i primi minuti a cercarlo anche quando era fuori dall’azione, purché fosse dentro il televisore.

Così lo vidi benissimo quando si mise a pasticciare orrendamente davanti ad Albertosi, al 94: la palla se ne rimase lì in mezzo, a due passi dalla porta, come un bambino dimenticato al supermercato: per Müller fu uno scherzo metterla dentro, anche perché era Müller, cioè un tipo umano che poi avrei incontrato infinite volte, cioè quello che sta in agguato e poi ti frega, quello che non lo vedi mai se non nel preciso istante in cui ti sta fregando, quello che la natura si è inventata per riequilibrare il mondo dopo aver inventato i Poletti. Colpetto rapinoso, e 2 a 1 per i crucchi.

A quel punto la partita era finita. Riva respirava come se avesse avuto l’enfisema, Boninsegna insultava tutti quelli che gli passavano a tiro, e Domenghini sciabolava dei cross talmente surreali che per ritrovare la palla dovevano ricorrere ai cani da tartufo. Ontologicamente, la partita era finita. Martellini lo fece capire, con la morte nel cuore e nella voce, a tutti i nonni di Italia, e quindi anche al mio: che disse: a nanna. Mi salvò Burgnich. Cosa ci facesse lui in mezzo all’area avversaria, al 98, è cosa che un giorno gli vorrei chiedere. Probabilmente si era perso.

Sparò il suo ferro da stiro su una palla ignobilmentepasticciata da Vogts (Poletten), e insaccò, incredibilmente, regalando a quella partita un eleganza geometrica sovrannaturale, 2 a 2, i centravanti ad aprire la ferita e i terzini a suturarla, Boninsegna-Schnellinger, Müller- Burgnich, in una splendida metafora di quello che il calcio è, lo scontro tra gente che cerca di far accadere cose, gli attaccanti, e gente che cerca di impedire che cose accadano, i difensori. A ripensarci, era tutto così perfetto che avrebbero dovuto mollarla lì, tornare a casa e non giocare a calcio mai più.

Il 3 a 2 fu calcio vero, di quello che non ha bisogno del Poletti di turno per arrivare al goal. Apertura di Rivera sulla sinistra, non un centimetro troppo lunga, non un centimetro troppo corta, fughetta di Domenghini sull’ala, cross non surreale al centro, e palla a Riva: stop, finta, saluti vivissimi al difensore tedesco, palla sul sinistro, colpo di biliardo sul paletto lontano, rete. Più che un’azione, un’equazione. Dove quei tre abbiano trovato la lucidità di risolverla con quella perfezione dopo 104 minuti di
battaglia è cosa che un giorno vorrei chiedergli.

Era calcio ridotto alle sue linee più pure ed essenziali. I tedeschi non ci capirono niente. Intervistati, avrebbero potuto dire quello che Glenn Gould diceva del rock: “non riesco a capire le cose così semplici”.

Da lì in poi è confusione. Non ricordo più nulla, intorno a me, e questo significa che doveva esserci un gran casino, dentro e fuori casa. E’ strano che io non abbia nemmeno un’immagine in testa di mio nonno che schizza fuori dalla poltrona e, che so, dà di matto sul balcone sparando dei vaffanculo tremendi a gente con cui, dall’8 settembre del ’45, aveva qualche conto in sospeso. Niente del genere. Mi spiace, anche, perché terrei con me volentieri un’immagine di lui felice, incontrovertibilmente felice, lui che era un uomo così pudico nelle sue gioie. Eppure tutto, nella memoria, risulta ingoiato da due singole immagini, che hanno cancellato tutto il resto, come due flash accecanti che hanno spento tutto, intorno. E in tutt’e due c’è Rivera.

La prima è lui abbracciato al palo, un istante dopo aver fatto passare un pallone pizzicato dalla testa di Müller e spedito proprio dove c’era lui, sulla linea di porta, lì esattamente per fare quello che però, all’ultimo, non era riuscito a fare, e cioè interporre un qualsiasi arto o lombo tra pallone e rete, gesto per cui non era necessaria nessuna classe, nessun talento, ma giusto la semplice volontà di farlo, la determinazione di trasformarsi in corpo solido, l’ottuso istinto alla permanenza che hanno le cose tutte, tutte tranne Rivera su quella linea di porta, dove vede passare il pallone e guardarlo è tutto, il resto è un palo abbracciato comicamente e un Albertosi che ti grida dietro domande senza risposta.

La seconda è l’icona massima di quell’Italia-Germania. Rivera, ancora lui, completamente solo a centro area, riceve un assist dalla sinistra (Boninsegna) e tira in porta al volo, di piatto destro. Maier, il portiere tedesco, un mattocchio che sapeva il fatto suo, è attaccato al palo destro dov’era andato a chiudere su Bonimba: si aspettava il solito centravanti che sfonda e poi tiracchia appena vede lo spiraglio; Boninsegna era in effetti il più classico dei centravanti; una sola cosa era logico che facesse: tirare. E invece con l’orecchio aveva visto Rivera, là, olimpico e apollineo, in una radura di magica solitudine nel cuore dell’area: illogica rasoiata in quel punto, palla nella radura, e Maier fuori posizione, fatto fuori da un’inopinata incursione della fantasia nel tessuto di un teorema che credeva di conoscere a memoria.

Rivera e Maier. Tutta la porta spalancata, vuota. Maier lo sa e alla cieca abbandona il palo e si scaraventa a coprire tutto quello che può di quel vuoto. Rivera potrebbe affidare al caso la pratica, scaricando sul pallone la potenza approssimativa del collo del piede, e vada come vada. Invece sceglie la razionalità.

Apre la caviglia (ho visto donne aprire ventagli senza nemmeno sfiorare quella eleganza), e opta per il colpo di interno, scientifico, geometrico, magari meno potente, ma nato per essere esatto: ha un’idea, e per quella idea non gli serve potenza, gli serve esattezza. E’ un’idea fuori dalla portata di un portiere colto fuori posizione e provvisoriamente consumato dallo sforzo animalesco di rientrare nella propria tana prima che arrivi il nemico.

E’ un’idea perfida e geniale: fregare l’animale in contropiede andando a infilare il pallone non nel grande vuoto che sta davanti all’animale, ma nel piccolo vuoto che gli sta dietro: l’unico punto in cui, fisicamente, gli è impossibile arrivare. In pratica si trattava di tirare addosso a Maier, fiduciosi nel fatto che lui, nel frattempo, sarebbe finito altrove. Rivera lo fece. Il pallone passò a quattro dita da Maier: ma erano come chilometri.

Goal. IL goal. Una buona parte dei maschi italiani della mia generazione conserva la memoria fisica di quel tocco riveriano appiccicato all’interno del proprio piede destro. Non scherzo. Noi abbiamo sentito quel pallone, non smetteremo più di sentirlo, ne conosciamo i più intimi riverberi, ne
conosciamo perfettamente il rumore.

E ogni volta che colpiamo di interno destro, è a quel colpo che alludiamo, e non importa se è una spiaggia, e il pallone è quello molliccio sfuggito a qualche stupido giocatore di beach-volley, e in braccio hai un frugolo che pesa dieci chili, e in faccia la faccia di uno che l’ultimo cross dal fondo l’ ha
fatto un secolo fa: non importa: peso sulla sinistra, apertura della caviglia, tac, interno destro: rispetto, bambini, quello è un colpo che è iniziato trent’anni fa, in una notte di giugno, pigiami e zanzare.

Perchè poi tutto questo, chi lo sa. Voglio dire: per quanto bella, era poi solo una partita. Cosa è successo perché dovessimo mitizzarla così? A dire il vero non l’ho mai veramente capito. Mi vengono in mente solo due spiegazioni. Avevamo l’età giusta. Tutto lì. Avevamo l’età in cui le cose sono
indimenticabili. E poi: quella sera, quella partita, l’abbiamo vinta.

Sembra una stupidata, ma sapete qual è la cosa più assurda di tutta questa faccenda? Che se voi citate a un tedesco quella partita, magari con un’ aria un po’ complice, come a condividere un ricordo pazzesco e perfino intimo, beh, quello quasi non se la ricorda, quella partita. Cioè, se la ricorda, ma
non gli è mai passato per la testa che fosse qualcosa di più di una partita.

Anzi, hanno sempre un po’ l’aria di considerarla una partita stramba, folklorostica, neanche tanto seria. Non è un mito, per loro. Non è un luogo della memoria. Non è vita diventata Storia. E’ una partita. Tutt’al più ti citano Beckenbauer che gioca i supplementari con la spalla fasciata e il braccio bloccato sul petto. Come sarebbe a dire? Tu parli di una cena pazzesca e loro ti citano le patate lesse? Non scherziamo.

Tanto quello giocava rigido come una scopa anche se non lo fasciavano, sempre lì a colpire d’esterno, il fighetto, chiedigli un po’ notizie di De Sisti, neanche l’ha visto, per tutta la partita, te lo dico io, ma vattela a rivedere poi ne riparliamo, altro che Beckenbauer, vattela a rivedere, tac, interno
destro, altro che esterno, comunque per me quella partita abbiamo incominciato a vincerla al 91, credi a me, no, che c’entra Schnellinger, dico al 91, adesso tu non te lo ricorderai, ma è lì che si è deciso tutto, cambio dalla panchina, fuori Rosato, dentro Poletti, ti dico che lì la partita è girata, ascolta me, vattela a rivedere se non ci credi… Prego? Ma guarda te, questo non sa nemmeno chi è Poletti…

Alessandro Baricco, pubblicato su La Repubblica, 10 giugno 2000