Beckenbauer: Kaiser anche in panchina

Esaminiamo qui la breve ma intensa la carriera da coach: in nove anni, un titolo mondiale, una medaglia d’argento sempre ai Mondiali, una di bronzo agli Europei e un titolo nazionale di club.

Capita talvolta che i baciati in fronte dalla fortuna non suscitino l’invidia degli dei, come la chiamavano gli antichi greci. È il caso di Franz Beckenbauer, una specie di monumento umano alla perfezione. Da calciatore è entrato nella storia del pallone ondeggiando sul passo elegante, il tocco morbido e l’intelligenza del grande leader. Mediano di classe raffinata, poi libero con licenza di costruire gioco e avanzare, un aedo del calcio collezionista di trionfi, sia con i club che con la Nazionale. Una carriera distribuita tra Bayern, Cosmos e Amburgo, chiusa nel 1982 con l’aspettativa di un degno seguito. Il piglio del leader Io aveva dimostrato fin da giovane e da tempo immemorabile gli allenatori condividevano con lui le decisioni importanti.

Quando la Germania di Jupp Derwall usci ingloriosamente dagli Europei 1984 al primo turno, occorreva una personalità di forte carisma per rigenerare l’ambiente e kaiser Franz venne considerato l’uomo giusto. Non aveva fatto alcun corso allenatori e la sua designazione da parte del presidente federale Neuberger provocò una fiera sollevazione in nome della “licenza” (il nostro patentino) mancante. Il problema venne risolto aggirandolo come si sarebbe fatto da noi, cioè inventando la qualifica di “Teamchef”, un caposquadra affiancato da un allenatore patentato, prima Horst Koppel, poi Holger Osieck.

L’esordio come Ct è ai Mondiali 1986 in Messico, dove la Germania sfiora il capolavoro. Non disponendo di un gruppo di alto livello tecnico, Beckenbauer scolpisce attorno alla roccia Matthäus, giovane mantice di centrocampo, una ciurma ricca di forza fisica e generosità.

Senza velleità spettacolari (l’unico fantasista, Littbarski, viene presto immolato alla ragion di stato), aggrappandosi al minimo necessario, i tedeschi arrivano in finale, dove sono opposti all’Argentina. La dura battaglia si chiude a favore del “pibe” e il Kaiser mastica amaro.

Due anni dopo, alla medaglia d’argento aggiunge quella di bronzo, uscendo dagli Europei in semifinale per mano dell’Olanda, rigore dì Van Basten a un minuto dalla fine. Il 1990, Mondiale in Italia, è la sua ultima occasione: il Kaiser ha già voglia di cambiare lavoro, di trovare nuovi stimoli.

Il pragmatismo appreso negli anni da giocatore ne fa un tecnico prudente al limite del cinismo. Imposta una difesa a cinque e blocca sul nascere i voli di fantasia dell’eccellente esordio milanese (4-1 alla Jugoslavia dei grandi talenti). L’Olanda viene spazzata via negli ottavi al culmine di una corrusca battaglia, la Cecoslovacchia oppone una inutile resistenza e in semifinale contro l’Inghilterra una rigida, condotta difensiva conduce al porto sicuro dei rigori, che concede il via libera.

La finale, contro i fantasmi dell’Argentina del fischiatissimo Maradona che ha eliminato l’Italia, è tra le più brutte della storia. Complice l’arbitro, i tedeschi alla fine alzano la Coppa. Confesserà il Kaiser nelle sue memorie:

«Dopo la premiazione, camminavo da solo nell’area di rigore: ero in trance. Mi stavo separando definitivamente dal calcio. Un addio senza ritorno. Due minuti dopo aver vinto il secondo Mondiale mi sentivo senza più fuoco dentro, senza più passione. Il pallone non è più la mia vita».

Quell’emozione la considera la più grande della carriera:

«Il successo che metto davanti a tutti è quello: otto luglio 1990, il Mondiale da allenatore. Battiti più forti di quelli sentiti nel 1974, quando ho alzato il trofeo dorato sulla porta di casa mia, all’Olympiastadion di Monaco. A Roma l’atmosfera era più densa, la gente ti avvolgeva con passione. Fantastico».

Pochi mesi dopo, un sondaggio lo incorona uomo più popolare di Germania, persino più di Helmut Kohl, riunificatore delle due Germanie. Prima di lui, solo Zagallo era riuscito a vincere il titolo sia da giocatore che da allenatore. La naturale eleganza, la compostezza e la classe ne fanno l’uomo immagine più appetito di Germania, procurandogli favolosi contratti.

Il proposito di non fare più l’allenatore dura giusto lo spazio della notte di festa. Il primo cedimento è di fronte al principesco contratto (sei miliardi l’anno: nel 1990!) offertogli da Bernard Tapie, discusso patron dell’Olympique Marsiglia. Un rapporto poco felice.

«Tapie mi aveva assillato, mi aveva messo fretta. Avessi potuto riflettere una giornata, gli avrei detto di no. Il presidente del Marsiglia ha una visione particolare del calcio e della sua squadra che non coincide con la mia. In estate avevo ricevuto precise assicurazioni sull’autonomia del mio ruolo e le mie mansioni erano state specificate con precisione. Invece, settimana dopo settimana, con frequenza sempre più ravvicinata, gli episodi strani si ripetevano. Volevo andarmene. Lo dissi a Tapie. Lui è stato gentile, ha insistito perché rimanessi, sia pure con un incarico diverso».

Direttore tecnico, da dicembre, con Goethals allenatore, per un rapporto che comunque si esaurisce in fretta. Il kaiser se ne va dopo sette mesi e nel novembre 1991 è il “suo” Bayern a chiamarlo. Franz Beckenbauer è un signore facoltoso senza particolari stimoli. Il richiamo di casa lo riaccende, diventa vicepresidente e due anni dopo, il 27 dicembre 1993, quando la crisi della squadra ne impone la discesa in campo, non esita a risvegliare il fuoco antico del grande tecnico che riposa in lui. Prende in mano la squadra e la riporta al titolo nazionale, con una sicurezza disarmante che ne completa la grandezza di tecnico anche a livello di club.

Diventerà presidente, carica che ricopre tuttora a livello onorario, e qualcuno forse si chiederà se veramente sia stato un grande allenatore senza essere stato un grande innovatore tattico. Ma non dimentichiamo che si è ritagliato una discreta carriera di allenatore, quasi come diversivo sopra le righe dei propri impegni, e vi ha colto, in nove anni, un titolo mondiale, una medaglia d’argento sempre ai Mondiali, una di bronzo agli Europei e un titolo nazionale di club, carica ricoperta solo per pochi mesi. E poi dicono che i grandi giocatori non diventano grandi tecnici.