Beppe Severgnini: Il fascino romantico dell’Inter contro la solidità della Juve

Di Beppe Severgnini – 27 agosto 2000

Tempo fa ho scritto che il mondo si divide in due. Ci sono quelli che amano i gatti, Londra e l’Inter. E quelli cui piacciono i cani, Parigi e la Juventus. Da allora continuo a ricevere proteste. Si lamentano milanisti slavofili, laziali innamorati dell’Argentina, romanisti con un’amica in Germania. Non posso negarne l’esistenza ma, dal punto di viste ontologico, la dicotomia è una sola: Inter-Juve. L’Inter (come i gatti e Londra) è fascinosa e imprevedibile. La Juventus (come i cani e Parigi) è solida e rassicurante. Il resto è contorno.

Ho scritto dicotomia, ma Inter-Juve è di più. È una contrapposizione come Hegel e Kant, Coppi e Bartali, Fellini e Visconti, Usa e Urss, Apple e Microsoft, Beatles e  Rolling Stones, yin e yang, moro Bmw e moto giapponesi. Non si tratta di stabilire chi è meglio e chi è peggio (anche se io un sospetto ce l’avrei), Inter e Juve sono pianeti distanti, che entrano in contatto solo in occasione di una partita, di un’amicizia o di un matrimonio. Allora, qualcosa succede.

Gli interisti sobo romantici, con una punta di decadenza. Gli juventini, neo-classici. Noi siamo idealisti, loro positivisti. Gli interisti sono una nazione dolente (tre scudetti in trent’anni e un Helsingborgs quando non te l’aspetti); gli juventini credono nelle magnifiche sorti e progressive (e spesso vengono accontentati). Nel suo libro Semifinali (Theoria), il bolognese Rudi Ghedini racconta l’educazione di un interista, combattuto tra amori difficili, «notti della lattina» (Moenchengladbach, 1971) e sconfitte col Lugano. È un tanto accidioso, che consola. Ma alla fine l’autore pecca d’ottimismo, il meno interista dei sentimenti. Il libro si chiude infatti con la notizia dell’arrivo di Ronaldo (cui seguirà Vieri) e Ghedini si lascia andare a una leggera euforia. Sapete com’è andata a finire. Come si può perdere un campionato con una coppia d’attacco di quel calibro, quando i rivali schierano Pippo e Alex (non so se mi spiego: Pippo e Alex)? Non lo so. Ma l’Inter c’è riuscita.

Ci sono interisti che sembrano considerare il Milan un rivale e non riesco a capire perché. Il Milan è una squadra allegra, in fondo. Ha un centravanti che fa pubblicità allo shampoo e vince gli scudetti senza neanche accorgersene (anche Bigon e Massaro segnavano i gol così). Il Milan non è un rivale: è un fenomeno naturale. La rivale è, e sarà sempre, la Juventus.

L’intera iconografia bianconera è una delicata provocazione. C’è un understatement tutto piemontese, nella scelta dei simboli. Noi abbiamo un drago; loro una zebretta. L’Inter è la Beneamata (tutti ci vogliono bene), la Juve la Fidanzata d’Italia (in sostanza, non se la sposa mai nessuno). E guardate i colori! L’Inter è mare in tempesta e cielo di notte. La Juventus è dama, strisce pedonali e primi telegiornali. Vederla vincere in queste condizioni è doloroso. Non tutti gli anni, infatti, piove su Perugia.

La generazione che ha sofferto di più è quella nata tra il 1955 e il 1960: la mia. Molti coetanei sono interisti per banali motivi anagrafici. Intorno ai sette anni, l’età dell’imprinting calcistico, furoreggiava la Grande Inter di Helenio Herrera e i bambini — come gli italiani —tifano per il vincitore. Alcuni di noi faticavano a ricordare le poesie di Giovanni Pascoli, ma nessuno ha più dimenticato Sarti Burgnich Facchetti (pausa); Bedin Guarneri Picchi (pausa); Jair Mazzola Domenghini Suarez Corso (respiro). Era un’apnea consolante, multietnica e vincente.

I nerazzurri sono una nazione dolente, i bianconeri positivisti

Non che capissimo di calcio, a Crema, nel 1963. Io ero convinto, per esempio, che Mariolino Corso avesse sessant’anni (pervia dei pochi capelli) e Giacinto Facchetti mi sembrava un olmo sulla strada di Treviglio (ho poi scoperto di esserci andato vicino). Quei personaggi, però, incutevano rispetto. Quando sono entrato a San Siro per la prima volta, ho assistito a Inter-Lazio. Degli avversari ricordo solo il portiere Idilio Cei, che aveva un nome e un volto rubicondo da bidello. Gli interisti erano invece alteri e affascinanti. Se qualcuno mi avesse detto che Burgnich e Bedin rappresentavano la classe operaia del calcio, avrei potuto diventare socialista (a nove anni). E tra Aristide Guarneri (1967) e Taribo West (1997) c’è la differenza di classe che corre tra il duca di Windsor e Vittorio Emanuele di Savoia.

La Juventus era un’altra cosa. Era una squadra che aveva vinto molto in passato (dicevano), ma ormai galleggiava nella media classifica. Aveva un nome latino che sembrava rubato in seminario. L’allenatore si chiamava Herrera, ma Heriberto: era, in sostanza, un’imitazione (come Little Tony di Elvis Presley). Il loro Suarez si chiamava Del Sol: un nome che poteva andar bene a un succo di frutta. Mentre noi vincevamo la Coppa dei Campioni, loro partecipavano alla Coppa delle Fiere. La competizione poteva essere adatta a una zebra, d’accordo, ma mi spiaceva per gli amici del cuore, juventini, che all’oratorio dovevano difendere quel blasone circense. Il fatto di avere in squadra Leoncini, di certo, non li aiutava. Noi avevamo Picchi, invece. Le vette non potevano che essere nostre.

Era facile sentirsi magnanimi, in quelle condizioni: ma non è durata molto. Non ho fatto in tempo a gustare il piacere infantile del trionfo — il lento ingresso in aula dopo la stella del decimo scudetto ( 1966) — che è accaduto qualcosa: l’Inter ha smesso di stupire. Ci sono rimasto male. Era come permettere a un adolescente di baciare una ragazza e poi dirgli di scordarsi della faccenda fino alla laurea.

Ricordo alcuni episodi inquietanti. Il 21 maggio 1967 ascoltavo la radio: il portiere Sarti si lasciava scappare di mano la palla e consegnava un altro scudetto alla Juventus. In estate, Helenio Herrera vendeva Picchi per schierare Landini e Dotti. Un momento di illusione è arrivato con lo scudetto del 1971, ottenuto grazie a Roberto Boninsegna: il tipo buttava la palla in rete in tutti modi, con una cattiveria consolante. Aveva un muso e un nome da cane pechinese (Bobo): ma i pechinesi non segnano in mezza rovesciata. Anche il ’70 era stato un bell’anno. Ai Mondiali in Messico non c’erano quasi juventini. È stata l’Inter (Burgnich, Facchetti, Mazzola, lo stesso Boninsegna) a portare l’Italia in finale, contro un Brasile che avrebbe sconfitto anche la Selezione Celeste. È vero: giocava anche Rivera e veniva dal Milan. Ma non era colpa sua.

Da quel momento, l’Inter ha smesso di vincere e la Juventus ha preso a convincere. Negli anni Settanta il mestiere d’adolescente mi impegnava troppo, perché potessi seguire le vicende calcistiche con assiduità (sebbene non mi fosse sfuggito, a destra della difesa, Giubertoni). Così, ai Mondiali d’Argentina del 1978 (dove l’Italia ha giocato il suo miglior calcio di sempre), mi sono accorto con orrore di tifare per gli juventini. La maglia azzurra era una copertura: sapevo che erano loro. A Buenos Aires, l’Inter mandava Bordon, portiere di riserva. La Juve contribuiva con Zoff, Cabrini, Gentile, Cuccureddu, Scirea, Benetti, Causio, Tardelli e Bettega. Anche Paolo Rossi, che in area accelerava come un’automobilina, sarebbe finito a Torino, di lì a poco.

Una nuova generazione di italiani, nata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, diventava inesorabilmente bianconera. Come spiegargli che sbagliavano? Discutere di calcio coi bambini è già dura; quando vincono, poi, è insopportabile. Lentamente, gli juventini acquistavano la sicurezza dei vincitori (è capitato anche agli americani e a Gerry Scotti). Noi interisti ci siamo trovati a giocare in difesa. Non sul campo, dove eravamo abituati, ma nella vita. Aldo Vitali, autore di “Fregati da Dio”, nel “Folle destino di essere interisti” (Limina), elenca i «Dieci fatti di cui conviene tener conto quando si decide di tifare Inter». Ne aggiungo un undicesimo: nel 1976 abbiamo scambiato il mitico Boninsegna con Anastasi (preparando il terreno per le grandi cessioni masochistiche del futuro: Roberto Carlos e Simeone).

Guardate i colori: noi siamo mare in tempesta, loro sono dama e strisce pedonali

Certo, è arrivato lo scudetto del 1980, vinto con Ambu, Caso e Canuti, che erano bravi ragazzi, ma rappresentavano la quintessenza del giocatore interista di Tipo C: volonteroso e inadeguato. C’era poi il giocatore interista di Tipo B: il campione che, appena mette piede a Milano, imbrocchisce fulmineamente (potrei citare dozzine di nomi, ma mi limito al recente, leggendario Gilberto). Ci sono stati anche giocatori di Tipo A, per fortuna. In quel campionato 1979-80, agli ordini di Eugenio Bersellini, giocavano Bordon, Oriali, Pasinato (antenato morale di Zanetti), Altobelli e il bresciano Evaristo Beccalossi, uno che cercava di dribblare anche le margherite di San Siro, ma ci teneva allegri. Beccalossi, a Torino, dopo il terzo gol sbagliato sarebbe stato trasferito al reparto presse della Fiat. Anche perché loro, in quel ruolo, avevano un certo Platini.

Questo è un nome che nessun interista pronuncia volentieri. Michel Platini era un giocatore di Tipo A Extralusso. Era epico, lirico e accademico: riassumeva le tre caratteristiche del «giocatore musicale» di Vladimir Dimitrijevic (La vita è un pallone rotondo, Adelphi). Ogni interista può sottoscrivere il grido di dolore del già citato Ghedini, piccolo Foscolo nerazzurro: «Platini: il nome dalle conseguenze incalcolabili. Individuato, opzionato, praticamente nostro, aspettavo con ansia la riapertura delle frontiere: poi, nell’estate del 1982, lo vidi finire alla Juve. Come sarebbe stata diversa la mia vita, in una fase decisiva per lo sviluppo della personalità, se quel fenomeno fosse arrivato davvero. Immagino le differenze, l’inevitabile iniezione di ottimismo. Sarei una persona più equilibrata, felicemente inserita nella società». Aggiungiamo che Platini non è l’unico campione che sembrava a un passo dall’Inter e finì altrove. Accadde anche a Bettega e Tardelli, che il presidente Fraizzoli scartò perché «mingherlino». E a Gigi Riva, su cui miracolosamente la Juve non riuscì a mettere le mani, altrimenti la mia adolescenza, già calcisticamente difficile, sarebbe stata drammatica.

Il resto, è storia recente. Albert Camus ha scritto: «Il meglio che ho imparato sulla morale e i doveri degli uomini, lo devo al calcio». Non sono sicuro di essere d’accordo. Sarebbe stato morale (per gli interisti) e doveroso (per la società nerazzurra) vincere almeno uno scudetto, nel corso degli anni Novanta (l’ultimo risale al 1989, con Trapattoni). Magari quello del 1998, quando Ronaldo venne abbattuto in area a Torino, con un fallo così evidente che mi aspettavo intervenisse la Corte internazionale di giustizia che, nonostante il nome, non sta dalla nostra parte.

Non vorrei, scrivendo questo, sembrare uno di quelli che recriminano. Io amo l’Inter e apprezzo la Juve, a modo mio. Credo che «le due squadre siano necessarie alla reciproca fama», come ha scritto Gianni Riotta (interista). Per questo non ho mai tifato contro i bianconeri. Io voglio che la Juve esista e continui a sorprendermi. Mi piace vedere come ogni stagione riesca a pasticciare una maglia che non è mai stata entusiasmante. Adoro scoprire i modi diversi e geniali con cui Del Piero sbaglia gol fatti (ora capisco perché lo chiamano «il fantasista»). Partite come Celta Vigo-Juventus (quattro gol subiti, due espulsioni), invece, mi preoccupano. Che gusto ci sarebbe a rivaleggiare con una squadra così?

Sono stato boyscout, insomma, e credo che le Vecchie Signore vadano rispettate. Le vorrei serene e soddisfatte; contente della pensione e del servizio sanitario. So che non verrò accontentato. La Juventus, solida e rassicurante come un labrador, certamente vincerà ancora. L’Inter, matta come una gatta, vincerà ancora — probabilmente. La differenza è negli avverbi. Come dire: la Juve è un investimento, l’Inter una forma di gioco d’azzardo — l’unica che pratico, da trentasette anni. Ho perduto molto, è vero. Ma mi sono divertito.

Non dicono così, i giocatori, guardando l’alba dalla finestra del casinò?