Beppe Viola: quelli che sanno ridere dello sport

Una cadenza milanese piuttosto accentuata, uno stile disincantato, lontano dalla retorica consueta. E’ Beppe Viola. Per la radio seguira’ soprattutto il calcio e l’automobilismo. In televisione lascera’ il segno per i suoi servizi nella Domenica sportiva…


Giornalista sportivo perché teneva famiglia, scrittore perché sulla carta bianca aveva la stessa classe di Gianni Rivera sull’erba verde, autore e anche attore (“Romanzo popolare”), giocatore (nel senso del perdente: cavalli), barzellettiere, primatista di caffè-e-sigaretta, collezionista di mal di testa: in una parola, genio.

Il 17 ottobre 1982 moriva Beppe Viola: sono passati più di 30 anni da quella domenica maledetta. Cronista sportivo, lavorava alla Rai, come inviato e telecronista, seguendo in particolare calcio, ippica, pugilato e automobilismo. Ha lasciato un segno con un linguaggio disincantato, anomalo, anti-conformista, ricco di humour. E proprio da questa sua vena ironica nasce il Beppe Viola autore. Lavorò con Enzo Jannacci firmando decine di canzoni. Memorabili «Quelli che», adattamento di una lirica di Prevert, e «Vincenzina e la fabbrica» che accompagnò il film «Romanzo Popolare» del quale Jannacci e Viola furono co-sceneggiatori. Viola contribuì al lancio di attori comici di successo come Cochi e Renato, Boldi, Abatantuono e molti altri.

Il ricordo del Viola giornalista e autore lo ha scritto Giorgio Terruzzi (giornalista e autore) che lavorò a lungo con lui. Sono intatti i ricordi, non hanno perso forza le parole, quella metrica tutta sua, scandita dai punti, i due punti. Truman Capote e Damon Runyon nell’ispirazione; Milano, il porfido, il dialetto nella dizione. Una traccia che resta, ripassata dalla malinconia per vent’anni: 17 ottobre 1982. L’ultima cronaca, l’ultimo foglio nell’Olivetti, l’ultimo giorno di Beppe Viola. Per ritrovarlo, ritrovare il suo scrivere che era poi il suo dire, serve uno sforzo, bisogna andare più indietro, cacciar via quella stanza lassù al Fatebenefratelli, quella finestra col serramento in alluminio con Franca e le sue lacrime trattenute essendo le figlie quattro, da avvisare in qualche modo, a casa.

Ecco, prima. Bastano poche ore. C’era la sua stanza alla Rai e un ufficio in una villetta, viale Arbe. «Magazine» si chiamava, per metterla giù un po’ dura con il solito anticipo, «un marchettificio» dove si scriveva attorno a lui, che dava multe se in un pezzo mettevi dentro «sfrecciano», lire 5 mila; «ginocchio in disordine», 10 mila; «il centrocampista va a battere» 20 mila, carta straccia, rifare per favore, dai, su. Insegnava davvero, anche se non lo ammetterebbe nemmeno adesso. Con un rigore non previsto dato il resto, che era un ridere di se stesso, del mondo, a rilancio continuo; che erano notti per bere, raccontare, mettere via facce e frasi rimediate tra l’ippodromo, trotto possibilmente, il cabaret e il Gattullo nel senso dello special, «il panino più caro del mondo».

Non contava la bella presenza, giacchette firmate mai viste, cosa frega, ma sul lavoro occhio, guai a sgarrare. Ritmo, linguaggio, le prime tre righe come uno scavatore e le ultime per chiudere con un guizzo, un colpo d’ala. Giornalismo con ironia e stile, alta qualità. Poi si poteva andare a tirar su l’insalata di pollo in rosticceria o una polpetta alla stazione: valeva il viaggio anche se portava via una settimana di vita a porzione.

Calcio soprattutto, sport sempre, come un serbatoio per fare il pieno e poi planare ovunque, scrivere comunque, tenendosi vicino al marciapiede dove stavano i clandestini con le loro parole in codice, chi metteva su i soldi ed era alla canna del gas, chi viveva di notte al Derby Club, sul piccolo palcoscenico oppure nell’ombra dei tavoli, lasciando i Rolex farlocchi nel baule della macchina o magari, chissà dove, il carico di un tir gentilmente sottratto, composto da carriole in numero di tremila. «Ma a lei, dottore, ci interesserebbe l’articolo?». Raccontava ed era già un pezzo fatto, pronto. Un servizio per la Domenica Sportiva inconfondibile alla terza sillaba.

Beppe Viola e Enzo Jannacci

Con la televisione un rapporto di amore con un odio da maglione stretto, da burocrazia e raccomandazioni. Permaloso, oh sì, anche se poi passava e arrivava un’altra onda, un entusiasmo, una idea. Da dare a tutti, a troppi, gratis ovviamente, al massimo non richiamano. Il suo mondo si è sfaldato dentro la sua città, tra la radica finta dei bar. Non c’è più quella nebbia da Millecento, da immigrati; quell’atmosfera da Romanzo Popolare, Ugo Tognazzi e una giovanissima Ornella Muti, sceneggiato con un’attenzione che fa epoca ancora adesso.

Marciapiede, appunto, da dove venivano «Quelli che», scritti e musicati con Enzo Jannacci, un elenco sterminato irresistibile annotato dappertutto, fogli e foglietti sopra tavoli e scrivanie: «Quelli che mi saluti la sua signora anche se non ho il piacere. Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro. Quelli che appena salgono su un pullman attaccano un coro di montagna». Jannacci e il primo Abatantuono, Cochi e Renato. Comici di professione e comici naturali da beccare attorno a un biliardo, da citare nei giorni cupi, quando arrivava un’ ansia improvvisa e bisognava mettersi lì sistemare i libri, le foto, qualunque cosa, fare un caffè, «mollare la rebonza» e ciao.

E’ stato un umorista, un grande giornalista, uno dal quale imparare il mestiere: etica prima della grammatica. Sudava a febbraio, figurarsi in agosto, fumava sorridendo davanti alla macchina da scrivere, due fogli, carta carbone nel mezzo. E’ andato via presto, si è perso molte cose che non gli sarebbero piaciute e, soprattutto, i suoi amori, la sua famiglia, le sue figlie, che sono grandi adesso e gli piacerebbero moltissimo.

Giorgio Terruzzi

Gianni Brera così commermorò la morte di Beppe Viola dalle colonne de “La Repubblica”

“E’ morto Giuseppe – Bepinoeu – Viola. Aveva 43 anni… Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli… Povero vecchio Bepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato in una corsa. Tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita.
Aveva uno humour naturale e beffardo, un’innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per avere chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore…”

Beppe Viola amava la sua Milano, e in particolare la zona di Via Lomellina, che così raccontò:

“Via Lomellina, in arte via Lomella, era considerata subito dopo la guerra era considerata subito dopo la guerra una zona poco raccomandabile della raccomandatissima città di Milano, città che io amo perché mi ha fatto conoscere il mondo fin da bambino, ma soprattutto perché trovasi a 600 chilometri circa da Roma, posto troppo importante per essere vero.

Via Lomellina dunque, dicevano ci fosse un po’ di teppa, e la voce, a quei tempi, fece il giro del mondo. L’hanno saputo anche i tedeschi e gli americani, i quali da quei puritani che sono hanno pensato bene di bombardarla un po’, con la scusa che vicino a Via Lomellina c’era la ferrovia e c’erano delle baracche. Le baracche erano vere, autentiche, non come quelle che servono agli svizzeri per pubblicizzare i formaggini e che chiamano chalet.

Le baracche di via Lomellina facevano proprio miseria, tanto che un giorno Cesare Zavattini e Vittorio De Sica, sempre a caccia di cose barbonesche, dissero: “guarda che baracche ci sono qui, chissà al cinema come vengono bene”. Fecero Miracolo a Milano e il film girò il mondo fra grandi applausi. Chi ci rimase male fu il Comune di Milano: così, dopo i bombardamenti dei tedeschi e degli americani, il Comune di Milano rase al suolo questa povera via Lomellina, che poi in fondo nella sua miseria non era nemmeno tanto brutta, almeno fino a quando quelli che abitavano le baracche con la banale scusa che avevano freddo, un bel giorno, anzi una bella notte, tagliarono tutte le piante.

Una mattina gli abitanti di Via Lomellina non trovarono più le loro piante e chiesero spiegazioni, ma senza tirare in ballo l’ecologia o Italia Nostra, perché di quei tempi la parola ecologia non era stata inventata, e l’Italia era più loro che nostra… Adesso Via Lomellina è tutta cambiata, non ci sono più bombardamenti da un po’ di tempo in qua e allora la gente ha potuto mettersi su un po’ in grazia di Dio, tanto è vero che ci sono perfino i supermercati, i parrucchieri per uomo e signora (le scuole no, quelle non ci sono ancora), boutiques come se piovesse.

Al posto del carbonaio di una volta c’è la boutique con la moquette, il suo telefono con il quale si può telefonare in tutta Milano, il mobile bar in modo che quando uno può comprare una camicia si può avere il wisky gratis, nel senso che la camicia che costa diecimila gliela fanno pagare quindici. Insomma è diventata una via di signori, tanto che se uno almeno una volta al mese non va in giro con la carta della boutique, fa la figura del “barba”.

L’importante, oggi in Via Lomellina, è avere questa benedetta carta della boutique, non importa se poi ci avvolgi un etto di Bologna, leggi mortadella. Qualcosa di vecchio è comunque rimasto. Roba di trent’anni fa, come una lattaia chiamata “radames discolpa” che continua a vendere latte in polvere, un vetraio quasi disoccupato, perché dopo la fine della guerra i vetri si rompono raramente; un paio di osterie con i becchetti bianchi, rossi e verdi, i quali non hanno però nulla a che fare col resto d’Italia; 5-6000 bambini che non sanno dove andare a scuola e che sono sempre a casa mia. Un bar dove si gioca a ramino con un linguaggio particolare; un signore anziano che di mestiere va a vestire i morti e va in giro che sembra Lord Brummel…. Tutta gente che ha passato la vita da queste parti, che ha visto la guerra da vicino, e che se incontra De Sica o Zavattini gli fa una faccia così…”

I ricordi di Anna, la terza figlia di Beppe

«Credo scrivesse le didascalie, almeno all’inizio» – fino all’entrata in Rai, nel 1961, terzo piano del Palazzo di corso Sempione 27, dove fu assunto facendo trafila e gavetta e soprattutto rispondendo con un sommesso “No” alla domanda “Scusi, lei è un comunista?”. All’esame di Stato per diventare giornalista, invece, davanti alla commissione presieduta da Enzo Biagi che credeva di mettere in difficoltà il candidato chiedendogli “Secondo lei, Fanfani nello schieramento della Dc sta a destra o a sinistra?” se la cavò con un sornione “Dipende dai giorni”.

«Oggi se un calciatore deve dire qualcosa, indice una conferenza stampa. All’epoca andava in trattoria coi giornalisti. Un giorno papà fece una lunghissima intervista a Rivera in tram, da casa sua a San Siro: s’immagina una cosa del genere oggi con Totti? Credo che fosse questa la cosa del suo lavoro che gli piaceva di più»

«La Domenica? Mai visto papà di domenica: una volta il Gran premio, un’altra la partita… in compenso mi ricordo i sabati passati in giro con lui, a trovare i suoi amici: il barbiere dietro la casa del Manzoni, un restauratore di mobili lì vicino, la pasticceria dove andava sempre… In casa ci stava poco, anche se poi si sentiva quando c’era.

Era – come dire? – una presenza forte. Incapace di essere severo, soprattutto per quanto riguarda la scuola – a quella ci pensava mamma – però rigido e coerente sui valori, e soprattutto generoso. Non sapeva dire di no. Così come non sapeva fare a meno degli amici. Casa nostra è sempre stata un porto di mare: la gente del quartiere, i suoi colleghi, calciatori, arbitri, allenatori, quelli del Derby, a partire da Jannacci che erano come fratelli…da piccoli le loro case avevano il cortile in comune, tra piazza Adigrat e via Lomellina, al di qua dei campetti dell’Ortica dove andavano giocare al pallone. Erano inseparabili e quando Enzo divenne direttore artistico del Derby, ci portò anche papà»

«Se c’è una cosa che mi ricordo di papà è proprio come osservava le persone, anzi i “personaggi” come diceva lui, i tipi che si aggiravano per Milano, quelli un po’ strani, al limite del balordo: guardava come parlavano, come si muovevano e poi lui li trasformava in macchiette per gli spettacoli, in spunti per una battuta o per costruirci attorno una serata a cena a raccontare storie…»