Bernardini e la Rivoluzione dei piedi buoni

Nel 1974 si consumò un evento destinato a lasciare un’ampia traccia nel destino della Nazionale italiana. Il “Dottore” arrivò e spazzò via la generazione dei messicani lanciando Antognoni, Bettega, Graziani, Gentile, Rocca e preparando così il terreno per la grande Italia di Bearzot.

Alla Coppa del Mondo in Germania Ovest, 1974, l’Italia era salita col rango di prima favorita, almeno alla pari con la squadra di casa, che aveva trionfato negli Europei di due anni avanti, e con l’Olanda, che mostrava all’ammirazione del mondo il suo calcio totale, orchestrato dall’immenso Johan Cruijff, il profeta del gol. L’Italia era guidata da Valcareggi e, dopo il lungo oscurantismo del dopoguerra, aveva iniziato un periodo magico. Campione d’Europa nel 1968 a Roma, in finale-bis con la Jugoslavia; vicecampione del mondo nel 1970 in Messico, battuta dal Brasile.

Un lungo periodo di imbattibilità, in campo internazionale, aveva conferito a Dino Zoff l’aureola di invulnerabile. La difesa sembrava scolpita nella roccia: Burgnich, Facchetti, Spinosi, Morini, giganti dalla grinta inossidabile, schierati in un rigido meccanismo di marcature individuali,
che riusciva ad azzerare gli attacchi più pericolosi. A centrocampo il senso geometrico di Fabio Capello si sposava all’estro di Rivera e Mazzola e in prima linea Gigi Riva aveva ricevuto il rinforzo di un altro cannoniere poderoso, dal carattere difficile, ma dalla potenza atletica dirompente: Giorgio Chinaglia, detto Long John.

Polonia-Italia 2-1: l’ultima panchina di Valcareggi.

Quella Nazionale, in Germania, doveva spaccare il mondo e invece riuscì a battere, a fatica, soltanto Haiti. Pareggio con l’Argentina, sconfitta decisiva con la Polonia e tutti a casa, praticamente ancora prima di cominciare, tra la furiosa indignazione dei nostri connazionali, che avevano stretto gli azzurri in un abbraccio soffocante.

La stampa si scatenò e «VERGOGNA» fu largamente il titolo più gettonato, all’indomani dell’eliminazione (pochi fecero conto che quella Polonia, con Deyna, Lato, Zmuda, Szarmach, era una grande squadra: arrivò terza, dopo essere stata maltrattata dall’arbitro nella semifinale con i padroni di casa). La crisi di governo era inevitabile e ben se ne rese conto il presidente federale Artemio Franchi, che pure a Valcareggi era legatissimo. Era stato lui a promuoverlo, al posto di Fabbri, dopo la disfatta nel 1966 con la Corea ai Mondiali d’Inghilterra, fatta salva una effimera parentesi col mago Herrera. Il binomio FranchiValcareggi aveva offerto al calcio italiano sette anni di grandi soddisfazioni internazionali.

La triade azzurra: Ferruccio Valcareggi, Fino Fini e Artemio Franchi.

Ma il tempo si era compiuto. Franchi lo disse a Ferruccio, che da uomo semplice e ricco di buonsenso qual era, capi la situazione. Le sue colpe erano limitate, ma cosi va il mondo del calcio. Piuttosto, il problema era la sostituzione. Perché non si trattava soltanto di un avvicendamento, occorreva por mano alla rivoluzione. La Nazionale aveva chiuso l’era dei «messicani», dei mostri sacri Rivera. Mazzola, Riva: ma occorreva un uomo di grande carisma, disposto a rischiare l’impopolarità, per emarginare i campioni più amati e ricostruire dalle fondamenta.

Soppesate qualità e controindicazioni dei possibili candidati, Franchi non riusciva a decidersi. Finché ebbe una folgorazione e, fra la sorpresa generale, diede l’incarico a Fulvio Bernardini. La notizia usci sui giornali il 1° agosto del 1974. Cerano i ringraziamenti di rito per Valcareggi. la promessa di un incarico vago nello staff federale, e l’investitura di uno dei personaggi più singolari e affascinanti dell’intera storia del calcio italiano, forse l’unico che giocò tutti i ruoli ad altissimo livello.

Bernardini e Bearzot

Eccelso calciatore, tecnico geniale, giornalista gradevolissimo, dirigente illuminato. Il fatto è che Bernardini marciava ormai verso la settantina e sembrava una contraddizione in termini imboccare la strada del nuovo guidati da un patriarca del genere. Ma Franchi aveva fatto bene i suoi conti. Il suo piano era anche cinico, se vogliamo. La prima parte dell’operazione sarebbe stata, oltreché impopolare, estremamente delicata.

Per non perdersi d’animo di fronte alle violente contestazioni della critica, agli sfottò e alle stroncature, nonché alle polemiche dei campioni messi da parte, occorreva un uomo fuori del comune. Che si accollasse il ruolo più ingrato del copione, per lasciare poi ad altri la raccolta dei frutti. Bernardini, che era intelligente, se ne rese conto. Ma poiché era anche molto sicuro di sé (e aveva sognato quell’incarico da almeno trent’anni…) accettò senza porre condizioni, se non quella di una completa autonomia.

Da giocatore Fulvio era stato un grande centromediano e un grande centravanti, dopo che la famiglia gli aveva vietato di fare il portiere, ruolo nel quale aveva debuttato in Serie A a sedici anni compiendo prodezze strepitose, ma rimediando una frattura. Cosi bravo, e superiore agli altri, che Vittorio Pozzo lo aveva escluso dalla Nazionale, dopo ventisei partite tutte giocate da protagonista, con questa singolare motivazione. «Vede, Bernardini, lei è il migliore di tutti. Così superiore che i compagni stentano a capirla, a seguire il suo gioco. Io invece ho bisogno di un collettivo equilibrato. E sono costretto a rinunciare a lei».

Fulvio lo mandò a quel paese, con il dovuto garbo. E non gli nascose che, a parer suo, quella storiella ben trovata era un pretesto per escludere un giocatore dell’area sudista, a vantaggio dei club del Nord che sin da allora la facevano da padroni. Dopo di che, osannato centromediano della Roma, era andato all’Inter a fare il centrattacco, per consentire al giovane Meazza di spostarsi nel prediletto ruolo di mezzala.

In panchina il giorno dello spareggio-scudetto del 1964 Bologna-Inter

Da tecnico, Fulvio fu il primo a vincere due scudetti fuori dall’asse Torino-Milano. Con la Fiorentina nel ’56 e con il Bologna nel ’64 attuò due autentici capolavori. Poeta del gioco, teorico dei «piedi buoni», nemico dichiarato delle esasperazioni tattiche, alla Fiorentina fu tuttavia il primo a presentare, con Prini, lo schema dell’ala tornante, che andava a rafforzare il centrocampo. Così il mediano Chiappella poteva arretrare in marcatura e il centromediano Rosetta diventare un battitore libero «ante litteram». E col Bologna vinse lo spareggio scudetto contro l’Inter sorprendendo Herrera con una mossa imprevista: il terzino Capra col numero undici, ma impiegato nella zona di Corso, per inaridire la fantasia del mancino nerazzurro.

Bernardini si era ormai ritirato a Bogliasco, sulla riviera ligure, dopo aver ben officiato alla Sampdoria, col lancio di giovani di valore. Riparti con l’entusiasmo di un giovincello e passò quell’estate del ’74 visitando tutti i ritiri delle squadre, parlando con dirigenti e allenatori. Inaugurò le convocazioni-fiume e dopo il primo allenamento, liquidò in un colpo Riva, Rivera e Mazzola, promuovendo subito in prima squadra Antognoni, di cui lo affascinava il talento.

Bernardini ebbe il grande merito di lanciare un giovanissimo Antognoni in Nazionale

Ebbe, come previsto, critiche violentissime, anche perché i risultati logicamente tardavano. Rispondeva colpo su colpo in conferenze-stampa spettacolari. Non poteva durare molto, ma la sua opera fu preziosissima.

Da quel suo lavoro di ricerca continua, usci la Nazionale che con Bearzot fu quarta in Argentina e prima in Spagna. In quei momenti, pochi, per non dire nessuno, ebbero la delicatezza di rivolgergli un grazie.

Le sei partite di Fulvio Bernardini come Commissario Unico della Nazionale Azzurra.

DataMatchCompetizione
28-9-1974Jugoslavia-Italia 1-0 Amichevole
20-11-1974Olanda-Italia 3-1Qual. Euro 1976
29-12-1974Italia-Bulgaria 0-0Amichevole
19-4-1975Italia-Polonia 0-0Qual. Euro 1976
5-6-1975Finlandia-Italia 0-1Qual. Euro 1976
8-6-1975URSS-Italia 1-0Amichevole