BERNARDINI Fulvio: il Dottore dei miracoli

Un grande, grandissimo calciatore e poi un tecnico dalla sagacia tattica straordinaria con le “perle” degli scudetti della Fiorentina e del Bologna


INTRODUZIONE

Se Arrigo Sacchi ha avuto un “contrario”, nella vetrina del pallone italiano, questi è stato Fulvio Bernardini. Un grande giocatore, anzi, grandissimo, tanto per cominciare, a smentita del luogo comune che vuole i successi in panchina inversamente proporzionali a quelli in maglietta e mutande. Esordiente praticamente bambino nella Lazio (a quattordici anni, nel gennaio 1920 contro l’Esquilia) come insuperabile portiere, Bernardini venne costretto dalla famiglia, dopo gli esiti di un calcio alla testa, a dirottarsi in un ruolo meno rischioso: fu implacabile centravanti nell’Inter, mentre in Nazionale veniva interpretato come centro-mediano del Metodo, gran direttore d’orchestra dal sinistro di velluto.

IL DISSIDIO CON POZZO

Nella Roma, dove giocò a lungo chiudendovi la carriera, la sua classe di leader del gioco fu tra i capitoli più esaltanti della leggenda del Testaccio. Un grande campione, insomma, dalla milizia azzurra insufficiente rispetto ai meriti, a causa, si è sempre detto, dell’eccessiva bravura rispetto agli equilibri tecnici della squadra. Vittorio Pozzo negò: «Con l’allargamento della posizione dei terzini Rosetta e Caligaris, un grande spazio vuoto veniva a presentarsi al centro, nel caso dì secchi contrattacchi dell’avversario. Fu così che giunsi alla determinazione di cercare un centromediano che non fosse proclive a correre grandi avventure in avanti e che, nello stesso tempo, per non rinunciare ai servizi agli attaccanti, disponesse di lunghi traversoni, specialmente alle ali, dotati di grande potenza. Per questo motivo io spinsi avanti, fino a consumazione dì ognuno, prima Ferraris poi Monti, poi Andreolo: tre individui che avevano le caratteristiche che, confacendosi al caso, io desideravo. Fu per questo stesso motivo che io, ogni volta che potei, preferii uno dei tre a Bernardini, che pure era un brillante tecnico. Io la spiegai, la cosa, a Bernardini, pur rendendo omaggio alle sue qualità tecniche personali. Fu di lì che qualcuno fece nascere la storiella in base alla quale io avrei detto a Fulvio che lo lasciavo fuori perché giuocava troppo bene per la squadra. Io ero semplicemente disposto a qualunque rinuncia, pur di ottenere il giuoco dì squadra. Non volevo che nessuno brillasse, volevo che la squadra funzionasse, rendesse, avesse efficacia».

Bernardini la raccontò diversamente, ambientandola nella vigilia di Italia-Ungheria, a Torino nel 1931, la partita della zona Cesarini: «La stanza del commissario della Nazionale era adiacente alla mia e ve lo trovai con il viso atteggiato ad una espressione preoccupata come di uomo combattuto e preoccupato da qualche affanno. Mi parlò a lungo, Pozzo, con lenta cadenza senza guardarmi negli occhi: vede Bernardini, lei gioca attualmente in modo superiore; in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale; questa sua particolare situazione porta la squadra dove lei opera ali ‘assurdo di non avere facili collegamenti perché gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione. Dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tutti gli altri? È un problema difficile come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei: come si regolerebbe al mio posto?».

LA POLITICA DEI “PIEDI BUONI”

Sia come sia, dall’esperienza di grande campione Bernardini trasse la convinzione, poi mai ripudiata, che contassero nel calcio più d’ogni altra componente le qualità individuali. Ciò che un giorno avrebbe mirabilmente sintetizzato con l’espressione “piedi buoni”, ancora oggi in voga. Dunque, quando il dottor Bernardini (era laureato in Scienze politiche) divenne allenatore, oltre che brillante giornalista, rimase fedele a quell’idea originaria: che il grande calcio lo facessero prima i grandi giocatori e solo in second’ordine gli schemi. Ecco il secondo spunto anti-sacchiano.

Eppure, proprio grazie al valore aggiunto delle sue originali strategie riuscì a stabilire il primato che gli vale un posto nella storia del calcio: vincere due volte lo scudetto lontano dalle rotte degli squadroni metropolitani. Nel 1956 a Firenze, nel 1964 a Bologna. In entrambi i casi, Fuffo (suo soprannome romano) costruì due squadroni a immagine e somiglianza del suo ideale di calcio. Votate a un gioco arioso e offensivo, ma ben protette a costo di sacrificare alla praticità anche qualche principio teorico.

E in questo la disparità con Sacchi cede il passo al rispetto di un principio sempre valido: le grandi squadre partono sempre da una grande difesa. La Fiorentina aveva la linea maginot: Sarti; Magnini, Cervato; Chiappella, Rosetta, Segato. Il disegno tattico teorico era il Sistema, sposato da Bernardini come ideale per il nostro calcio fin dai primi anni Quaranta. Però con un correttivo in linea con gli sviluppi tattici già all’epoca affermatisi, soprattutto grazie allo scudetto interista del 1953. Il “libero”, in altre parole, non c’era, ma era previsto in corso di gioco un meccanismo per potenziare la protezione davanti al portiere: nelle azioni di attacco avversario, il mediano destro Chiappella retrocedeva al posto di Magnini, che si accentrava a stopper, consentendo a Rosetta di stazionargli alle spalle in veste di “spazzino” d’area; nelle azioni di rilancio, si ricomponeva lo schieramento sistemista, con Chiappella e Segato vertici “bassi” del quadrilatero di centrocampo.

UN UOMO INTRANSIGENTE

Allo stesso modo, in attacco c’era l’ala tornante, impersonata da Maurilio Prini, che Bernardini assicurava di aver dovuto inserire in squadra per un’indisponibilità dell’ala pura Bizzarri, salvo poi rendersi conto di quanto fosse utile al gioco un esterno che retrocedeva a dar manforte al centrocampo, consentendo all’interno Montuori di assecondare il proprio istinto per la rete avversaria in appoggio al centravanti di sfondamento “Pecos Bill” Virgili. Un meccanismo perfettamente oliato nelle manovre difensive come in quelle d’attacco, che tuttavia Bernardini attribuiva schivo alla qualità dei giocatori.

Così come anni dopo del Bologna capace di giocare “come solo in Paradiso” (espressione da lui coniata dopo un 7-1 al Modena nel 1962-63) avrebbe elogiato le splendide qualità dei suoi campioni, preferendo mantenere nell’ombra le proprie mosse di stratega. Nello spareggio del giugno 1964 all’Olimpico, batté il Mago Herrera sostituendo la punta Pascutti col terzino Capra, deputato a frenare gli estri del fantasista Corso. Dopo, a vittoria ottenuta, si sarebbe schermito adducendo a motivo le non perfette condizioni dell’ala di riserva Renna…
I fautori del Catenaccio, come Gianni Brera, digrignavano i denti per quel vessillifero del calcio offensivo abile a predicare male (secondo loro), per poi razzolare benissimo.

Fulvio Bernardini era nato a Roma nel gennaio 1906 da famiglia agiata e l’indole aristocratica e colta avrebbe sempre ispirato i suoi comportamenti. Era umorista raffinato, capace di fulminare ogni questione con una battuta paradossale, a costo di passare per frivolo qualunquista. Ma non sapeva transigere sulle questioni di principio, innanzitutto con se stesso. Giocava gratis, nella Lazio in cui furoreggiava, ma un giorno scoprì che i suoi compagni prendevano soldi sottobanco, in linea col dilettantismo di facciata dell’epoca, e non la mandò giù.

Se ne andò a casa e la Lazio per interromperne lo “sciopero” fu costretta a cederlo all’Inter, dove gli venne riconosciuto un lauto ingaggio. E quando già era una bandiera della Roma, fu capace di bloccare l’ingresso in campo, in una partita a Venezia, perché il presidente si era rimangiato la parola di un certo premio per tre vittorie consecutive. Il presidente dovette arrendersi per evitare lo scandalo di un forfait senza precedenti e la partita cominciò in grave ritardo “per motivi tecnici”.

PASTICCIO A VICENZA

Non correva buon sangue, tra lui e Vittorio Pozzo, ed ebbe sempre la convinzione che la sua così risicata militanza azzurra fosse dovuta al potere degli squadroni del Nord. In un’altra occasione fu il portabandiera del Centro-Sud reietto: dopo la liberazione di Roma da parte delle truppe alleate, fu nominato commissario straordinario della Federazione, ma dopo pochi mesi il suo rigore morale, incompatibile con giochi e congiure di corridoio, lo spinse ad abbandonare. In qualche modo, la superiorità culturale e il senso forte dei principi lo schierarono fatalmente dalla parte dei più deboli.

Divenne capo-rubrica al “Corriere dello Sport” nel periodo bellico, esibendo una prosa arguta e lucida, ma esprimere le proprie idee non gli bastava: doveva farle vivere sul campo. Così divenne allenatore, ma la partenza, con la “sua” Roma, fu traumatica. Era il 1949. Il presidente, il senatore Pier Carlo Restagno, gli affidò una delle ricorrenti ricostruzioni della squadra, nell’ennesimo periodo tumultuoso. Chiese tre anni di tempo a un pubblico impaziente, ma la sua applicazione del Sistema puro fece franare la squadra. Venne “sfiduciato” in primavera, resistette grazie alla solidarietà dei giocatori, ma il 10 maggio 1950, a tre giornate dalla fine, in pieno rischio retrocessione, fu costretto a dimettersi. La squadra, pilotata da Luigi Brunella, si salvò per il rotto della cuffia ma “Fuffo” non si perdonò e decise di ripartire da zero.

Scese in Serie C, a Reggio Calabria, poi andò a Vicenza, in B, esercitando l’umile tirocinio di chi rifiuta sconti al proprio orgoglio ferito. Di quelle esperienze avrebbe fatto tesoro, ricavandone altresì una ancor più accentuata tendenza a defilarsi dai successi della squadra, a costo di passare, come in effetti accadde, per qualunquista. Una prima stagione di ambientamento, poi la grande svolta della carriera. Stagione 1952-53. Il Vicenza lotta per la promozione in A ed è a ridosso delle prime, quando la Fiorentina contatta Bernardini.

Un fatto che oggi sarebbe impensabile e che pure allora destò più d’una polemica: la Fiorentina, patita il 18 gennaio 1953 l’ennesima sconfitta a Como, decideva di cacciare l’allenatore Renzo Magli e sic et simpliciter sceglieva come successore il tecnico del Vicenza. Bernardini accettò, chiese al suo club l’autorizzazione a rescindere il contratto, non l’ottenne e partì comunque per Firenze. Il 25 gennaio tutto era fatto: Bernardini debuttava sulla panchina della Fiorentina a Ferrara, 1-1 con la Spal, mentre il Vicenza, pur sotto shock per la crisi tecnica improvvisa, guidato da Menti batteva il Genoa, una “grande”, per 2-1.

SBOCCIA LA VIOLA

La frattura col club veneto si componeva rapidamente e per il Dottore si avviava un periodo esaltante. Come già a Roma, Bernardini stilava un programma triennale, che questa volta avrebbe rispettato con puntualità. La prima stagione interamente sua conferma la sua predilezione per i piedi buoni. Bernardini chiede e ottiene dal presidente Befani l’ingaggio di Gren, il “Professore” considerato a 33 anni ormai troppo lento per il Milan. La squadra gira e termina al quarto posto, nonostante la sterilità dell’attacco, soprattutto per il fallimento dello sfortunato attaccante uruguaiano Vidal (campione del mondo).

A fine campionato, il Dottore va in Svizzera a “studiare” i Mondiali. Vede il Brasile e si annota un nome soltanto: Julinho. «Un’ala» scrive magistralmente «può arrivare fino a Julinho. Non oltre». Il progetto di un gioco d’attacco più aperto comincia a prender corpo nella sua mente. Il campionato successivo l’ulteriore salto di qualità non arriva, specie per i rinnovati problemi offensivi e allora mette da parte Gren, nonostante sia costantemente tra i migliori, perché coltiva l’idea di una Fiorentina diversa. Gren se la prende, non si sente lento né superato (in effetti giocherà ancora per molti anni e sarà una stella dei Mondiali 1958) e sbatte la porta. I fatti daranno ragione a Bernardini.

L’INTUIZIONE DEL PRETE

Primo miracolo: Fiorentina 55/56

Nell’estate del 1955 il tecnico osa: chiede a Befani Julinho promettendogli lo scudetto. Sembra una spacconata, che tuttavia diventa realistica quando si scopre che lo sconosciuto argentino Montuori, pescato nell’Universitad Catolica di Santiago del Cile su segnalazione di un prete italiano, è un fenomeno. Quattro stagioni in viola: lo scudetto, il primo della storia, e poi due secondi posti, conditi dal capolavoro della conferma di Julinho, tornato in Brasile per saudade dopo le prime due stagioni e convinto personalmente dal tecnico a tornare. Il pubblico e la società però si erano abituati bene e le due piazze d’onore furono vissute come un fallimento.

Bernardini non gradì il clima creatosi attorno a lui e nel 1958 prese la porta. Trovò la Lazio, uno dei capitoli più sfortunati. Mancavano i mezzi per fare una grande squadra e gli stranieri, al contrario del periodo viola, furono la palla al piede. Il campione brasiliano Tozzi dovette essere allontanato per indisciplina e nel 1960, dopo due tornei dignitosi, il temerario tentativo di costruire una squadra giovane (Paolo Ferrario, futuro “Ciapina”, era centravanti titolare ad appena diciassette anni) naufragò perché lo straniero “misterioso”, il centrocampista uruguaiano Homero Guaglianone, si rivelò una bufala colossale. Bernardini fu esonerato il 30 novembre mentre la società era scossa da continue bufere.

Il Dottore se ne andò con amarezza, Roma non gli portava fortuna. Dopo di lui, il diluvio: la società venne commissariata in febbraio e poi, sotto la guida di Carver, retrocesse in B. Bernardini era a quel punto l’uomo giusto per il Bologna. Così consigliarono gli amici a Renato Dall’Ara, il presidente che da oltre trent’anni guidava il club rossoblu, avendo però smarrito nel dopoguerra le vie della gloria frequentate negli anni Trenta. Bernardini non fece buona impressione e continuò sempre a legare poco con il presidente ruspante, così lontano dai suoi livelli culturali.

Secondo miracolo: Bologna 63/64

Dall’Ara aveva amato l’uomo di mondo Viani e ammirava Rocco, miracoliere del Padova dei panzer, fino a invocarlo ad alta voce, quando le manie spettacolari del Dottore incespicavano sulle bassezze tattiche della vita terrena. Non si frequentavano, troppo distanti com’erano («Se vuole un tattico, prenda Rocco… Se vuole un servo che vada a giocare a briscola nel suo ufficio, prenda una delle sue segretarie» replicava gelido il Dottore alle rimostranze del presidente), ma compresero presto di poter formare una redditizia coppia di opposti. Bernardini inseguiva un calcio di alto livello, capace di risuscitare gli entusiasmi di un pubblico da troppo tempo in astinenza, Dall’Ara aveva i soldi e l’istintiva intelligenza gestionale per consentirgli di lavorare al suo progetto. Come già a Firenze, il terzo anno il programma venne rispettato con lo scudetto.

FINE CRUDELE

Già l’anno prima il Bologna aveva giocato come in Paradiso, bastò l’arrivo del portiere William Negri dal Mantova dei miracoli per far decollare il capolavoro. Negri in porta, Furlanis e Pavinato terzini, Tumburus e Janich centrali, il primo di preferenza stopper, il secondo libero, ma intercambiabili. E poi, Fogli e Bulgarelli in regia, Haller a inventa re, il raffinato Perani all’ala destra e due bomber come si deve, l’irruento e grezzo Nielsen e l’ala Pascutti. La vicenda del doping logorò i nervi all’ambiente, Bernardini rinsaldò il legame col presidente e lo pianse di lacrime sincere quando il cuore di Dall’Ara cedette, durante una lite con Moratti in Lega, quattro giorni prima dello spareggio con l’Inter all’Olimpico.

Qui Bernardini appose la firma beffarda, con Capra finta ala a chiudere Corso. Il Bologna vinse, ma anche in questo caso il rapporto non durò molto oltre il triangolo tricolore. Una dispettosa monetina escluse il Bologna al primo turno dalla Coppa dei Campioni, i big della squadra riposarono sugli allori e il sesto posto del 1965 fu un fiasco. Bernardini se ne andò a Bogliasco, sulla riviera ligure. Prese in cura la Sampdoria, la riportò subito in A e gettò le basi della rifondazione societaria. Infine chiuse a Brescia, ormai emarginato dal grande calcio, nel quale peraltro continuava a interloquire scrivendo commenti mai banali sulla stampa nazionale.

Poi, nel 1974, gli venne concessa la Nazionale, il sogno della sua vita, quando ormai era vecchio e non ci sperava più. Capì subito che se l’avevano data a un “ribelle” come lui, inviso alle grandi correnti del Palazzo del calcio, la patata doveva essere davvero bollente. Il fiasco tragicomico di Stoccarda 1974 aveva chiuso un’epoca del calcio italiano. Doveva mettere in pensione Mazzola e Rivera e gettare le fondamenta di una ricostruzione incerta, tra valori mediocri e improbabili spinte a un atletismo “olandese”.

L’età e il carisma non gli risparmiarono insulti e contestazioni per la modestia dei risultati.
Se ne andò tra le lacrime, nel 1977, dopo aver allevato Bearzot e Vicini. Nessuno lo rimpianse, ma i giovani che aveva lanciato vinsero pochi anni dopo, sotto la guida di Bearzot, il titolo mondiale. Al momento dell’addio alla Nazionale, la proverbiale eloquenza già cominciava a cedere sotto i colpi di un male raro e incurabile, il morbo di Charcot, che a un certo punto, beffa crudele, gli tolse definitivamente la parola. L’agonia non fu breve, gli prese la vita a poco a poco. Fulvio Bernardini morì il 14 gennaio del 1984, tra molti pianti di coccodrillo di critici che non ne avevano avuto pietà neppure di fronte alla crudeltà della natura.