BERNARDINI Fulvio: il Dottore dei miracoli

3 – L’allenatore

Come da giornalista diventò Commissario Tecnico, a 68 anni: Franchi per imporlo dovette vincere molte resistenze dell’ambiente. La scelta di Bearzot, certe conferenze stampa spregiudicate e poi il ritiro a Bogliasco

di Italo Cucci

A DISPETTO di una amicizia antica, vera, serena, di quelle che non pretendono nulla – dare e avere fra amici non con­tano – il bel rapporto che avevo con Fulvio Bernardini era rimasto fermo a tempo fa. L’ulti­ma occasione di parlarci non era stata felice: una sua telefo­nata molto breve, quasi imba­razzata, per partecipare a un mio dolore. Amava troppo la vita, Fulvio, per affrontare temi che non la riguardassero; e gli piaceva anche tanto costruire – non improvvisare, come crede taluno – sicché quando si ac­corse di aver dato tutto al suo mondo, fra lui e tanti cadde il silenzio. Da mesi aspettavo cat­tive notizie; la sua salute cui tanto teneva, il fisico che curava con una punta di narcisismo, la parola difficile eppur chiara, aperta, comprensibile: tutto sta­va andandosene e mi pareva doveroso non cercare di sapere dippiù, per restare fermo alle ultime memorie, alle ultime im­magini di un uomo che ho ama­to come un padre ricevendone in cambio simpatia e un ripetu­to rimprovero: «Peccato che tu non creda – mi diceva – alla lealtà totale del nostro mondo; spesso hai ragione, ma sapessi quanto dona allo spirito esser convinti che tutto intorno ci sia soltanto buona gente». Sapeva anche che non era vero, e co­nosceva bene chi non lo amava: ma se appena facevi un nome, lui alzava la mano e ne allonta­nava l’immagine, come fosse soltanto una mosca fastidiosa. Se poi doveva proprio sbatterci contro, alla cattiveria, allora gli veniva anche da piangere.

LO RICORDO COSI, con le lacrime agli occhi (come bene lo ha ricordato il suo grande ami­co Alberto Marchesi, tanto ami­co da comprenderne anche i silenzi) una mattina a Bo­gliasco, vicino alla sua dolce Ines (parlava tenendole la ma­no), quando fu chiaro che la sua breve parentesi azzurra era de­stinata a chiudersi. Un pianto virile, solo gli occhi glaciali e trasparenti umidi di lacrime, come fosse uno sfogo di nostal­gia e non un impatto con il dolore del momento. «Ora pos­sono dirmi e farmi di tutto – confessava senza pudore – ma la Nazionale l’ho avuta, ci ho lavorato con entusiasmo, era lo scopo della mia vita, ho lanciato tanti giovani in gamba che mi vogliono bene. Quando decide­ranno di togliermela, gliela resti­tuirò senza far storie. Fastidi non gliene ho dati e non gliene darò». Naturalmente qui sbagliava: era infatti convinto che, compor­tandosi da gentiluomo, avendo in grande rispetto l’onestà e la correttezza, non avrebbe mai dato fastidio. Era esattamente il contrario. Ma se glielo dicevo, ricominciava il ritornello: «Pec­cato che tu non creda alla leal­tà…».

LA NAZIONALE di Bernardi­ni nacque per caso, anche se oggi, tutti ne parlano come di una scelta programmata, decisa da chissà quali ver­tici. Dopo l’amara estate di Stoccarda (Mondiali del ’74) chiesi a Fulvio, che già da lungo tempo lavorava al mio giornale d’allora, «il Resto del Carlino» (l’avevamo «prestato anche alla «Gazzetta» di Zanetti per il commento al campionato) di fare un pezzo sul tema: come ricostruire la Nazionale dopo il crollo mondiale. Prima si era schermito: «Lasciamo perdere, c’è chi provvede…»; poi, quan­d’era caduta la candidatura di Italo Allodi (per volontà del medesimo) e non si vedeva una soluzione attendibile, tornai al­la carica: «Il pezzo te lo faccio – mi disse – ma non è nel contrat­to di collaborazione: voglio di più, voglio dire cose, proporre soluzioni, fare un programma di rinnovamento eppoi portarmelo avanti io, non regalarlo alla Fe­derazione». Detto così, potreb­be parere un mercanteggiamen­to, una pretesa non adeguata allo stile di Fulvio. E invece era semplicemente la richiesta di un innamorato che alla panchina della Nazionale c’era arrivato vicinissimo più d’una volta, e non ci s’era mai seduto perché tanti, nel «Palazzo», non lo vo­levano. I sinceri dicevano ch’era «scomodo». I buffoni sottoli­neavano ch’era «rincoglionito». Gli uni e gli altri non avevano mai posseduto tutta la sua gene­rosità, la sua intelligenza, la sua classe, la sua conoscenza calci­stica, la sua capacità di trattare del gioco del pallone non in forme meschine, banali, ma con cultura e – soprattutto – con straordinaria umanità. Credo che nacque con lui – molto prima, naturalmente – il calcio dal volto umano: scaricato di tensioni campanilistiche, di cer­ta, ignoranza tipica dei tanti che pensavano coi piedi piuttosto che con la testa, di umori ma­ligni. Eppure era giornalista, e bravo anche. Ma romantico: ecco la sua colpa.

FU FRANCHI che trovò una risposta acconcia alle sue richie­ste; quando ne parlai all’indimentica-bile «granduca di Toscana», (una telefonata bre­vissima al suo ufficio di Badia a Settimo) rispose subito: «Ci ho già pensato, è l’uomo giusto, dovremo solo farlo digerire a qualcuno…». E infatti la dige­stione fu difficile per i tanti che non volevano fra i piedi lo «scomodo rincoglionito» (ch’e­ra peraltro discretissimo e luci­do, magari anche un po’ ma­lignamente divertito del fastidio che dava a stupidi e a potenti insieme). Se Rivera e Mazzola, subito tagliati fuori dalla Nazio­nale di Bernardini («E una dolo­rosa necessità», diceva), leal­mente si tiravano in disparte senza polemizzare, solo mu­gugnando, quelli che non ne avevano mai amato lo stile asso­lutamente superiore presero su­ bito a fargli guerra. Molti gior­nalisti per primi, soprattutto quelli che si trovavano a disagio nelle sue conferenza stampa che nulla lasciavano all’invenzione: era talmente chiaro, e diceva cose così felicemente intelligen­ti, e in un italiano tanto facile – Fulvio – che praticamente scri­vevi sotto dettatura (solo un altro grande personaggio dello sport e della vita è stato sempre così, e si chiama Enzo Ferrari). Talvolta buttava là anche idee strampalate, ma perché amava il paradosso, giocava con la propria intelligenza e con quella degli interlocutori: un gioco che non sempre lo divertì, che rara­mente era compreso. Come quella volta che, accusandolo di aver convocato oltre un centinaio di giocatori, aggiunse alla lista un altro nome, un ragazzo figlio d’un suo amico livornese. Apriti cielo. E il centromediano metodista? Apriti cielo. E i «pie­di buoni»? Apriti cielo. Solo una volta sbottò di brutto: e rivolse a certe penne pesanti accuse che non si rimangiò. Poi tornò cheto, prima a divertirsi, poi a soffrire. Quando esordì sulla panchina azzurra, il 28 settembre del 1974, a Zagabria, amichevole contro la Jugoslavia (a proposito, il gol della vittoria jugoslava lo segnò Surjak, quel­lo dell’Udinese) prese freddo e stette male di stomaco: fu dun­que una partenza da «vecchio» che gli procurò battute meschi­ne e risolini sfottenti; ma andò avanti per la sua strada, prima impassibile, poi sempre più chiuso in se stesso, fino a che non trovò in Bearzot l’amico che cercava. Io non volevo crederci e sul «Guerino» – in quei giorni – attaccavo Enzo perché non mi pareva leale nei confron­ti del «grande vecchio». E Ful­vio tornò a dirmelo: «Potrai avere ragione in tanti casi, in questo no; Bearzot è leale, è l’uomo giusto». E quando orga­nizzammo un divertente «Pro­cesso a Bernardini» durante una crociera nei mari di Grecia, Fulvio precisò: «Presto Bearzot saprà camminare da solo, e an­drà benissimo». Fu profeta, co­me sempre. Una sola cosa non aveva previsto: che Bearzot avrebbe patito le sue stesse pene, ripagate peraltro da ben diverse soddisfazioni.

RICORDO FULVIO vivo per­ché non riesco a immaginarme­lo morto. Ignoro i suoi ultimi addolorati giorni perché prefe­risco rivivere solo i suoi trionfi e riascoltare la sua voce suaden­te, le sue parole mai sciocche, e risentire la sua mano forte e grande che spesso si lasciava andare a una scoppola paterna, a un buffetto amichevole, a una carezza quasi segreta. La sua mano che quel giorno, a Bo­ gliasco, stringeva quella di Ines: «Quando mi toglieranno la Na­zionale – le disse, guardandola con un sorriso pieno di tenere complicità – non sarà un dram­ma. Resteremo noi a volerci be­ne, vero Ines?».