Un ragazzo di vent’anni segna tre gol nel primo Mondiale della storia, ma il destino gli ruba la gloria per quasi un secolo. E’ la straordinaria storia di Bert Patenaude, il padre di tutte le triplette.
Negli anni ’20, Fall River era una tipica città industriale del Massachusetts, con le sue ciminiere che riempivano il cielo di fumo. In quelle strade vicino al mare, tra gli edifici di mattoni rossi, un giovane di origini franco-canadesi giocava a calcio con un pallone di stracci. Non poteva ancora sapere che il destino aveva in serbo per lui qualcosa di straordinario, ben oltre i confini di quella città operaia.
Bert Patenaude, classe 1909, aveva il calcio nel sangue, come altri avevano il sale del mare o la polvere delle fabbriche. Non era uno di quei talenti che ti fanno gridare al miracolo appena li vedi, ma aveva qualcosa di più prezioso: quella fame silenziosa che ti fa segnare 114 gol in 158 partite, quella determinazione testarda che ti spinge a correre più forte, a saltare più in alto, a non mollare mai.
Le strade di Fall River non erano lastricate d’oro, ma di opportunità nascoste. E il giovane Bert le cercava tutte, con quella naturale predisposizione a trovarsi nel posto giusto al momento giusto che accompagna i grandi attaccanti. I Marksmen, la squadra locale, divennero la sua seconda casa; il terreno di gioco, il suo regno personale.
A vent’anni, Bert era già un predatore dell’area di rigore, uno di quei giocatori che facevano sembrare facile il difficile compito di mettere la palla in rete. La sua giovinezza era un vantaggio e un limite allo stesso tempo: l’energia inesauribile di chi ha ancora tutto da dimostrare, mescolata all’ingenuità di chi non sa ancora quanto possa essere crudele la storia nel dimenticare i suoi protagonisti.

Ma questa è la magia del calcio: a volte basta un pallone, un campo e il coraggio di credere nei propri sogni per scrivere una pagina di storia. Anche se quella pagina, come nel caso di Bert, sarebbe rimasta invisibile per quasi ottant’anni, scritta con un inchiostro che solo il tempo e la perseveranza avrebbero reso finalmente leggibile.
Fall River gli aveva insegnato che niente viene regalato, che ogni vittoria va sudata, che ogni gol va costruito. Lezioni che gli sarebbero tornate utili quando, sotto il sole uruguaiano del 1930, si sarebbe trovato a compiere un’impresa che il mondo avrebbe impiegato tre generazioni a riconoscere.
La Grande Avventura del 1930
Era il giugno del 1930 quando sedici ragazzi americani si ritrovarono sul ponte di una nave diretta a Montevideo. Diciotto giorni di navigazione li separavano da quello che sarebbe diventato il primo Campionato del Mondo della storia del calcio. Tra loro, appoggiato al parapetto a guardare l’oceano infinito, c’era Bert Patenaude, il più giovane della spedizione.
Il destino aveva giocato a suo favore. Archie Stark, considerato il miglior centravanti americano dell’epoca, aveva rifiutato l’invito per quella che molti consideravano una follia: attraversare mezzo mondo per un torneo dal futuro incerto. In un’epoca in cui le sostituzioni non erano permesse, quel rifiuto aveva spalancato le porte della nazionale al giovane di Fall River.
La traversata atlantica divenne un ritiro pre-mondiale sui generis. I giocatori si allenavano come potevano sul ponte della nave, palleggiando tra le onde e il rollio del mare, mentre l’Uruguay si avvicinava lentamente. L’assenza delle grandi potenze europee – Inghilterra, Italia e Ungheria avevano dato forfait – alimentava sogni di gloria nella testa di quei ragazzi che rappresentavano l’American Soccer League, un campionato che all’epoca vantava un livello tecnico rispettabile.
Il primo luglio, quando la nave attraccò nel porto di Montevideo, il mondo del calcio era ancora ignaro che stava per assistere alla nascita di una leggenda. I giornali americani dedicavano appena qualche riga a quella spedizione – alcuni la consideravano più una lunga tournée che un vero campionato mondiale. Ma nell’aria c’era elettricità, quella tensione particolare che precede i grandi eventi.
L’accoglienza uruguaiana fu calorosa, quasi sorprendente per quei ragazzi abituati all’indifferenza del pubblico americano verso il “soccer“. I dodici giorni che separavano lo sbarco dalla prima partita contro il Belgio furono un vortice di emozioni e preparativi. Gli americani si allenavano sul campo dell’Estadio Parque Central, respirando quell’aria sudamericana che sapeva di passione calcistica pura. Patenaude assorbiva tutto come una spugna: i consigli dei veterani, l’atmosfera dello spogliatoio, persino il modo in cui il sole uruguaiano illuminava il campo in modo diverso da quello di Fall River.

Il Giorno della gloria negata
Quella mattina del 17 luglio 1930 all’Estadio Parque Central di Montevideo, 18.000 spettatori si accalcavano per assistere alla sfida tra Stati Uniti e Paraguay.
I sudamericani non erano un avversario qualunque: si presentavano con lo scettro di campioni del continente in carica, un titolo che in quelle terre valeva quanto un mondiale. Gli americani, considerati outsider nonostante la vittoria sul Belgio nel match d’esordio, avevano negli occhi quella luce particolare di chi non ha nulla da perdere.
Bert Patenaude, con la sua maglia bianca priva di numero – come si usava all’epoca – iniziò la partita con quella fame silenziosa che lo caratterizzava. Il primo gol arrivò come un fulmine a ciel sereno al decimo minuto. La palla si insaccò nella rete paraguaiana con la naturalezza delle cose destinate ad accadere. Gli americani esultarono, ignari che quello era solo l’inizio.

Cinque minuti dopo, il momento della controversia destinata a durare decenni. Un’azione sulla fascia sinistra, un cross di Tom Florie, e Patenaude che si materializza in area come un fantasma. Il pallone bacia la rete per la seconda volta. Negli anni a venire, quel gol sarebbe stato attribuito erroneamente ora a Florie, ora assegnato come autorete paraguaiana. Ma in quel momento, sul campo, nessuno aveva dubbi: era il secondo sigillo di Patenaude.
Al cinquantesimo minuto, la magia si completò. Il terzo gol, quello che avrebbe dovuto consegnare definitivamente il suo nome alla storia come autore della prima tripletta in un mondiale. La palla attraversò la linea di porta per la terza volta, e il giovane di Fall River alzò le braccia al cielo in un’esultanza che avrebbe dovuto essere immortale.
Il pubblico applaudì, forse inconsapevole di aver assistito a un momento storico. I compagni abbracciarono Patenaude, il coach annottò scrupolosamente i tre gol nel suo report. Persino i giornali locali, nonostante le barriere linguistiche e la mancanza di replay televisivi, non ebbero dubbi nell’attribuire la tripletta al giovane americano.
La vittoria per 3-0 spalancò agli Stati Uniti le porte della semifinale, un risultato straordinario per una nazione dove il “soccer” era considerato poco più di uno sport minore. Ma mentre la squadra festeggiava negli spogliatoi, i capricci della burocrazia calcistica stavano già iniziando a tessere la loro tela di confusione e errori.
Quella sera, nel suo diario, l’allenatore americano Wilfred Cummings scrisse dettagliatamente dei tre gol di Patenaude. Non poteva sapere che quelle pagine sarebbero diventate, decenni dopo, una delle prove cruciali per ristabilire la verità storica.
Bert lasciò il campo quel giorno con la serena consapevolezza di aver realizzato qualcosa di speciale, ignaro che la sua impresa sarebbe stata messa in discussione per i successivi 76 anni. La sua tripletta, chiara come il sole uruguaiano per chi era presente quel giorno, stava per iniziare un lungo viaggio nell’ombra della storia, in attesa che il tempo e la perseveranza di alcuni appassionati ricercatori le restituissero finalmente la luce che meritava.

Il grande equivoco
Per uno di quegli inspiegabili paradossi che solo la burocrazia sa creare, i registri ufficiali della FIFA presero una strada diversa dalla realtà vissuta in campo. Il secondo gol di quella storica partita contro il Paraguay iniziò a vivere una doppia vita: da una parte, nei ricordi vividi di chi era presente quel giorno, era opera di Patenaude; dall’altra, nei freddi documenti ufficiali, oscillava tra un’autorete paraguaiana e un gol del capitano Tom Florie.
Patenaude affrontò questa distorsione della realtà con una dignità quasi poetica. Non fece mai una crociata personale per rivendicare quel gol, non cercò di forzare la mano della storia. “So quello che ho fatto“, ripeteva con la semplicità disarmante di chi non ha bisogno di conferme ufficiali per conoscere la verità. Continuò la sua vita, con il suo mestiere, dipingendo pareti e appendendo carta da parati, portando con sé la certezza silenziosa di quella tripletta.
I suoi compagni di squadra sapevano. Gli spettatori presenti quel giorno sapevano. Persino i giornali sudamericani dell’epoca lo riportarono correttamente. Ma in qualche modo, nel passaggio dalla realtà vissuta alla documentazione ufficiale, quel secondo gol si era perso in una nebbia di incertezza burocratica, creando un equivoco destinato a durare più di mezzo secolo. L’errore si cristallizzò nel tempo, diventando una di quelle “verità” ufficiali che nessuno osava mettere in discussione.
Alla ricerca della verità
Come in ogni grande storia di giustizia, anche questa ha il suo detective: Colin Jose, uno storico del calcio che negli anni ’90 si trovò per caso sulla pista di questa verità sepolta. Tutto iniziò con una conversazione apparentemente casuale con Arnie Oliver, un ex riserva di quella nazionale del 1930, durante una cerimonia della Hall of Fame del calcio americano.
Le parole di Oliver accesero una scintilla di curiosità in Jose. Poco dopo, l’ascolto di un’intervista registrata con Jim Brown, un altro veterano del 1930, aggiunse un altro tassello al puzzle. Ma fu il ritrovamento del rapporto ufficiale dell’allenatore Wilfrid Cummings a trasformare quella scintilla in una vera e propria indagine storica.
Jose si immerse in una ricerca metodica e appassionata. Si recò all’Università del Massachusetts, dove passò ore a scrutare microfilm di vecchi giornali latinoamericani. Come un archeologo della memoria calcistica, dissotterrò prove su prove: un articolo de O Estádio de São Paulo del 19 luglio 1930, i diagrammi dettagliati dei gol pubblicati da La Prensa di Buenos Aires.
Armato di questa documentazione meticolosamente raccolta, Jose fece ciò che nessuno aveva osato fare prima: sfidare la versione ufficiale della FIFA. Il 12 aprile 1995 inviò il suo dossier completo, dando inizio a un processo di revisione storica che avrebbe finalmente reso giustizia a Patenaude, anche se con decenni di ritardo.

Giustizia tardiva
Nel frattempo, il 4 novembre 1974, nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, Bert Patenaude si era spento, portando con sé la certezza silenziosa della sua impresa. Non avrebbe mai visto il suo nome brillare nei libri di storia del calcio, né avrebbe assistito alla riabilitazione ufficiale del suo record. La morte, come spesso accade, era arrivata troppo presto per permettergli di assaporare il gusto dolce della giustizia.
La FIFA, dopo aver ricevuto il dossier di Colin Jose, reagì inizialmente con la tipica cautela delle grandi istituzioni. Promisero di affidare il caso a “specialisti esterni”, una frase che lo stesso José accolse con comprensibile scetticismo. “Quando dissero che avrebbero fatto controllare ai loro esperti, pensai tra me e me: ‘Sì, certo….’“, avrebbe ricordato anni dopo. Ma, sorprendentemente, questa volta la burocrazia non deluse.
Il processo di revisione procedette con una lentezza quasi rituale. La verità emerse gradualmente, come un’antica statua dissotterrata con pazienza archeologica. Prima apparve in una breve nota su una rivista ufficiale della FIFA, quasi nascosta tra altre notizie. Ma fu solo nel 2006 che l’organizzazione mondiale del calcio fece l’annuncio ufficiale che avrebbe finalmente reso giustizia a Patenaude: la prima tripletta ai Mondiali era sua!
La notizia raggiunse suo nipote, Bert Patenaude III, attraverso un articolo del New York Times. La telefonata al padre fu carica di emozione: “Stai scherzando… stai scherzando“. Per la famiglia Patenaude, era come se un fantasma familiare avesse finalmente trovato pace, come se una storia tramandata per generazioni avesse finalmente ricevuto il suo sigillo di verità.
La giustizia era arrivata con 76 anni di ritardo, ma era arrivata. Il nome di Bert Patenaude poteva finalmente brillare nell’albo d’oro del calcio mondiale, non più come una nota a margine, ma come il legittimo autore della prima tripletta nella storia dei Mondiali.
Un pioniere
All’Estadio Parque Central di Montevideo, dove tutto ebbe inizio, non c’è una targa che ricorda Bert Patenaude. La sua storia è scritta nell’aria, nel vento che soffia dal Rio de la Plata, nelle vecchie pietre che furono testimoni di quella giornata del 1930.
Il pittore di Fall River, l’uomo che appendeva carta da parati e dipingeva muri per vivere, aveva colorato di magia i primi Mondiali della storia. Ma per settantasei anni nessuno ha saputo leggere correttamente quella firma lasciata su tre gol, come un artista incompreso del calcio.
Ogni tripletta segnata ai Mondiali dopo quella di Patenaude ha avuto telecamere, fotografi e giornalisti pronti a immortalarla. La sua invece è rimasta sospesa per decenni tra leggenda e realtà, come quelle storie che i nonni raccontano ai nipoti e che sembrano troppo belle per essere vere. Ma questa volta la storia era vera, aveva solo bisogno di tempo per essere riscoperta.
Forse è proprio questo che rende la vicenda di Patenaude così speciale: non è solo la storia di un record sportivo, ma il racconto di come la verità, anche quando dimenticata, trova sempre la strada per tornare a galla. Come quei gol segnati in un pomeriggio uruguaiano, che hanno attraversato il tempo per raccontarci che nel calcio, come nella vita, niente va mai veramente perduto.
- Fonti:
- https://www.theguardian.com/football/2015/jul/18/bert-patenaude-usa-world-cup-hat-trick
- https://en.wikipedia.org/wiki/Bert_Patenaude