Bnei Sakhnin: insieme, per una volta

Nel 2004 la squadra israeliana del Bnei Sakhnin è stata la prima squadra arabo-israeliana a vincere la Coppa di Stato e a timbrare il passaporto per la Coppa Uefa. Qui palestinesi ed ebrei hanno imparato a convivere anche su un campo di calcio.


Ci sono luoghi dove ammalarsi di retorica è facile. La Terra Santa, divenuta da troppo tempo una terra stretta per arabi e israeliani, è uno di questi. Storie di convivenza pacifica, di multi culturalismo, di rispetto dell’alterità diventano extra ordinarie a causa di un conflitto che non conosce soste dal 1948. In alcuni casi, però, la convivenza di facciata si trasforma in un comune vissuto, con un sapore autentico.

Davide contro Golia. Questa è la storia di una piccola squadra di calcio, il Bnei Sakhnin. Un nome che agli appassionati non dice molto, visto anche l’anonimo settimo posto di questa stagione nel campionato Ligat ha’Al , il campionato di serie A in Israele. Nel 2004, però, il Bnei ha scritto una pagina storica per tutti gli arabi israeliani che vivono nel Paese, vincendo la Coppa di Stato.

Sono coloro che dal 1948, anno della nascita dello Stato d’Israele e del primo conflitto arabo-israeliano, sono rimasti a vivere dove erano nati, al contrario di quasi 800mila profughi (divenuti ormai milioni) che abbandonarono la Palestina, per scelta o perché scacciati. Una minoranza nello Stato ebraico, che spesso si sente discriminata. Il Bnei, per loro, è diventato un simbolo. Prima raggiungendo la massima divisione, poi vincendo la coppa e arrivando a giocare una coppa europea, nell’èlite del calcio. Arrivando a un passo dal sogno di vincere lo scudetto. Un sogno infranto dal dischetto. Ma questa è la fine di una storia che inizia nel 1992, quando bruciavano ancora i fuochi della Prima Intifada.

La cittadina di Sakhnin, 23mila abitanti in Cisgiordania, è zona occupata da Israele nel 1967. Chi è rimasto ha passaporto israeliano e molti sono venuti qui inseguendo la Galilea biblica. Tra loro c’è Mazen Ghanayem, giovane imprenditore edile con la passione del calcio. In città c’erano due squadre insignificanti, Mazen con i suoi soldi ha supportato la fusione, diventando il presidente del Ittihad Bnei Sakhnin, in arabo. Ihud Bnei Sakhnin, in ebraico. Ma è il significato quello che conta: Figli di Sakhnin Uniti.

La squadra è un meltin pot: ebreo l’allenatore, arabo il presidente. In squadra giocatori di tutte le confessioni religiose, compresi i cristiani. In un decennio, dalla quarta serie, la squadra vola fino alle soglie della prima divisione, conquistata nel 2002 – 2003, battendo l’Hapoel Jerusalem all’ultimo minuto dell’ultima giornata. Sugli spalti, come indemoniati, i tifosi arabi israeliani, che nella squadra cominciano a vedere un simbolo di emancipazione sociale.

L’aspetto curioso, però, è che simbolo o non simbolo ci giocano pure gli ebrei, ed ecco allora sulle tribune bandiere con la Stella di David accanto a bandiere palestinesi. In una cittadina dove, il 30 marzo 1976 (da allora ricordato come il Giorno della Terra), sei arabi israeliani vennero uccisi dall’esercito durante una manifestazione contro la confisca di alcune terre e, nel 2000, tredici persone vennero uccise per gli incidenti scoppiati con la Seconda Intifada.

Tutto questo, però, allo stadio pare non entrare. La squadra vola e, nel 2003-2004, si lancia in una cavalcata trionfale che (da neopromossa) la porta a vincere la Coppa di Stato. Finale, nel grande stadio nazionale di Ramat Gan, il 18 maggio 2004, contro l’Hapoel Haifa, dopo aver fatto fuori in semifinale la corazzata Maccabi Tel Aviv (18 scudetti in bacheca). I biancorossi di Sakhnin vincono 4-1. E’ la prima squadra arabo-israeliana a riuscirci. Le strade di Sakhnin si trasformano in Rio de Janeiro.

La rosa della squadra è un caleidoscopio (la chiamano “arcobaleno”): 7 ebrei, 12 arabi, 4 africani, un brasiliano e un ungherese. Il capitano è Abbas Sowan, il primo arabo israeliano a finire sulle pagine di Sport Illustrated, per il pareggio all’ultimo minuto segnato in nazionale contro l’Irlanda, che per un pelo non manda la squadra ai Mondiali del 2006. “Sono contento che a batterci sia stata una squadra araba”, dichiara a fine partita l’allenatore degli sconfitti, Uri Hoenig. “Sono convinto che questa sconfitta possa contribuire a migliorare la società israeliana, rendendola più giusta nei confronti di tutti i suoi cittadini“.

L’anno dopo, grazie alla Coppa, la squadra gioca i preliminari per la Coppa Uefa. Elimina il Partizan Tirana e se la gioca con gli inglesi del Newcastle United. Perde ed esce, ma la soddisfazione di giocare nell’università del calcio resta per sempre.

La squadra cresce in popolarità, anche fuori dai confini. L’emiro del Qatar regala un nuovo stadio, chiamato appunto Doha, e un miliardario israeliano aiuta il presidente palestinese a rendere più forte la squadra, simbolo di convivenza. Il paradiso si sfiora la stagione 2007-2008. Il Bnei Sakhnin vola: dall’inizio è un testa a testa con il Beitar Jerusalem. Mica una squadra come tutte le altre. E’ la squadra dell’ultradestra israeliana, i cui tifosi sono noti per le posizioni estremistiche e islamofobe. I capi ultras presentano la partita decisiva per il titolo come ”una lotta tra il nostro Dio e il loro” e ”una guerra santa contro i terroristi”.

Il lieto fine, si sa, non è di questo mondo. Il Bnei Sakhnin dà tutto e tiene il pareggio, pur contro una squadra che ha un budget enorme. I supplementari sono un supplizio, si va ai rigori. Finisce dal dischetto il sogno della cittadina di Sakhnin, battuta 3-1 dal Beitar. Ma in fondo è solo uno scudetto. Il Bnei Sakhnin ha fatto parlare in tutto il mondo degli arabi israeliani, ha fatto esultare israeliani e arabi assieme, con gli stessi colori, non per un qualche progetto della comunità internazionale senz’anima. Erano proprio contenti di essere assieme. Tutto questo non verrà cancellato da un calcio di rigore, perché, in fondo, non è mica da questi particolari che si giudica un sogno…