Boyè, vita e donne dell’”atomico” fuggiasco

Mario Emilio Boyé è stato uno dei grandi attaccanti della storia del calcio argentino. Era nato a Buenos Aires il 22 luglio 1922. Cresciuto nel Boca Juniors, vi aveva esordito nel 1941, segnalandosi per la micidiale potenza del tiro, sia di piede che di testa (autentiche mazzate di formidabile violenza). Ala destra di vocazione, lo strapotere fisico gli consentiva anche di operare episodicamente da centravanti. Vinse con il Boca il titolo nazionale nel 1943 e nel 1944, in una prima linea travolgente, con Cordiera, Sarlanga, Varela e Sanchez. Nel 1946 fu capocannoniere del campionato con 24 reti. Idolo incontrastato della tifoseria del Boca, che lo soprannominò eloquentemente “El Atomico”, titolare fisso in Nazionale, vinse il Torneo Sudamericano (o Coppa America) nel 1945,1946 e 1947, in un periodo d’oro del calcio argentino.

Il suo acquisto nell’estate del 1949 costituì una autentica bomba. Il Genoa voleva tornare alla gloria perduta e importò tre argentini tutti in un colpo: oltre a Boyé, il mediocre Aballay e il discreto Alarcon. Boyé era la stella, pagata venti milioni di lire al Boca Juniors (uno sproposito, considerate le dimensioni economiche del calcio dell’immediato dopoguerra). Lì per lì sembrò un grande affare. Superato l’inevitabile periodo di ambientamento, Boyé confermò le proprie referenze, rivelandosi anche nel campionato italiano un eccellente uomo d’attacco.

Per non avvertire la nostalgia, si era portato in Italia la giovane moglie appena sposata, Elsa, una bella ragazza minuta e vivacissima, e ai cronisti che lo intervistarono dopo qualche settimana apparve «distinto, compito, cortese, affabile e profondamente felice». Trovava molto diverso il calcio italiano, meno «libero e scattante» per una punta rispetto a quello argentino. «Qui è tutto un marcamento, stretto e accorto, che lega i movimenti» precisava, più che con disappunto, tuttavia, quasi con un pizzico di civetteria, non avendo la sua media gol risentito molto del cambiamento. E il pubblico genoano, se era rimasto freddo in avvio anche per le scadenti prove di Aballay e delle difficoltà a ingranare di Alarcon, ben presto aveva preso a entusiasmarsi per le fughe irresistibili di questo attaccante dal fisico compatto e poderoso. Con la sua classe, aveva fatto dimenticare ai supporter genoani il grande Verdeal, appena andatosene dopo tre stagioni favolose.

Poi, qualcosa si ruppe. Elsa Boyé non era felice in Italia. Amatissima dal marito, mal sopportava l’ambiente genovese, così chiuso e lontano dalla brillante vita notturna di Buenos Aires. I coniugi Boyé vivevano assieme alla madre di lui e alle coppie Aballay e Alarcon in un appartamento di Via Malta, conducendo una vita molto ritirata. L’obbligo degli allenamenti, le trasferte e i ritiri, distanti anni luce dalle abitudini di Buenos Aires (nei cui ampi confini rientravano la maggior parte delle trasferte di campionato), inquietavano la signora Boyé, che cominciò a dare segni di insofferenza. Un giorno il presidente del Genoa convocò improvvisamente in sede i giocatori e i coniugi Boyé dovettero rinunciare al previsto pomeriggio al cinema. Elsa divenne una furia: in Argentina nessun presidente si sarebbe permesso una cosa simile, sibilò. Le baruffe con la suocera, poco tenera verso la condiscendenza del marito ai capricci della consorte, e le pubbliche espressioni del proprio malcontento diventarono la valvola di sfogo di madame Boyé. Nè pareva bastare a calmarla il costoso tenore di vita che il marito le concedeva: cene continue nei ristoranti di lusso, regali vistosi, serate a teatro. Stanchi del clima teso per l’incompatibilità tra nuora e suocera, i coniugi Alarcon decisero di andare a vivere per conto proprio a Pegli.

A Natale il Genoa convocò tutti i suoi effettivi a Nervi per il ritiro prepartita: si giocava infatti a Santo Stefano contro il Novara. Boyé non rispose, facendosi vivo solo in serata dopo aver trascorso la festa in famiglia. Ne ricavò una multa di 25 mila lire che lo indispettì parecchio, anche se il giorno dopo realizzò il gol del 2-0. Quando Elsa seppe della sanzione, spiegò al marito con parole sue che la misura era colma. Il 22 gennaio 1950 il Genoa buscò un pesante 0-3 a Roma. La sera, nell’albergo romano che ospitava la squadra si presentarono a sorpresa madre e moglie di Boyé, con seguito imponente di bauli e valigie. Il giocatore, riunito assieme al resto della comitiva che stava per ripartire alla volta di Genova, salutò uno a uno compagni e dirigenti, poi uscì dall’albergo per salire con la famiglia su un taxi, in direzione aeroporto di Ciampino.

Avvertiti da una telefonata “misteriosa” (probabilmente fatta da qualche dirigente rossoblù), i doganieri, nel tentativo di fermare il gruppo, sottoposero l’imponente bagaglio a un minuzioso esame, che non offrì alcun appiglio. E quando, trafelato, Mario Tosi, segretario del Genoa, giunse allo scalo, i Boyé erano già imbarcati sull’aereo. Tosi provò a bloccare la fuga, contestando la regolarità dei documenti presentati dal giocatore e dalle sue donne. Inutilmente. Boyé replicò gelido: «Se volete, fatemi arrestare!».

La fuga era stata preparata con ogni cura. Boyé, che aveva all’attivo la notevole media di 12 gol in 18 partite, non portava via denaro, come lì per lì qualcuno insinuò. 120 milioni il Genoa li aveva versati al Boca; quanto al premio di ingaggio di Boyé, tre milioni a stagione, uno e mezzo gli era stato versato prima della partenza, mezzo lo aveva ricevuto all’arrivo e l’ultimo gli era stato pagato al termine del girone d’andata, secondo i patti. Oltre a stipendi mensili e premi. Ma non doveva essergli rimasto molto, visto il volume delle spese sostenute per soddisfare la moglie. Alle domande dei doganieri rispose che alla moglie «non si confaceva il clima di Genova». Allo scalo di Rio de Janeiro rispose a un cronista parlando di «motivi strettamente personali». L’obiettivo, a quanto si seppe a caldo, era trovare ingaggio in Colombia, patria calcistica di molti argentini di valore. Ma si intromise il Racing di Avellaneda, appoggiato dall’allora ministro delle finanze del governo peronista, Ramon Cereijo, e allenato dal tecnico della Nazionale, Guillermo Stabile, vecchio idolo dei tifosi rossoblù.

Per il Genoa il danno era enorme, dal punto di vista tecnico ed economico. Stabile si mise in contatto con i dirigenti italiani: per tacitare il club rossoblù ed evitare un ricorso alla Fifa con possibile squalifica internazionale, il Racing si impegnò a pagare i 300mila pesos che il club aveva versato al Boca. Nel frattempo la moneta argentina aveva subito una pesante svalutazione ma il Genoa dovette accontentarsi. Il Racing era Campione d’Argentina e costituiva una grande attrazione, in un’epoca ancora lontana dal fitto calendario internazionale dei giorni nostri: Stabile si impegnò a portare la squadra in trasferta nel capoluogo ligure per un’amichevole i cui proventi sarebbero andati per intero alla società ospitante.

Il 16 febbraio, il Racing, senza Boyé ma con la stella Mendez, giocò a Marassi, battendo il Genoa per 1-0 con una prodezza proprio di Mendez. Chiudendo così la vicenda Boyé, il quale continuò la sua carriera in patria. Prese il posto di Salvini nell’attacco della squadra di Avellaneda, con cui vinse il titolo in quello stesso anno e nel successivo, il 1951.

Nel 1954 Boyé, ormai trentaduenne, passava all’Huracan, con cui segnava 7 reti in 20 partite, prima di tornare al Boca, dove chiuse la carriera nel 1955. Con i colori gialloblù vantava 208 presenze e 112 gol, in Nazionale aveva giocato 17 partite e segnato 7 gol. Divenne allenatore e guidò il Boca assieme a Vicente Feola nel 1960, poi diresse il Newell’s, il Temperley, la Nueva Chicago e il Deportivo Moron. Col connazionale Pontoni avviò un’attività commerciale, prima in una pasticceria, poi in una pizzeria nel quartiere Belgrano a Baires. E’ morto il 21 luglio 1992.