Brasile-Italia, sfida all’Azteca

Storia del match che decise l’assegnazione della Coppa Rimet 1970. L’Italia è reduce dall’estenuante semifinale contro la Germania, il Brasile dei numeri 10 vola sulle ali dell’entusiasmo


LA VIGILIA DEL’ITALIA

Forse ignari di aver portato l’intero Paese alle soglie del delirio, gli Azzurri trascorsero in apparente serenità i tre giorni di intervallo fra la memorabile sfida con la Germania Ovest (epico 4-3) e la prospettiva di contendere al Brasile di Pelé la definitiva conquista della Coppa Rimet.

Il meno tranquillo era sicuramente Ferruccio Valcareggi, il tecnico che sotto la scorza della modestia e del buonsenso, nascondeva le ansie di una situazione inaspettata. Walter Mandelli, sia pure ridimensionato dopo il caso Rivera, sprizzava trionfalismo per i successi del nuovo corso. Il buon Ferruccio, invece, intuiva le difficoltà di una squadra attaccata su due fronti dalle insidie dell’usura fisica e dell’appagamento.

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Il serafico Ferruccio Valcareggi

La vittoria sulla Germania aveva richiesto un pesantissimo dispendio di energie, fisiche e soprattutto nervose. Sarebbe stato forse il caso di procedere a sostanziali ritocchi nella formazione, come Valcareggi aveva già fatto, azzeccando l’en plein, nella finale-bis del campionato d’Europa di due anni prima. Ma si poteva negare ai giocatori, arrivati a un passo dal più grande e prestigioso traguardo sportivo, la soddisfazione di recitare l’ultimo atto?

Quell’Italia che fu poi detta dei «messicani» si era completata strada facendo, in modo anche avventuroso. Nel programma iniziale, insieme con Albertosi, Burgnich, Facchetti (lo stesso terzetto dei Mondiali precedenti in Inghilterra), doveva operare la coppia difensiva centrale del Cagliari campione d’Italia, NiccolaiCera, quest’ultimo mediano d’origine, come tale impiegato nel suo club, e che fu il primo libero di manovra del calcio italiano.

Ma Niccolai si era infortunato dopo mezz’ora della partita inaugurale contro la Svezia e al suo posto Valcareggi aveva riesumato un uomo di Fabbri, Roberto Rosato, stopper mobile (anche lui con origini di laterale), inesorabile nella marcatura individuale, ma anche in grado di uscire dall’area e di appoggiare con proprietà. Rosato fu una delle pedine fondamentali di quel campionato del mondo e contro la Germania soltanto la sua sostituzione, per infortunio, al 91’ aveva consentito allo spauracchio Gerd Müller (prima ridotto all’impotenza) di giocare palloni pericolosi.

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L’Italia schierata per la finale. da sx: Albertosi, Boninsena, Rosato, Facchetti, Domenghini, Riva. Sotto: Mazzola, Bertini, De Sisti, Cera, Burgnich

Il centrocampo viveva del senso geometrico di De Sisti, regista ad alto contenuto di fosforo, e della straripante vitalità di Bertini, mediano dalla forza incontenibile. I rientri dell’inesauribile Domenghini, illuminato cursore di fascia, completavano un reparto che ospitava, a turno, Mazzola e Rivera.

Al di là degli schieramenti di campo a favore dell’uno o dell’altro, che dividevano la critica non meno che la stessa squadra, c’erano precise ragioni di interesse a sostenere le rispettive candidature. A favore di Mazzola erano i compagni interisti della difesa e gli uomini del centrocampo: Mazzola, infatti, era più disposto al sacrificio e ai rientri, con lui la squadra si sentiva più protetta nella fascia centrale. Con Rivera in campo, invece, si creavano maggiori opportunità di gol: e infatti a favore di Gianni si esprimeva Gigi Riva, sentendosi meglio assistito, e con lui Cera e Rosato, forse per solidarietà di club.

Il partner di Riva doveva essere inizialmente l’agile Anastasi. Un curioso incidente l’aveva bloccato alla partenza dell’Italia: Valcareggi aveva cosi ripescato Boninsegna, che si era assicurato i galloni di titolare superando la concorrenza di Pierino Prati. Riva e Boninsegna, sin dai tempi del Cagliari, si guardavano come cane e gatto. Ma in campo, da veri professionisti, erano riusciti a trovare una funzionale intesa. C’è ora da sorridere, pensando che una situazione apparentemente così esplosiva avesse potuto sortire uno stupefacente risultato come la qualificazione alla finalissima. Ma la favola dello spogliatoio compatto, nel 1970, doveva essere ancora inventata…

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La maestosità della cattedrale dell’Azteca prima del match

Valcareggi, dunque, contava i lividi, ma sapeva di essere prigioniero di una scelta obbligata. Piuttosto, il crollo nel secondo tempo con la Germania, lo rendeva molto perplesso sull’opportunità di insistere con la programmata staffetta. L’ingresso di Rivera, infatti, aveva determinato l’immediata conquista, da parte tedesca, del centrocampo. Ignorava, il buon Ferruccio, che l’Italia intera, conquistata dalla prodezza del golden boy nel firmare il 4-3 risolutivo, spasimava in vista del confronto diretto Pelé-Rivera.

Il Messico era lontano, gli echi italiani arrivavano attutiti. Il raggiungimento di un risultato alla vigilia insperato faceva credere allo staff azzurro che, in ogni caso, al ritorno ci sarebbero stati gloria e applausi per tutti. Invece…

LA SERENITA’ DEL BRASILE

Minori problemi aveva sicuramente Zagallo. In una sola occasione il Brasile aveva segnato meno di tre reti: contro l’lnghilterra (che infatti, in senso assoluto, andava considerata la miglior squadra di quel Mondiale dopo la Seleção). In tutte le altre gare, o tre o quattro gol, variamente distribuiti fra i solisti dell’attacco.

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La concentrazione dei verdeoro durante l’inno

La classe sopraffina aveva anche reso possibili coesistenze tecniche apparentemente difficili. Pelé, col suo inattaccabile carisma, vigilava paterno dall’alto. Il Brasile macinava gioco sull’asse centrale ClodoaldoGérson, gli architetti della manovra; Pelé e Rivelino accendevano la girandola dell’inventiva, Jairzinho e Tostão finalizzavano implacabilmente.

Con l’aggiunta di un eccellente terzino d’attacco, Carlos Alberto, degno erede dei grandi Santos, e di un centrale gigantesco, Piazza, che Zagallo aveva trasformato da centrocampista in difensore con una brillante intuizione tecnica. La squadra poteva così permettersi anche un portiere appena normale come Felix, del resto raramente chiamato in causa.

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La carica agonistica di Rosato qui alle prese con Tostao

Una volta deciso di dar fiducia ai suoi stanchi guerrieri, Valcareggi aveva studiato un accurato piano di marcature individuali per limitare al minimo la superiorità tecnica dei brasiliani. Rosato su Tostão, Facchetti su Jairzihno, Burgnich su Rivelino e Bertini su Pelé, con successivo scambio di mansioni fra questi ultimi due, in dipendenza della posizione assunta in campo dai brasiliani (il grande Pelé, infatti, sapendo fare tutto al massimo livello, avanzava a centravanti quando era controllato da un centrocampista e arretrava a mezzala quando era un difensore puro a seguirlo).

MEZZOGIORNO DI FUOCO

La grande sfida andava in scena a mezzogiorno esatto, in uno Stadio Azteca affollato da 105.000 spettatori eccitati. Tutto il Messico pulsava per il «fratello» Brasile. Era piovuto sino alla mattinata. L’arbitro era il tedesco orientale Glöckner.

Il dispositivo di Valcareggi tenne inizialmente il campo con sufficiente autorità. Il Brasile stentò a tessere la sua tela abituale, perché gli Azzurri non concedevano né troppo spazio, né troppo tempo per pensare. Ma al 18’, su cross tagliato da sinistra di Rivelino, Pelé si esibì in una tale strepitosa elevazione, da issarsi mezzo metro sopra un esimio saltatore come Burgnich: il re quasi si fermò in aria, prima di incornare in modo irrimediabile per Albertosi.

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L’inimitabile Pelè sovrasta Burgnich e batte Albertosi

Poteva essere il crollo, e invece l’Italia tenne i nervi a posto, attese il momento propizio e questo arrivò quando un disimpegno errato di Everaldo concesse la chance a Boninsegna. Anticipando lo stesso Riva, che gli piombava a fianco, «Bobo» chiuse con un rasoterra angolato, fuori della portata di Felix. Sull’uno a uno si esaurì il primo tempo, senza altri rischi. Il Brasile aveva accusato il colpo, l’Italia cinica e sfrontata sembrava promettere agli allibiti spettatori dell’Azteca un’altra impresa a sensazione.

L’intervallo fu lunghissimo. Gli italiani si attendevano di veder uscire dallo spogliatoio Gianni Rivera, e invece fu Sandrino Mazzola a ripresentarsi in campo. Valcareggi non se l’era sentita di modificare un assetto tattico dimostratosi molto funzionale. Mazzola sgobbava in copertura e con la sua velocità teneva i brasiliani sul chi vive. La squadra si era assestata e il CT non ebbe il coraggio di stravolgerla.

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Il momentaneo pareggio di Boninsegna

Ma a quel punto entrò in campo un altro fattore. L’esaltazione della grande sfida aveva sin li nascosto la fatica e gli stress. Col passare dei minuti, però, quei centoventi minuti indiavolati contro la Germania si facevano sempre più sentire nei muscoli e nel cervello. Il gioco dell’Italia, tutto scatti e progressioni improvvise, era penalizzato dall’altura, cui invece si adattava perfettamente la manovra rotonda e danzata del Brasile.

La superiorità della Seleção cominciò a delinearsi sempre più chiaramente. Al quarto dora una traversa colpita da Rivelino anticipo l’assalto. Fu Gérson, con un tiro dalla distanza, al 20′, ad infliggere il secondo oltraggio ad Albertosi.

Era quello il momento di giocare la carta Rivera, ma Valcareggi, forse travolto dagli eventi e dalle emozioni, se lo dimenticò in panchina. Il Brasile rotolò, inesorabile come la valanga, sulle difese sempre più deboli degli azzurri. Jairzinho, sul quale Facchetti aveva giocato una grande partita di contenimento, si tolse lo sfizio del gol al 25′.

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La bellissima rete di Carlos Alberto su assist “no look” di Pelè

Samba in campo e sugli spalti, partita ormai a senso unico, con gli Azzurri stremati. Soltanto a sei minuti dalla fine, dopo che già Juliano aveva dato il cambio all’esausto Bertini, Valcareggi, uscito dalla trance agonistica, si accorse che Rivera gli sedeva ancora al fianco, muto e impassibile. Allora commise il suo vero errore, lo mandò in campo (ai posto di Boninsegna) a spartire una sconfitta che non gli apparteneva.

Rivera entrò senza fare una piega, in tempo per assistere al quarto gol brasiliano, firmato da Carlos Alberto al termine di una vorticosa discesa senza contrasti, da un’area all’altra. Pelé, al suo quarto Mondiale e alla sua terza vittoria, sollevò alta la Coppa Rimet, che aveva regalato in via definitiva al suo Paese. Terzo successo personale anche per Zagallo, due da giocatore e il terzo da tecnico, e verdetto sportivamente ineccepibile, quel Brasile era fuori dalla nostra portata.

In Italia non lo si volle capire, al ritorno i reduci dal secondo posto furono inseguiti da una folla inferocita, che li costrinse a trovar riparo negli hangar di Fiumicino. Soltanto Rivera fu accolto da trionfatore. Quei grotteschi sei minuti gli appiccicarono un’etichetta di vittima che gli rimase per tutta la sua carriera.