Brasiliani d’Italia

ITALIANI DEDITI A MELINA E DIFESA A OLTRANZA? MACCHÉ. ANCHE NOI ABBIAMO AVUTO DEGLI ADEPTI DEL FUTBOL BAILADO. A PARTIRE DA BRUNO CONTI, «UN VERO BRASILIANO». PAROLA DI PELÉ.

L’ultimo dei brasiliani d’Italia, il più vero, è stato Bruno Conti. Titolo guadagnato sul campo, il suo. Un campo torrido e dal prato verde brillante: quello dello stadio Sarrià di Barcellona, in cui un pomeriggio dell’estate 1982 i brasiliani – quelli autentici – furono sconfitti dagli italiani. E niente fu più come prima. Di quel titolo l’ala giallorossa fu investita ufficialmente proprio da un brasiliano. E non da uno qualsiasi. «E’ Bruno Conti il vero brasiliano dei mondiali; è il più forte fra tutti i giocatori che ho visto in Spagna. Credevo che giocatori come lui non ne nascessero più». Così parlò Pelé.

Conti, però, un po’ brasiliano si sentiva già da prima: lui, al fùtbol bailado, si era sempre ispirato. E anche a chi si beava nel vederlo giocare – dribbling irresistibile, tiro esplosivo – l’accostamento veniva spontaneo. Hai un tocco sopraffino? Sei portato alla giocata spettacolare? Col pallone hai una confidenza finanche eccessiva, al limite dell’autocompiacimento? Allora sei un brasiliano. Un’equivalenza, questa, a metà fra complesso di inferiorità e orgoglio della diversità. Perciò quando se lo trovò davanti, il Brasile – forse il miglior Brasile di sempre, almeno per nove undicesimi – Bruno dovette sentirsi un po’ confuso. Un soldato blu, anzi azzurro, diviso fra appartenenza e vocazione. Perché se per caso avesse vinto, avrebbe finito per sconfiggere anche una parte di se stesso.

Prima della partita azzardò mentalmente un pronostico, o forse un salomonico auspicio, riportato nel libro “Il mio Mundial”: «Finisce due a due – mi dicevo – noi salviamo la faccia, ma loro vanno in finale. Forse è giusto così». Forse. Ma qualcuno aveva scritto un epilogo diverso, fatto di braccia alzate nel cielo di Madrid e bagni nelle fontane di tutta Italia.

Conti è più brasiliano dei brasiliani. Non si tratta solo di dare del tu al pallone, è proprio una questione di impostazione. Prendiamo il primo gol di Rossi, quel pomeriggio. Tutti ricordano il cross di Cabrini da sinistra e Pablito che irrompe a valanga sul secondo palo. Ma se mandiamo indietro di qualche secondo il vhs d’annata, vediamo che l’azione inizia da destra, da Bruno Conti. A centrocampo fa una doppia giravolta su se stesso, accarezzando la palla col tacco, e avanza di alcuni metri. Poi rientra, e con l’esterno sinistro taglia il campo orizzontalmente con un passaggio a uscire che finisce docilmente fra i piedi del Bell’Antonio. Ecco, non è questione di morbidezza e precisione del passaggio: è proprio che in Italia un gesto del genere non si fa, non si è mai visto.

Conti è il brasiliano d’Italia. Ma quella partita la vince perché è brasiliano fra gli italiani. Fossero scesi in campo un portiere e dieci Bruno Conti, quell’incontro non l’avremmo vinto. Conti era lì per confermare, con la sua eccezionalità, la regola italiana. Sembrava dire ai suoi avversari/compagni sudamericani: «Vedete? Siamo capaci anche noi» (fine del complesso di inferiorità). «Ma siamo capaci anche d’altro» aggiungeva il resto della squadra, rimarcando così l’orgoglio della diversità. E il trionfo epocale arrivò, oltre che per il sinistro velluto e dinamite di Conti, anche per l’istinto omicida di Rossi, la lucida essenzialità di Antognoni, il furore strappamaglie di Gentile, l’atavica saggezza di Scirea, l’algida concentrazione di Zoff e la sana avvedutezza di papà Bearzot.

Eppure Conti non ha l’aspetto del brasiliano. Soprattutto, non somiglia a quei brasiliani. Atletici, statuari, perfetti, armonicamente multirazziali. Quasi divinità classiche. Lui – guizzante Calimero senza collo – della divinità classica ha solo il nome del paese in cui è nato: Nettuno. Dall’altra parte c’è chi invece si chiama come un filosofo greco – Socrates – e del filosofo ha anche il sussiego, lo sguardo e la barba. Sguardo e barba: se Socrates li ha da filosofo, quelli di Junior sono da dissidente politico, o da cantautore impegnato. In casa nostra invece, barbe poche, finiti gli anni 70, e quanto ai baffi, quelli provvisori di Bergomi e quelli estemporanei di Gentile sembrano più che altro baffi da carabinieri. Anche gli sguardi da carabinieri hanno quei due, e l’attitudine alla custodia punitiva, da esercitare in coppia.

Ma seduto in panchina, sulla panchina dell’Italia, quel giorno c’è un uomo che ha i baffi da brasiliano. E non solo quelli: pure lo sguardo, intenso e insieme vago. Un Rivelino de noantri Per non parlare dei piedi. E’ FRANCO CAUSIO. Ed è l’unico, insieme a Conti, che può legittimamente fregiarsi del titolo di brasiliano d’Italia. E infatti oltre a Il Barone (il Barone e Conti: noblesse oblige…) era soprannominato anche Brasil. Causio di Conti era stato il predecessore in Nazionale. Il suo apporto più significativo alla spedizione spagnola fu un bluff che giocò a Pertini nella partita a scopone scientifico in aereo, sulla via del ritorno. In campo, a parte la passerella premio che Bearzot gli concesse all’ultimo minuto di Italia-Germania, giocò solo per un tempo contro il Perù, nella partita che – coincidenza singolare – vide Bruno Conti siglare il suo unico gol della manifestazione.

Il mondiale di Causio era stato senza dubbio Argentina ’78. Causio insomma, sta a Bruno Conti come il mondiale sudamericano sta a quello iberico. E questo spiega la differenza fra i due. Se Argentina ’78 fu una meravigliosa incompiuta, Spagna ’82 sancì il trionfo. Forse in Argentina giocammo addirittura meglio, molto probabilmente senza quella tappa di avvicinamento non avremmo tagliato il traguardo per primi quattro anni dopo, ma la storia si è fatta a Madrid. Stesso discorso per i due calciatori brazilian style: Causio fu grandissimo, Conti definitivo. Anche perché Conti il Brasile lo batté. Causio, invece, contro il Brasile segnò (un gol di testa alla Paolo Rossi), colse anche una traversa, ma poi la sua Italia crollò sotto i colpi da fromboliere di Nelinho e della buonanima di Dirceu. E poi quella era solo la finale per il terzo posto, non la rampa di lancio verso il tetto del mondo.

Certo, se si parla di club, il più vincente dei due è senz’altro Causio, che con la Juve di Trapattoni fece incetta di scudetti (sei), vincendo anche una Coppa Uefa. Conti, nella Roma, di scudetto ne avrebbe vinto solo uno, proprio l’anno successivo al Mundial, compagno di squadra di quel Falcao a cui al Sarrià aveva strozzato in gola l’urlo del momentaneo 2-2 (nel campionato successivo Causio invece avrebbe accolto Zico nell’Udinese). Ma se la partita è fra Brasiliani d’Italia, il terreno di gioco non può che essere quello delle nazionali. E lì, vince Conti.

Il mito della superiorità del Brasile era nato in Italia dopo la finale messicana del 1970. Gli eroi del 4-3 alla Germania erano stati annichiliti con disarmante facilità da Pelé e compagni. Quel mito sarebbe stato smontato proprio nel 1982, e non a caso è in questa parentesi, dal ’70 all’82, che si affermano Causio e Bruno Conti. Dunque, è in quella dozzina d’anni che il “tropicalismo” italico vive la sua stagione d’oro. E se le partite dell’Azteca e del Sarrià hanno avuto il loro peso nell’inaugurare e concludere questa fascinazione esotica, va anche considerato un altro fattore: dal 1966 al 1980 il campionato italiano aveva chiuso le frontiere.

Con l’era degli oriundi ormai al tramonto e l’autarchia calcistica imposta dalla figuraccia contro la Corea, gli italiani cercavano insomma di arrangiarsi con dei surrogati locali, come accadeva col caffè in tempi di guerra. Ciò permise di scoprire cultivar nostrane di grande pregio, come si è visto, ma anche esemplari un po’ meno prelibati per i quali l’accostamento ad effetto con la patria del calcio-spettacolo rischia, a distanza di tempo, di sollevare qualche sorriso. Ma tant’è: non si vive di sola qualità oro.

Non Cicoria ma VERZA, faceva di cognome il centrocampista veneto che giocò, fra l’altro, nella Juve, nel Milan e nel Verona. La sua fama di brasiliano, oltre che dal genio e dalla sregolatezza (Ilario Castagner l’aveva soprannominato Van Den Bosc per la sua attitudine a scomparire nel corso della partita), derivava forse anche dal suo nome di battesimo: VINICIO. Un nome che evocava, a seconda di gusti e culture, poeti carioca o centravanti di Belo Horizonte naturalizzati partenopei. E a proposito di Napoli, fu lì che Verza siglò il gol più importante della sua carriera, il 17 maggio 1981. Fu un suo tiro (era subentrato nel secondo tempo proprio a Causio) a permettere alla Juventus di espugnare il San Paolo e involarsi verso il suo diciannovesimo scudetto. La sua conclusione di sinistro fu in realtà sporcata da una deviazione di Guidetti, e Verza finì per farsi espellere, a due minuti dalla fine, per perdita di tempo. Ma per un mito minore può andar bene anche così.

GIOVANNI ROCCOTELLI è invece l’uomo che inventò la rabona. Allora il colpo con le gambe a ics non si chiamava ancora così. Lui da ragazzino lo battezzò “incrociata”, in seguito divenne “cross alla Roccotelli“. Da quel “fondamentale”, discese anche una storica frase, a lungo usata nelle redazioni sportive ogni volta che le altre discipline, marginalizzate dal calcio, reclamavano più spazio: «Vale più un cross di Roccotelli che tutto il campionato di basket». Se fu qualcun altro a eternare il suo cognome, Roccotelli il soprannome brasiliano se l’era trovato da solo: in assonanza con Didì, Vavà e Pelé, per sé scelse Cocò. Potere della rabona (per i brasiliani letra o chaleira) o del bisillabico accentato, leggenda vuole che la stessa Perla Nera, durante un soggiorno in Italia, abbia accennato a Roccotelli. E in tempi più recenti Roberto Bettega gli rese omaggio nel corso di una telecronaca. Ma per un idolo di provincia come lui (Avellino, Cagliari, Ascoli, Cesena, Foggia e Nocerina sono alcune delle squadre in cui ha militato), il riconoscimento migliore forse resta un altro: la scritta su un muretto di tufo in un sobborgo di Taranto, che ha resistito alle ingiurie del tempo e ai propositi di imbiancatura ben oltre la fine della sua carriera agonistica. Diceva semplicemente «Roccotelli sei grande».

Dopo la vittoria del Mundial, le cose cambiarono. Negli ultimi trentanni, i fuoriclasse estrosi e quelli leziosi non sono mancati, ma a nessuno è stata attribuita stabilmente un’anima brasileira. Le giocate di un Baggio, di uno Zola, di un Cassano, solo sporadicamente hanno evocato meraviglie verdeoro. E per Donadoni, che pure per talento e ruolo (benché il termine “ala” nel frattempo fosse caduto in disuso) è stato il legittimo erede di Causio e di Conti, nessuno ha mai scomodato suffissi -ào o -inho. Certo, Miccoli è il Romario del Salento, e se proprio vogliamo scandagliare il mare dei soprannomi, ci sarebbe anche Possanzini, che a Reggio Calabria avevano iniziato a chiamare il Ronaldo dello Stretto. Ma si tratta significativamente di accostamenti a singoli calciatori più che allo stile di un intero popolo.

La verità è che nel calcio di oggi la nazionalità dei giocatori e le distinzioni fra scuole calcistiche hanno perso senso e importanza. Del resto è da tempo che l’Italia non gioca più all’italiana, ed è con uno stile moderno e internazionale che ha vinto il suo ultimo mondiale, nel 2006. Ma la verità è anche un’altra: da quando, nella fornace del Sarrià, gli umanissimi azzurri hanno abbattuto dal piedistallo i loro divini avversari, per gratificare un fuoriclasse non c’è più stato bisogno di cambiargli il passaporto. E’ per questo che Bruno Conti è stato il più grande, e al contempo l’ultimo, dei brasiliani d’Italia.

Testo di Giuliano Pavone