Brera vs Ghirelli: il derby infinito

Una guerra di parole, idee e visioni che ha diviso l’Italia del calcio per quarant’anni. Brera contro Ghirelli: il più appassionante duello del giornalismo sportivo italiano, tra catenaccio e fantasia, Nord e Sud.

Ci sono storie nel calcio italiano che vanno ben oltre novanta minuti di gioco. Storie che si consumano lontano dal campo, nelle redazioni dei giornali, tra le righe degli editoriali, nei corridoi delle tribune stampa. La più intensa di queste è stata la rivalità tra Gianni Brera e Antonio Ghirelli, un confronto che ha segnato quattro decenni di giornalismo sportivo italiano.

Non era solo una questione di visioni calcistiche divergenti. Era uno scontro tra due modi di intendere l’Italia stessa, le sue potenzialità, i suoi limiti. Da una parte il pragmatismo padano di Brera, convinto che gli italiani dovessero fare di necessità virtù, accettando i propri limiti fisici e trasformandoli in un punto di forza attraverso la tattica difensiva. Dall’altra l’ottimismo meridionale di Ghirelli, che vedeva nel calcio un’espressione di libertà e di riscatto sociale.

Le loro battaglie si combattevano sulle pagine dei quotidiani più importanti dell’epoca: “Il Giorno”, “La Gazzetta dello Sport”, “Tuttosport”, il “Corriere dello Sport”. Ogni partita diventava un pretesto per ribadire le proprie convinzioni, ogni risultato un’occasione per dimostrare la superiorità della propria visione del gioco.

Non era raro che i loro editoriali si trasformassero in veri e propri duelli verbali, con attacchi personali che andavano ben oltre la critica sportiva. I lettori si dividevano, prendevano posizione, si appassionavano a questo confronto che diventava sempre più acceso. Era un derby infinito che non si giocava sul campo, ma che ha contribuito a plasmare il modo in cui gli italiani hanno vissuto e interpretato il calcio per generazioni.

La loro rivalità ha rappresentato forse l’ultimo grande esempio di un giornalismo sportivo capace di trasformare il racconto del calcio in un’epica nazionale, dove ogni partita diventava il pretesto per una riflessione più profonda sulla natura stessa del nostro paese.

Due anime, due Italie

Antonio Ghirelli

Se c’è una cosa che questa storica rivalità ha messo in luce è quanto il calcio possa diventare specchio fedele delle divisioni di un paese. Gianni Brera e Antonio Ghirelli incarnavano due anime dell’Italia così diverse da sembrare inconciliabili.

Brera era figlio della nebbia padana, delle fatiche dei campi, di quella cultura contadina che aveva forgiato il suo carattere rude e diretto. La sua formazione passava attraverso la Resistenza, dove aveva combattuto come partigiano, e gli studi classici che gli avevano dato una solida base culturale. Il suo modo di vedere il calcio rifletteva questa eredità: pragmatico, essenziale, basato sulla consapevolezza dei propri limiti. Per lui, gli italiani dovevano accettare la propria “inferiorità” fisica rispetto ai nordeuropei e costruire su questa consapevolezza una strategia di gioco difensiva.

Ghirelli rappresentava invece l’altra Italia, quella del Sud, della passione e della creatività. Nato a Napoli, portava con sé quella visione del calcio come espressione di libertà e gioia di vivere tipica della cultura mediterranea. La sua formazione politica – prima nel PCI, poi nel Partito Socialista – e il suo impegno nella Resistenza lo avevano portato a vedere nello sport uno strumento di riscatto sociale e di modernizzazione del paese.

Il loro modo di scrivere rifletteva perfettamente queste differenze: Brera creava neologismi, mescolava dialetto e lingua alta, costruiva periodi complessi e ricchi di riferimenti culturali. Ghirelli prediligeva uno stile più diretto, essenziale, concentrato sull’aspetto umano e sociale del gioco.

Erano due modi diversi di raccontare non solo il calcio, ma l’Italia stessa. Due visioni che si sono fronteggiate per decenni sulle pagine dei giornali, contribuendo a creare quella ricchezza di prospettive che ha reso unico il giornalismo sportivo italiano.

La scintilla della discordia

Fu nel gennaio del 1961 che la lunga rivalità tra Brera e Ghirelli raggiunse il suo punto di non ritorno. Tutto iniziò con un articolo di Ghirelli su “Tuttosport”, dove il giornalista napoletano criticava il linguaggio sempre più aspro e ingiurioso di certa stampa sportiva, prendendo come esempio gli attacchi rivolti all’allenatore della nazionale Giovanni Ferrari dopo una sconfitta contro l’Austria a Napoli (1o dicembre 1960).

La risposta di Brera non si fece attendere. Dalle pagine de “Il Giorno”, firmandosi con lo pseudonimo “Jab” (il colpo diretto del pugile), sferrò un attacco frontale che andava ben oltre la normale dialettica giornalistica. Definì Ghirelli un “Pulcinella” e un “giullare“, accusandolo di essere un qualunquista senza alcuna competenza tecnica, “digiuno di tecnica sportiva” che si limitava a raccontare “quel che accade in rapporto all’orologio e ai suoi sentimenti ignari“.

Ma questa volta Brera aveva superato il limite. Ghirelli, rappresentato dall’avvocato Vittorio Chiusano (futuro presidente della Juventus), presentò una querela per diffamazione contro Brera e il direttore de “Il Giorno” Italo Pietra. La mossa colse di sorpresa l’ambiente giornalistico e lo stesso Brera, abituato a duelli verbali che raramente sfociavano nelle aule di tribunale.

La vicenda si risolse con un accordo extragiudiziale che però aveva il sapore di una vittoria per Ghirelli: Brera dovette pubblicare un corsivo di scuse e versare un milione di lire per istituire tre borse di studio sul tema “L’indistruttibile amicizia tra il Nord e il Sud“. Una conclusione che dovette risultare particolarmente amara per il giornalista lombardo, costretto a finanziare un’iniziativa che celebrava proprio quell’unità nazionale che lui, con le sue posizioni, tendeva a mettere in discussione.

Le scuole di pensiero

La disputa tra Brera e Ghirelli andò ben oltre lo scontro personale, dando vita a due vere e proprie scuole di pensiero che hanno influenzato profondamente il giornalismo sportivo italiano. Da una parte la “scuola napoletana“, dall’altra la “Lega lombarda“: due modi antitetici di interpretare e raccontare il calcio.

La scuola napoletana, che vedeva in prima linea Ghirelli, Gino Palumbo e Maurizio Barendson, predicava un calcio offensivo e spettacolare. Per loro il football non poteva ridursi a mera tattica e geometrie: era passione, creatività, estro. Vedevano nel gesto tecnico non solo la sua efficacia, ma anche la sua bellezza. Come diceva Palumbo, “il gol è vita, passione, impeto. È come succede tra un uomo e una donna: si fanno discorsi d’amore, si va nelle nuvole, ma poi ci vuole l’impeto, lo scatto, la conclusione“.

Sul fronte opposto, la “Lega lombarda” di Brera, supportata da Gualtiero Zanetti (soprannominato “il Maresciallo”), sosteneva il pragmatismo del “catenaccio e contropiede“. Per loro il calcio era prima di tutto una questione di tattica, di equilibri, di solida organizzazione difensiva. Il pareggio per 0-0 rappresentava per Brera la perfetta espressione dell’equilibrio tattico.

Al centro di questo scontro ideologico si stagliava la figura di Gianni Rivera, l'”abatino” del Milan. Per Brera era il simbolo di tutti i vizi italici: talento puro ma poco impegno, stile ma non sostanza. Per la scuola napoletana era invece l’emblema di quel calcio fantasioso e spettacolare che sognavano per l’Italia.

L’ultima stoccata

Il lungo duello tra Brera e Ghirelli si concluse nel modo più drammatico possibile. Il 18 dicembre 1992, a poche ore dalla sua tragica scomparsa in un incidente stradale nei pressi di Codogno, Brera firmò il suo ultimo articolo su Repubblica. E anche in quell’ultima occasione, non rinunciò a una stoccata verso i suoi storici rivali.

Rispondendo a un lettore che criticava il gioco difensivista di Giovanni Trapattoni, Brera coniò un nuovo termine, “sorbonagri“, per riferirsi ancora una volta ai suoi antagonisti della scuola napoletana. Era il suo modo di congedarsi, fedele fino all’ultimo a quella battaglia ideologica che aveva caratterizzato tutta la sua carriera giornalistica.

Fu un’uscita di scena in perfetto stile Brera: caustica, pungente, arricchita da un neologismo destinato a restare nella storia del giornalismo sportivo italiano. Come se avesse voluto lasciare un’ultima firma, un ultimo colpo di pennello sul grande affresco della rivalità Nord-Sud che aveva contribuito a dipingere per oltre quarant’anni.

La scomparsa di Brera segnò la fine di un’epoca. Con lui se ne andava non solo uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani, ma anche uno dei protagonisti di quello che probabilmente è stato l’ultimo grande duello intellettuale del giornalismo sportivo nazionale. Un confronto che, pur nella sua asprezza, aveva contribuito a elevare il dibattito sul calcio a un livello mai più raggiunto.

La morte di Brera lasciò un vuoto anche nei suoi antagonisti. Perché quella rivalità, per quanto aspra, aveva dato senso e sostanza al loro lavoro, spingendoli a affinare continuamente i loro strumenti critici e narrativi. Era stata una guerra di parole che aveva arricchito il modo di raccontare il calcio in Italia.

L’eredità del confronto

Il loro duello intellettuale ha contribuito a creare un nuovo modo di raccontare lo sport, dove l’analisi tattica si intreccia con la narrazione umana e sociale.

Questi due giganti del giornalismo, pur nelle loro profonde divergenze, hanno dimostrato come il calcio possa essere uno straordinario strumento per raccontare l’Italia e le sue contraddizioni. Attraverso le loro lenti, il confronto tra Nord e Sud, tra tradizione e innovazione, tra pragmatismo e fantasia, ha assunto una dimensione culturale che ha travalicato i confini dello sport.

La loro eredità si riflette ancora oggi nel modo in cui parliamo di calcio. L’attenzione alla tattica predicata da Brera si è fusa con la sensibilità per l’aspetto umano e spettacolare cara a Ghirelli, creando quella peculiare scuola italiana di giornalismo sportivo che sa coniugare competenza tecnica e capacità narrativa.

Un’eredità preziosa che merita di essere riscoperta e valorizzata, soprattutto oggi che il racconto dello sport rischia di appiattirsi sulla superficie degli eventi, perdendo quella profondità di analisi e quella ricchezza linguistica che hanno reso grande la scuola italiana.