Solido bevitore di vino e di whisky, Nicolò Carosio aveva minacciato di lasciarci da almeno quindici anni. Vi è riuscito ora, e quasi in silenzio. Aveva sconfitto la cirrosi con una disinvoltura sicuramente superiore a quella del radiocronista, che pure era grandissimo. Viveva ormai in disparte, travagliato da risentimenti sindacali che nessuno avrebbe mai osato supporre, in un calmo longilineo della sua stazza.
Era siciliano (e la sua faccia lo garantiva) ma vantava una madre inglese: in un momento di confidenza ebbe a rivelarmi che era di Cipro, dunque soltanto suddita degli inglesi. La sua voce era tersa e priva di cadute isteroidi.
Incominciò a far radiocronache quando ormai i cieli d’Europa e d’America ne erano pieni fino all’assordimento. Inseguiva la palla con una ostinazione superiore ad ogni sospetto. Non si consentiva – forse non ne sarebbe stato capace – il minimo giudizio tecnico. L’orecchio dilatava in noi le immagini, facilitate da quella specie di battaglia navale che Nick disputava in assolo da una porta all’altra. Ricordo di avere strabiliato a volte sentendolo iniziare il racconto di un’azione azzurra improvvisamente interrotta da un gol che era segnato dagli avversari. Riscontri visivi non erano possibili: a noi bastava entusiasmarci per le molte vittorie dei nostri prodi. E quando sconfitta era, ciccia a tutti quanti. La voce di Nick si arrochiva fino al dispetto. Spiegazioni tecnico-tattiche non ne venivano mai. E del resto erano inutili.
Sulle ali dell’entusiasmo o del dispetto, la nostra felice ignoranza prosperava con quella di tutti. Provate, di grazia, a rivedere una cronaca dei due Mondiali vinti dall’Italia negli Anni Trenta: se riuscite a capire com’è andata, fatevi conoscere dal povero autore d’una “Storia critica del calcio italiano”. Ve ne sarà molto grato. Trionfava su tutto e tutti l’idea di Roma e del duce. La voce del Nick era quella dell’aedo felice e fremente. Come tanti protagonisti degli Anni Trenta, mi sconcertò per la pochezza del suo senso critico. L’avvento del transistor segnò la sua drastica decadenza. Spettatori con radiolina all’orecchio sentivano il Nick e seguivano la partita: il Nick arrancava penando dietro alla palla: anche i fiati, ahi, venivano meno.
Ma soprattutto gli era fatale il nuovo andazzo: gli spettatori lo coglievano spesso in castagna e lo minacciavano rudemente. Per legittima suspicione, le ultime apparizione del Nick furono sempre confortate dalla presenza dei carabinieri. Passò alla Tv e fu ancora peggio. Nacque l’incredibile e festoso “quasi gol” che esilarò le moltitudini. Il Nick era aedo vincente e mai perdente. Nato per raccontare epiche vittorie, l’esito contrario lo aduggiava fino al dispetto. Il fegato adusato schizzava bile traverso un coledoco dilatato a pipeline.
Rimane ancor oggi classico un suo teleresoconto effettuato da Glasgow. L’Italia di Mondino Fabbri difendeva gagliardamente la propria porta in attesa del contropiede risolutore. La Scozia veniva molto elegantemente contenuta: il Nick esaltava a gran voce il modulo all’italiana, già glorificato sul campo dai trionfi di Pozzo. Vennero mancati gol facili sotto la porta scozzese. Infine, partì un terzino destro che l’ala Barison trascurò di seguire: il terzino arrivò a tiro mentre tutta l’area si andava gremendo di gente: sbottò un destro basso e maligno che sfiorò mille gambe e s’infilò nell’ angolino. Così, inopinatamente, la Scozia si portava in vantaggio. Un’ora e un quarto di magnifico calcio difensivistico venne di botto cancellato da quell’infortunio pietoso.
Il Nick trasecolò allora quanto bastava per ricordarsi di aver osteggiato a suo tempo il dirizzone difensivistico del calcio azzurro (in fondo, una involuzione utile nei confronti del modulo pozziano): quindi, apriti cielo! Il povero Mondino dovette sentirne di orribili: tutti gli italiani allibiti ascoltarono l’ultima filippica di una “voce” secondo la quale, se Cadorna avesse subito marciato su Vienna, la guerra mondiale sarebbe durata sei mesi e non quattro anni. Credo sia stato questo il capolavoro del Nick gloriosamente sopravvissuto a se stesso.
Da ultimo era bello e patetico come i suoi molti ricordi. A Varsavia, durante un accanitissimo scopone, salì dal mezzanino per andar a prendere un rinforzo di scotch in camera sua. Uscì dall’ascensore tenendo la bottiglia sull’avambraccio come un fantolino adorato. “Ehi, Nick, vieni!” gridammo. E lui: “No, debbo andare dai miei amici”. “Ma siamo noi!”. “Ah, bene!” esclamò virando immediatamente verso la nostra tavola. Ora che se ne è andato, il nostro cuore trema all’insorgere di un sospetto maligno: che il fantasioso Omero di tante battaglie sotto le Porte Scee abbia cantato anche la nostra giovinezza, ahimè, da tanto tempo perduta. Caro vecchio Nick, ti sia lieve la terra.
Gianni Brera
Repubblica – 29 settembre 1984