Candido Cannavò: Facchetti, vita serena di un Capitano

Così Candido Cannavò dalle colonne della Gazzetta dello Sport ricorda la scomparsa del grandissimo Giacinto Facchetti

Me lo trovavo davanti con i suoi occhi dolcissimi, ormai cerchiati di giallo, rinsecchito ma sempre vigoroso nella sua stanchezza senza ritorno. Lo guardavo mentre lui cercava di sorridere a Giovanna e ai suoi ragazzi che non lo abbandonavano un attimo.

E i pensieri volavano lontano, all’alba di un primo incontro, un’apparizione che poi sarebbe diventata amicizia: il maggio dell’Olimpico del ’61. Chi è quel giunco dalla cresta bionda che Herrera ha messo in campo contro il vecchio Ghiggia?Un ragazzo arrivato dall’oratorio di Treviglio. Alto, elegante, con una struttura ossea in attesa di muscoli adeguati che, col passare degli anni, avrebbero fatto di quello spilungone cresciuto in fretta un bronzo di Riace. Roma-Inter non era un big match, ma chissà per quale strana coincidenza io ero in tribuna, testimone diretto del battesimo di una delle più grandi figure della storia del calcio italiano e mondiale: Giacinto Facchetti.

SOLLIEVO

Lo guardavo adesso sul suo lettino d’ospedale socchiudere gli occhi con il sollievo di chi trova dolce l’abbandono. Ma erano attimi. La vita lo risvegliava e lui parlava, sorrideva, magari lasciava il letto per raggiungere il bagno da solo, reggendo in mano come una bandiera l’asta di una flebo. Ed era di nuovo Facchetti, in versione estrema, in un dinamismo rallentato: ma sempre il bel Giacinto. Il giallore del corpo appariva come un’offesa alla sua immagine.Lo guardavo e pensavo a un altro maggio, quello del ’64: Inter-Real Madrid al Prater di Vienna, il trionfo dei trionfi, il favoloso equipo di Alfredo Di Stefano che s’inchina all’emergente squadrone di Herrera. E Facchetti con la coppa dei Campioni sollevata al cielo, a fianco di Angelo Moratti. Ero a pochi metri dalla scena. C’era lady Erminia con i figli. Massimo era ancora un ragazzo.Oh quanti ricordi emergono ai confini della vita di un campione d’epoca come Giacinto. E io, testimone dei più importanti, faccio mentalmente un giro del mondo per legarli all’uomo stremato, ma non vinto, che mi sta davanti ed è diventato nel tempo uno degli amici più amati della vita: lui, io, le nostre famiglie.

FEDELTA’

Biografia da leggenda: diciotto anni con la maglia dell’Inter, quindici con quella della Nazionale, capostipite ineguagliato della razza dei difensori che attaccano e segnano (78 gol), campione d’Europa con la Nazionale, vicecampione del mondo, quattro scudetti, due coppe Campioni, due Intercontinentali. E chissà quante altre cose sul filo indistruttibile della fedeltà: la sua ave Maria.Interista per vocazione quasi religiosa, presidente negli ultimi anni per mandato di Moratti. Amicizia e senso del dovere. «Conosco i miei compiti – diceva – e anche i miei limiti. Non ho fatto neanche stampare i biglietti da visita». Orgoglioso e misurato. Qualcosa non ha condiviso e ne ha discusso civilmente all’interno della società. Mai, però, ha derogato dal rispetto istituzionale. L’Inter era il suo brodo primordiale. E Massimo il suo fratellino nerazzurro. Inconcepibile per lui viverne lontano.

SILENZIO

E io, quando il confine estremo della vita si avvicina, immagino che Giacinto possa ancora sollevarsi dal letto e parlare dell’ultima Inter, dopo la notte pazza della Supercoppa. E lui ne parla, gustando il fremito della clamorosa rimonta e custodendolo in quel che resta della sua coscienza. Poi cala il tempo del silenzio. E nella selva in cui viaggia la memoria, catturo un altro maggio glorioso ed emotivamente vibrante, quello del ’65. Inter- Liverpool a San Siro, c’è da rimediare alla smacco dell’andata, servono tre gol puliti, senza subirne alcuno, per andare avanti. L’uomo del destino è lui: il tiro del 3-0 scagliato da Facchetti è per l’Inter un’immagine da storia patria, il preludio alla seconda coppa Campioni consecutiva.Non si finirebbe mai di raccontare. Ma prima ancora che Giacinto chiuda gli occhi per l’ultima volta, emergono da quell’uomo sereno, sulle soglie del mistero, valori che non entrano in nessuna biografia. Lui è stato l’immagine dell’onestà: in senso totale, non solo sportivo. Lui è stato un manifesto di bellezza, vista come dono di Dio: fisica e interiore, prestigio italiano da esportare nel mondo. Lui è stato un monumento di lealtà, la sublimazione dell’agonismo: affrontando qualsiasi avversario non ha mai profittato, oltre la linea della correttezza, di quel «surplus» atletico che la natura gli aveva regalato. Il rispetto per l’uomo è stato, in campo e fuori, un comandamento della sua vita. La moglie Giovanna, forte come una quercia, i figli Barbara, Vera, Gianfelice e Luca devono esserne orgogliosi.

DOLORE

Ora, di primo pomeriggio, quegli occhi dolci si sono chiusi per sempre. E nel salutare Facchetti con il dolore di un fratello penso alla slealtà del male che lo ha colpito. Lui pochi mesi fa giocava ancora a tennis. Insorge un malessere che sembra marginale. Oddio, cosa sta succedendo? La verità, la lotta, le illusioni, le bugie, la rapida fine. Sembra un tradimento, ma tutto era scritto lassù, dove il brutto vocabolo non esiste. Ciao, amato Giacintone, ci sentiamo più poveri.