CARLOS ALBERTO Torres: O Capitão

Dal debutto in nazionale nel 1964 all’iconico gol nella finale del 1970, ridefinì il ruolo del terzino moderno consacrandosi tra i più grandi verdeoro di sempre.

Nel caldo pomeriggio del 30 maggio 1964, lo stadio Maracanã di Rio de Janeiro era in fermento. La Taça das Nações, ribattezzata dagli inglesi “Piccola Coppa del Mondo”, stava per iniziare con la partita inaugurale tra Brasile e Inghilterra. Tra i verdeoro, un giovane di soli 19 anni si apprestava a fare il suo debutto in Nazionale. Il suo nome era Carlos Alberto Torres.

Nessuno poteva immaginare che quel ragazzo sarebbe diventato una leggenda del calcio mondiale. Eppure, in quei novanta minuti, Carlos Alberto dimostrò di avere la stoffa del campione. Opposto alla stella inglese Bobby Charlton, il terzino destro giocò una partita sontuosa, mostrando una tranquillità nei tackle e un’autorevolezza nelle incursioni offensive che lasciarono tutti a bocca aperta. Il risultato finale, un clamoroso 5-1 per il Brasile, fu anche merito suo.

Per l’Inghilterra fu un brusco risveglio, mentre per il Brasile fu l’inizio di una nuova era. Una nuova stella era nata, pronta a illuminare il firmamento del calcio brasiliano per i successivi quindici anni.

Dalle strade di Rio al Fluminense

Carlos Alberto era nato a Rio de Janeiro il 17 luglio 1944, insieme al suo gemello Carlos Roberto. Cresciuto nella modesta casa di Vila da Penha, il giovane Carlos aveva imparato a giocare a calcio per strada, come tanti altri ragazzi brasiliani. Il padre Francisco, impiegato comunale di giorno e tassista di notte, sognava per i suoi figli un futuro migliore attraverso lo studio.

Ma il destino di Carlos Alberto era già scritto nel pallone. A 15 anni, gli osservatori del Fluminense lo notarono e lo portarono nelle giovanili del club. Il ragazzo si trovò così a dover conciliare lavoro, studio e calcio. Le partite della squadra ragazzi attiravano parecchi spettatori e Carlos Alberto cominciava già a guadagnare qualcosa.

Incoraggiato dal padre, il giovane abbandonò presto il lavoro per dedicarsi totalmente al calcio. A 18 anni era già titolare in prima squadra nel ruolo di terzino destro, distinguendosi per la rapidità nelle chiusure e la tecnica nelle sortite offensive.

L’ascesa nel Fluminense

Nel Fluminense, Carlos Alberto dimostrò rapidamente di essere un talento fuori dal comune. La sua velocità, unita a una tecnica raffinata e a una visione di gioco superiore, lo rendevano un terzino destro moderno ante litteram. Non si limitava a difendere, ma partecipava attivamente alla manovra offensiva, creando superiorità numerica e fornendo assist preziosi agli attaccanti.

Nel 1963, a soli 19 anni, Carlos Alberto fu convocato nella nazionale giovanile brasiliana per i Giochi Panamericani. La sua prestazione fu talmente convincente da attirare l’attenzione del selezionatore della nazionale maggiore, Vicente Feola.

Il suo debutto con la Seleção contro l’Inghilterra nel 1964 fu solo l’inizio di una carriera internazionale che lo avrebbe portato a diventare uno dei più grandi terzini della storia del calcio.

L’approdo al Santos e l’esclusione dal Mondiale ’66

Nel 1965, il Santos, la squadra di Pelé, lo acquistò per la cifra record di 200mila cruzeiros. Il club, che già disponeva del miglior attacco del mondo, aveva così trovato il tassello mancante per completare una difesa di livello mondiale.

L’impatto di Carlos Alberto fu immediato: il Santos vinse subito sia il campionato paulista che quello nazionale, la Taça Brasil. La sua intesa con Pelé si rivelò subito speciale, tanto in campo quanto fuori. I due abitavano nello stesso palazzo e svilupparono un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita.

Nonostante avesse giocato diverse amichevoli di preparazione, Carlos Alberto fu escluso a sorpresa dalla lista dei 22 convocati per i Mondiali del 1966 in Inghilterra. Al suo posto, il selezionatore Feola preferì il veterano Djalma Santos, 37enne, e come riserva Fidelis del Bangu.

Fu un colpo durissimo per l’orgoglio del giovane difensore. Anni dopo, la ferita non si era ancora rimarginata: “Non ci fu alcuna spiegazione e ancora oggi non so perché fui escluso“, avrebbe confessato Carlos Alberto.

Il capitano del Santos

Nonostante la delusione per l’esclusione dal Mondiale, Carlos Alberto continuò a brillare con la maglia del Santos. Le sue qualità di difensore implacabile nelle chiusure e di ala aggiunta nelle sortite offensive lo resero un elemento imprescindibile della squadra.

Nel 1967, quando il leggendario Zito si ritirò, fu naturale assegnare a Carlos Alberto i gradi di capitano. A soli 23 anni, si trovò a guidare una delle squadre più forti del mondo, con campioni del calibro di Pelé, Edu e Coutinho.

Sotto la sua guida, il Santos visse un periodo di grazia, vincendo per tre volte consecutive il campionato paulista (1967, 1968, 1969) e nel 1968 il Robertão, altra anticipazione del futuro Brasileiro. La sua leadership in campo era evidente: organizzava la difesa, impostava l’azione da dietro e si proiettava in avanti creando superiorità numerica.

Carlos Alberto era ormai riconosciuto come uno dei migliori terzini al mondo, se non il migliore in assoluto. Il suo stile di gioco anticipava quello che sarebbe diventato il moderno terzino fluidificante, capace di essere decisivo sia in fase difensiva che in quella offensiva.

Il Mondiale del 1970: dalla crisi al trionfo

Il 1970 fu l’anno della sua consacrazione definitiva. Tuttavia, il cammino verso il trionfo mondiale non fu privo di ostacoli. La preparazione della Seleção fu tormentata dal “caso Saldanha“, l’allenatore che aveva preso il posto di Aymoré Moreira nel 1968.

Saldanha, giornalista diventato CT, era un personaggio controverso. Spirito libero e forte bevitore, non esitava a esprimere idee politiche di sinistra in contrasto con il regime militare al potere. La situazione precipitò quando iniziò a mettere in dubbio la vista di Pelé e rispose duramente al presidente della Giunta militare che voleva intromettersi nelle scelte di formazione.

Saldanha fu defenestrato e sostituito con Mario Zagallo. Il cambio di allenatore provocò scossoni nello spogliatoio. La squadra sembrava aver perso la sua identità e i risultati nelle amichevoli pre-mondiali erano deludenti.

Fu in questo momento di crisi che emerse la leadership di Carlos Alberto. Nella notte del 28 aprile 1970, nella stanza di Pelé all’Hotel Palmeiras di Rio, si riunì la “trinità” della squadra: oltre alla Perla Nera, il capitano Carlos Alberto e il regista Gérson. I tre decisero una piccola rivoluzione tattica che avrebbe cambiato le sorti della Seleção.

La congiura di Rio e la rinascita verdeoro

Quella riunione notturna passò alla storia come la “congiura di Rio“. I tre leader della squadra, nel silenzio di Zagallo sui propri piani per la Coppa del Mondo, decisero di prendere in mano la situazione. Proposero una formazione rivoluzionaria, con Clodoaldo a presidiare il centrocampo, Tostão partner del più avanzato Pelé in attacco e Rivelino sacrificato come interno di copertura e incursore di fascia.

I tre comunicarono le loro scelte a Zagallo, che accettò di provare lo schieramento nell’ultima amichevole prima della partenza per il Messico, contro l’Austria. Il risultato fu un successo: il Brasile vinse 1-0, ma soprattutto ritrovò la forma e la fluidità perse con la partenza di Saldanha.

Ora avevamo la squadra, chiunque fosse l’allenatore“, avrebbe ricordato in seguito Carlos Alberto. “Nessuna arroganza, ma eravamo certi che se fossimo stati ben preparati fisicamente avremmo potuto vincere la Coppa del Mondo“.

Il Mondiale messicano: leadership e classe

In Messico, Carlos Alberto si guadagnò definitivamente i gradi di più grande giocatore che abbia mai indossato la fascia di capitano del Brasile. La sua leadership in campo e fuori fu fondamentale per guidare la Seleção verso il trionfo.

Nella partita d’esordio contro la Cecoslovacchia, vinta 4-1, Carlos Alberto dimostrò subito la sua importanza tattica. Le sue sovrapposizioni sulla fascia destra creavano continuamente superiorità numerica, mettendo in difficoltà la difesa avversaria.

Contro l’Inghilterra, campione in carica, a Guadalajara, il terzino giocò una delle partite più intense della sua carriera. In una sfida combattutissima, vinta dal Brasile per 1-0, il capitano verdeoro si distinse non solo per la sua abilità difensiva, ma anche per la grinta e il carattere. Un suo placcaggio ridusse a miti consigli l’ala avversaria Lee, colpevole di avere colpito con un calcio in faccia il portiere Félix in una concitata azione.

Nelle successive partite contro Romania e Perù, Carlos Alberto continuò a guidare la difesa con autorità, permettendo alla squadra di esprimere tutto il suo potenziale offensivo. La sua capacità di leggere il gioco e di anticipare le mosse degli avversari si rivelò fondamentale per mantenere l’equilibrio tattico della Seleção.

In semifinale contro l’Uruguay, in una partita carica di tensione per i ricordi del Maracanazo del 1950, Carlos Alberto fu decisivo nel contenere le sortite offensive della Celeste. Il Brasile vinse 3-1, guadagnandosi l’accesso alla finale contro l’Italia.

La finale e il gol del secolo

La finale contro l’Italia all’Azteca di Città del Messico rappresentò l’apice della carriera di Carlos Alberto. In una partita che sarebbe passata alla storia come una delle più belle di sempre, il capitano brasiliano dimostrò tutte le sue qualità.

Per 86 minuti, Carlos Alberto orchestrò la difesa brasiliana con maestria, contenendo le sortite offensive degli azzurri e partecipando alla manovra offensiva con le sue caratteristiche proiezioni sulla fascia destra.

Ma fu al 86° minuto che Carlos Alberto scrisse la sua pagina di storia. Con il Brasile già in vantaggio per 3-1, il capitano si lanciò in una delle sue caratteristiche cavalcate sulla fascia destra. Pelé lo vide e gli servì un pallone perfetto. Carlos Alberto, con un tiro di collo degno del miglior attaccante, fulminò Albertosi, siglando il definitivo 4-1.

Quel gol passò alla storia come “il gol del presidente”, perché il presidente della Giunta militare, Emilio Garrastazu Médici, alla vigilia aveva preconizzato la vittoria del Brasile proprio per 4-1. Ma per i tifosi brasiliani, quel gol rappresentava molto di più: era la perfetta sintesi del jogo bonito, il calcio spettacolare e vincente che aveva incantato il mondo.

L’immagine di Carlos Alberto che solleva la Coppa Rimet all’Azteca è diventata iconica per l’intero Brasile amante del futebol. Quel gesto simboleggiava non solo la conquista del terzo titolo mondiale, che dava al Brasile il diritto di tenere per sempre il trofeo, ma anche l’apoteosi di una generazione di calciatori straordinari.

Gli ultimi anni di carriera

Dopo il trionfo mondiale, Carlos Alberto continuò a giocare ad altissimi livelli con il Santos fino al 1974. Nonostante un breve prestito al Botafogo nel 1971, rimase fedele al club che lo aveva reso grande.

Nel 1974, un infortunio al ginocchio gli impedì di partecipare al Mondiale in Germania Ovest, privando la Seleção del suo capitano e leader carismatico.

L’anno successivo, tornò al Fluminense, il club che lo aveva lanciato. Con i tricolores conquistò il titolo carioca del 1976, dimostrando di essere ancora un giocatore di altissimo livello nonostante l’età avanzata. L’ultima tappa della sua carriera in Brasile fu il Flamengo, dove giocò nel 1977 prima di accettare l’offerta del New York Cosmos per giocare nella North American Soccer League.

Negli Stati Uniti, Carlos Alberto visse una seconda giovinezza. Al fianco di altre leggende del calcio come Pelé e Franz Beckenbauer, contribuì a popolarizzare il soccer in America. Vinse due campionati NASL con i Cosmos (1977 e 1978) prima di chiudere la carriera nel 1982 con il California Surf, all’età di 38 anni.

Per quasi due decenni, Carlos Alberto Torres aveva danzato sul palcoscenico del calcio d’élite, ridefinendo l’arte della difesa. Quando finalmente appese gli scarpini al chiodo, non lasciò solo un vuoto sulla fascia destra, ma un’eredità che sentiamo ancora oggi. Il suo stile rivoluzionario trasformò il ruolo di terzino da mero guardiano a architetto del gioco, incidendo il suo nome non solo negli annali, ma nel DNA stesso del calcio moderno.